Autore: Giuseppe Romeo – 22/03/2021
«Quel fiume era la Moscova, quella città era Mosca, quella cinta fortificata era il Cremlino; e l’ufficiale dei cacciatori della Guardia che, a braccia conserte, fronte pensierosa, ascoltava distrattamente il rumore che scendeva dal palazzo Nuovo sulla vecchia metropoli moscovita, era lo zar». E’ questo uno degli incipit delle prime pagine del «Michele Strogoff» di un Jules Gabriel Verne non solo affascinato dalla fantascienza possibile e probabile nei suoi romanzi più famosi, ma anche dotato di una capacità di astrazione tale da ricondurre il suo pensiero all’interno di vicende di popoli non poi così lontani. Nel suo Michele Strogoff, Verne rende un quadro interessante di ciò che era la Russia al tempo degli zar. Una descrizione forse non così politicamente profonda rispetto alla volontà di romanzare un’avventura. Tuttavia l’aspetto politico non è secondario, suo malgrado, e ad un buon lettore non dovrebbe sfuggire. Perché, in fondo, il Michele Strogoff di Verne, scrittore francese, sottende l’idea di una Russia che superando ogni differenza fa della fedeltà ad un simbolo, per quanto autocratico, la ragione di un’idea di nazione che va ben al di là dei secoli vissuti, rappresentando l’esperienza nazionale più longeva della storia del mondo dopo l’impero romano e quello cinese. Nella nuova narrativa contro la Russia, nemica dell’Occidente (e dovremmo chiederci cosa significhi Occidente e se da questo la Russia ne è esclusa, e non lo è), a Joe Biden sfugge probabilmente un aspetto non da poco. E, cioè, il dover considerare anzitutto gli Stati Uniti l’essere una esperienza storica recente rispetto a quella della Russia, ma, anche, di rappresentare un Paese che andando ben oltre le intenzioni dei Padri fondatori ha costruito altari di violenze e di conflitti promossi in nome della democrazia. Altari sui quali, tra operazioni sul campo e ingerenze all’interno di regimi sostenendo dittatori e dittatorelli d’occasione, si è celebrato il paradosso dell’ipocrisia e dell’incoerenza e che, per questo, l’accusa fatta a Putin sembra quasi una sorta di ironica identificazione di una potenza impotente con il suo alter ego. Una potenza, gli Stati Uniti, che tra assets sparsi per il mondo e regimi sostenuti e favoriti a vario titolo e senza essere troppo schizzinosi, non può certo porsi a paladina della legalità. E non si tratta di difendere Putin da accuse vere o presunte, quanto di collocare in un quadro di ragionevolezza vizi, molti, e virtù, poche, di una potenza, gli Stati Uniti, che riteneva di poter guidare il mondo sotto un ombrello neoimperiale apertosi dopo il crollo del vecchio modello bipolare.
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