Autore: Marco Ghisetti – 16/05/2022
LA RICOSTRUZIONE DELL’EUROPA PLURIVERSALE
di Marco Ghisetti
“È quindi più che legittimo riconoscere che, geograficamente, l’Europa non è un vero Continente e che possa perciò essere considerata come un’appendice dell’Asia […] Sarebbe quindi meglio parlare di ‘Oriente e Occidente’ piuttosto che di ‘Asia e Europa’ […] Il significato di questa bipolarità è ovviamente assai più culturale e storico che non antropologico o geografico [ed] è stato solo con l’ascesa della serie di Grandi potenze marittime (Portogallo, Spagna, Olanda, Inghilterra [e infine Stati Uniti]) a partire dal XV secolo, che l’idea di Occidente si è davvero consolidata. […] il principio dell’accerchiamento [marittimo] della Landmass eurasiatica ha dato vita, nel tempo, a quella globale contrapposizione tra ‘Oceania’ ed ‘Eurasia’”[1].
– Carlo Maria Santoro
Il concetto di Occidente geopolitico di cui parla Savin e su cui si basa l’interpretazione simbolica e geopolitica di tutta la storia moderna dell’Occidente[2], è quello fornito dall’ammiraglio Alfred Mahan nella teoria con la quale per la prima volta venne sistematizzato intellettualmente il potere marittimo e secondo cui la potenza che lo detiene è la naturale vincitrice nella lotta tra le potenze[3]. L’Occidente geopolitico non si esaurisce però nel suo essere potenza marittima, ma accoglie anche, usando le grammatiche di Georges Dumézil, la “ribellione della terza funzione”, ovvero quella produttiva, “contro le altre due”, ovvero quella sacrale/giuridica e guerriera, ribellione che “da una parte rappresenta il potere effettivo acquisito dall’elemento economico su quello politico e su quello militare, mentre dall’altra comporta una penetrazione della mentalità mercantile in tutti gli strati della società”[4].
Durante il periodo colombiano (sec. XV-XIX) il cuore pulsante dell’Occidente geopolitico fu l’Inghilterra, l’isola minore che, affiancata ad altre potenze marittime secondarie, aveva reciso, per così dire, il cordone ombelicale che la teneva legata alla terra al fine di donarsi al mare, cioè l’elemento titanico, trasformandosi in un “pesce-balena”. L’Inghilterra “divenne soggetto e centro della elementare svolta della terraferma verso l’alto mare […] erede di tutte le energie marittime allora scatenate […] divenne isola in un senso nuovo e fino ad allora sconosciuto. [Distaccando] il suo sguardo dal continente [lo alzò] sui grandi mari del mondo”[5]; essa divenne così l’egemone marittimo, la maggior potenza mondiale, che nel costruire il suo impero transoceanico diffuse quei mackinderiani “ideali democratici”[6] di cui tutt’oggi si ritiene facciano da fondamento alla civiltà occidentale, aperta e moderna, che nacque dalla morte del Medio Evo. Civiltà con aspirazioni affatto universali che, per quanto riguarda la dimensione mondiale, “negli ultimi [secoli] gli stati occidentali e democratici hanno ripetutamente cerato di costruire un ordine internazionale su di relazioni aperte e fondate su regole tra gli stati – ovvero, si sono impegnati a costruire l’ordine liberale internazionale. Questo [è] il ‘progetto liberale’”[7].
[1] Carlo Maria Santoro, Studi di geopolitica 1992-1994, Giappichelli Editore, Torino, 1997, p. 131-32.
[2]George Modelski, Long Cyrcles in World Politics, Boulder, Pinter and London, 1987; George Modelski e William Thompson, Seapower in Global Politics, 1494-1883, University of Washington Press, Seattle, 1988.
[3]Alfred Thayer Mahan, The Influence of Sea Power Upon History, 1960-1783, Boston, 1898.
[4] Claudio Mutti, recensione a Daniele Perra. Essere e rivoluzione. Ontologia heideggeriana e politica di liberazione, in “Eurasia. Rivista di studi geopolitici”, Vol. 2/2020, pp. 211-2.
[5] Carl Schmitt, Terra e mare: una considerazione sulla storia del mondo,Milano, Giuffrè, 1986, pp.17-90.
[6]Halford John Mackinder, Democratic Ideals and Reality. A Study in the Politics of Reconstruction, National Defence University Press, Washington DC.
[7] John G. Ikenberry, Liberal Leviathan. The Origins, Crisis, and Transformation of the American World Order, Princeton University Press, Princeton e Oxford, 2011, p. XI.
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