Autore: Lisa Caramanno – 08/04/2019
A una settimana dal primo Festival dell’economia civile tenutosi nel Salone dei Cinquecento di Palazzo Vecchio a Firenze dal 29 al 31 marzo – ove si è parlato, mettendo al centro le persone e l’ambiente – di economia, lavoro, giovani, innovazione, sviluppo sostenibile, buone pratiche – Vision & Global Trends ha ritenuto opportuno intervistare uno dei relatori del Festival, l’illustre economista, Prof. Stefano Zamagni, da poco presidente della Pontificia accademia delle scienze sociali, e tra i primi in Italia a riscoprire il valore e la modernità di quella che nel ’700 Antonio Genovesi battezzava col nome di “economia civile”[1] alla quale, secondo il Professore, bisogna ritornare per affrontare le tre grandi sfide del momento, ossia la questione ambientale, il problema delle diseguaglianze e, infine, la rottura del legame tra democrazia e mercato.
Immagine da Google. A destra il Prof. Stefano Zamagni al Festival dell’economia civile a Firenze
D. – Professore Zamagni, come mai l’economia civile sembra essere ritornata in auge?
R. – Da un quarto di secolo a questa parte, ci si è resi conto che il paradigma dell’economia politica che ha dominato incontrastato per quasi due secoli nel mondo occidentale non è stato capace di risolvere certi problemi. Fra questi problemi, primo la questione ecologica-ambientale. Siamo, come si dice, sulla bocca di un cratere perché il problema dell’inquinamento e del surriscaldamento climatico ha raggiunto livelli davvero preoccupanti. Per cui tutti si chiedono come mai l’economia politica, in due secoli, non sia riuscita a fermare questo disastro e a trovare forme compensatorie. Il secondo problema è quello dell’aumento delle diseguaglianze: mai come negli ultimi trenta anni, le diseguaglianze tra paesi e, all’interno dello stesso paese, tra gruppi sociali diversi, avevano raggiunto livelli che, ormai, sono noti a tutti. Quindi ci si chiede come mai l’economia politica che è valsa a far aumentare il reddito nazionale dei vari paesi e, in generale, la ricchezza mondiale, non sia riuscita a risolvere il problema di una distribuzione equa di questi risultati: questo è un problema veramente serio. E lo stiamo vedendo: gran parte delle guerre locali e dei conflitti sono dovuti all’aumento delle diseguaglianze.
D. – Questo vuol dire che il problema delle diseguaglianze si può risolvere attraverso il ricorso alla redistribuzione della ricchezza…
R. – È ovvio che si può risolvere. Ogni economista dovrebbe sapere che in un’economia di mercato se il reddito e, più in generale, la ricchezza non sono equamente distribuite, il meccanismo di mercato si inceppa. Ecco perché la distribuzione equa è necessaria non solo per ragioni etiche ma anche per ragioni economiche. La distribuzione equa risponde, in primis, a un’istanza di natura etica e, in secundis, a un’istanza di natura economica. Infatti, gli imprenditori, i detentori del potere finanziario ed economico, quelli intelligenti, hanno capito ciò e, così, non oppongono più le resistenze del passato.
D. – Ritornando ai nodi che l’economia politica non è riuscita a sciogliere, qual è il terzo problema?
R. – Il terzo grosso nodo è quello della democrazia, in altre parole, quello che è accaduto e sta accadendo è che si è rotto il collegamento tra democrazia e mercato nel senso che, fino a non molti anni fa, la democrazia è sempre stata vista come la seconda faccia della stessa medaglia: da un lato il mercato genera benessere, produce beni e servizi di ogni tipo, e dall’altro la democrazia garantisce questo potere economico affinchè non si trasformi in egemonia politica. La novità di oggi è che, da un ventennio a questa parte, vi sono paesi, pensiamo alla Cina, ma non solo, che avanzano sulla via dell’economia di mercato capitalistica pur non avendo e non volendo avere una struttura di tipo democratica. Lì c’è, ancora, un partito unico che non garantisce quelle libertà democratiche alle quali noi occidentali siamo abituati da tempo. E qui nasce il problema. Il problema è che molti ci chiedono ‘dovete decidere se volete il progresso e la crescita o volete mantenere la democrazia’. I cinesi dicono ‘noi siamo cresciuti in quarant’anni in una misura mai vista nei secoli precedenti perché abbiamo rinunciato alla democrazia’. Perché la democrazia ha dei costi, e i cinesi, sostanzialmente, ci vengono a dire ‘dovete decidere, se volete mantenere la democrazia, dovete rassegnarvi a una bassa crescita – come vediamo sta accadendo in questi tempi – oppure seguite il nostro esempio, tagliate la democrazia e così crescerete di più’.
D. – Lei come giudica l’avanzata cinese? un bene o un male?
R. – Non bisogna usare un tono moralistico. La Cina ha potuto farlo perché nella sua storia plurimillenaria non ha mai avuto la democrazia, l’Umanesimo, il Rinascimento, la Rivoluzione Francese, quindi loro, il principio democratico, non riescono neanche a capire di cosa si tratti. Loro non riescono a capire cos’è la libertà come la intendiamo noi. Per loro, la libertà è fare e seguire le direttive che vengono dal partito che, nel caso di specie, è il partito comunista cinese. Quindi per loro il problema non si pone, si pone per noi che, invece, abbiamo inventato la democrazia duemila anni fa circa in Grecia, ad Atene, culla della democrazia. Noi, fino a poco tempo fa, siamo andati avanti portando avanti il principio democratico con lo sviluppo economico, ecco perché c’è questo nuovo problema, perché pare che le due cose non possano procedere di pari passo e, quindi, qualcuno dice ‘dovete scendere’ e, infatti, quello che vediamo è il populismo. Perché c’è il populismo, il sovranismo? Perché, in Italia, fino a sei, sette anni fa nessuno parlava di populismo? Perché, evidentemente, la soluzione populista è fermiamo la democrazia – nessuno ovviamente propone l’abolizione – fermiamo la democrazia per avanzare sulla via della crescita perché diversamente ci sarebbero delle rivolte popolari.
D. – I tre problemi di cui parlava all’inizio…
R. – Sono tre grosse sfide tali da farci capire perché, come detto in apertura, da un quarto di secolo a questa parte, il paradigma dell’economia civile sta tornando in auge dopo circa due secoli. Era rimasto sottotraccia come nel fiume carsico per poi riemergere, perché ci si è resi conto che ragionando con le categorie di pensiero dell’economia politica non si riescono a risolvere questi tre nodi di cui ho parlato, altrimenti sarebbero stati già sciolti. Non sono ancora sufficienti i risultati raggiunti. Quei tre grossi problemi di cui ho parlato, all’inizio, urgono e necessitano un cambiamento di prospettiva.
D. – Quindi è essenziale ritornare ai paradigmi dell’economia civile. In cosa si differenzia dall’economia politica?
R. – I punti di differenziazione sono tre. Il primo è che l’economia civile non accetta di partire dall’assunto antropologico dell’homo oeconomicus, cioè dall’assunto hobbesiano secondo cui homo homini lupus per cui ogni uomo è un lupo nei confronti dell’altro uomo. L’economista civile – questo lo scrisse Antonio Genovesi nel 1753 – parte dall’assunto secondo cui homo homini natura amicus, per cui ogni uomo è – per natura – amico dell’altro uomo. Per cui la prima differenza è di natura antropologica, ossia che l’economista civile ha una visione ottimista sulla natura dell’essere umano, l’economista politico ha una visione pessimista, come Hobbes insegnava. La seconda differenza è che per l’economia politica il fine ultimo dell’agire economico è la massimizzazione del bene totale, invece, per l’economista politico l’obiettivo è il bene comune. E, allora, un conto è il bene totale, un altro è il bene comune. La terza differenza riguarda l’articolazione del modello di ordine sociale, ossia per l’economia politica la società si basa due pilastri: lo Stato e il mercato con la funzione di produrre valore aggiunto, reddito…invece per l’economista civile, la società si regge su tre pilastri: lo Stato, il mercato e la comunità, quest’ultima si organizza nei cosiddetti corpi intermedi ma che ha, soprattutto, una funzione di produzione: quella che noi chiamiamo, in Italia, il terzo settore, il quale non serve solo a redistribuire la ricchezza ma serve a produrla in forma nuova. Quindi, per l’economista civile, il problema, anche politico, consiste nel trovare un assetto istituzionale tale per cui queste tre entità trovino dei modi di interazione e di cooperazione fra di loro. Questa è la grande sfida che, ad esempio, abbiamo portato la settimana scorsa al Festival dell’economia civile e che ha ricevuto grande interesse perché la partecipazione è stata veramente notevole: una conferma empirica della validità di questo modo di pensare non solo all’economia ma all’intera società.
D. – Dunque, aveva ragione il sociologo tedesco Ralf Gustav Dahrendorf quando scriveva che: “La democrazia e l’economia di mercato non bastano. La libertà ha bisogno di un terzo pilastro per essere salvaguardata: la società civile.” Come valorizzare il ruolo della società civile? E, in tutto ciò, la politica?
R. – Prima di tutto, la politica dovrebbe capire questo, e comportarsi di conseguenza. Ciò, ancora, non avviene perché la politica tende a pensare al terzo settore e alla società civile organizzata come una dépendance, una supplente. Ad esempio, ci sono delle buche da coprire? si chiamano dei volontari. Si ha una concezione residualista della società civile organizzata, come comprimaria insieme agli altri due. La politica quindi dovrebbe cambiare tutta una serie di leggi: il codice del terzo settore, approvato nel 2017, va in questa direzione. Adesso, bisogna solo applicarlo con i decreti attuativi che traducano, in termini espliciti, i principi compresi in quel codice. Siamo sulla strada giusta anche se ci vuole del tempo perché queste idee non sono, ancora, molto diffuse: si ragiona, sempre, in termini di Stato e mercato, pubblico e privato. Invece bisogna dire c’è il pubblico, il privato e il civile che corrispondono alle tre entità: stato, mercato e comunità.
D. – Qual è il principio regolativo della comunità?
R. – È il principio della reciprocità, così come il principio del mercato è lo scambio, e quello dello stato è la legge e la norma che deve essere imposta e fatta seguire.
D. – E, in questo quadro, i vincoli di bilancio posti dall’Europa?
R. – Riguardo ai vincoli di bilancio, significa che si hanno delle risorse e non si può superare un certo tasso di utilizzo. Il vero problema non sono i vincoli di bilancio, il vero problema è come si usano quelle risorse. Si possono usare per fare politiche meramente redistributive, oppure per accelerare la produzione di ricchezza. Si possono usare per aumentare i livelli di consumo, oppure si possono usare per aumentare gli investimenti e così via, per cui i vincoli di bilancio è ovvio che ci siano, perché è come lo stomaco umano, non si può mangiare all’infinito. Il vero problema è cosa si mette nello stomaco. Bisogna che ci liberiamo da quei vecchi discorsi che hanno avuto solo la funzione di rallentare questo processo culturale e politico di mutamento che sta avvenendo. E il festival dell’economia civile di Firenze, di fine marzo, ne è la prova. Nessuno si aspettava una partecipazione corale di quel tipo. L’importante è avere delle idee corrette, e non fare proposte estemporanee senza un fondamento teorico.
D. – Dunque servono proposte di lungo termine che guardino al futuro. Come giudica la misura del reddito di cittadinanza definita da alcuni come una soluzione tampone?
R. – È una misura di lotta alla povertà, quella relativa, e non la povertà assoluta, perché dal reddito di cittadinanza sono esclusi gli ultimi. Il reddito di cittadinanza va ai penultimi. Questo bisogna dirlo. Quelli che dormono per strada non prendono il reddito di cittadinanza. È una misura di aiuto ai penultimi cioè ai poveri in senso relativo: su questo non c’è dubbio che vada bene, tutti sono a favore. Il punto è che, in Italia, la confusione si è creata quando si è detto che è, anche, una misura per creare posti di lavoro, questo è falso. La stessa va bene come misura di contrasto alla povertà relativa, ma come misura per creare posti di lavoro è inefficace perché usa le risorse in maniera assistenziale e non in maniera produttiva.
D. – Cosa accadrà nella società del futuro in cui le smart machine, secondo alcuni, potranno pensare e decidere? Ci sarà ancora spazio per l’uomo?
R. – Le smart machine non saranno mai in grado di decidere, al massimo saranno in grado di scegliere, non di decidere. Il punto è che si confonde la decisione con la scelta. Sono due fenomeni completamente diversi. Questo dipende da quello che oggi le nostre società saranno in grado di fare nel porre dei vincoli ben precisi all’utilizzazione dell’intelligenza artificiale, delle smart machine etc. Difatti il dibattito è molto aperto da un punto di vista internazionale, da una parte ci sono coloro che dicono che si dovrebbe andare avanti così senza preoccupazioni, e dall’altra coloro che dicono che siano necessari dei paletti entro i quali questo progresso deve muoversi. In Europa si è scelta questa seconda linea, in America l’altra. Questo fa parte anche del confronto tra Stati Uniti ed Europa. E difatti, il Parlamento europeo, il 18 dicembre scorso, ha approvato un codice che fissa dei criteri ben precisi, il più importante dei quali è quello per cui ‘l’essere umano deve sempre comandare’. Mai lasciare alle macchine la decisione, al massimo la scelta, nel senso che, se ho diverse alternative, si potrà dire alla macchina di trovarci l’alternativa che è più efficiente o efficace. Occorre, infatti, precisare che la decisione è tutta un’altra cosa, perché decisione, in latino, vuol dire tagliare: è con la decisione che si devono trovare vie di sviluppo alternative. Non si può far decidere alla macchina qual è la via di sviluppo, questa è una decisione che spetta all’uomo. Oggi il dibattitto è più che mai aperto, e avrà il suo sviluppo nei prossimi anni, perché stiamo vedendo cosa sta succedendo e cosa succede quando si lascia decidere alla macchina: il caso di Facebook e del furto dei dati ne sono l’esempio concreto, anche se si sta passando al contrattacco da parte della politica. Occorre parlare di queste cose e aprire gli occhi alla gente, e mandare un messaggio preciso alla politica che non può continuare a ignorare tale fenomeno.
D. – In uno dei suoi ultimi libri “Responsabili. Come civilizzare il mercato” lei tratta anche delle varie forme di responsabilità, e riprendendo uno dei libri più noti di G.K. Chesterton parla della differenza tra “responsabilità come imputabilità e responsabilità come prendersi cura dell’altro”. L’impresa e la finanza dovrebbero prendersi cura dell’altro per dirsi civilmente responsabili?
R. – Oggi la
responsabilità come imputabilità non è più sufficiente perché è la
responsabilità di chi compie un’azione ed è tenuto a rispondere delle
conseguenze che ne derivano. Invece, ora bisogna rafforzare il concetto e passare alla responsabilità come prendersi
cura. Quando Don Lorenzo Milani scrisse
all’ingresso della Scuola di Barbiana la
famosa frase, in inglese, “I
care”, in italiano “Mi prendo
cura”, all’inizio nessuno capì, ma voleva dire ‘io sono responsabile non solo per quello che faccio ma anche per quello
che non faccio, pur potendolo fare’. Questo è il punto. Se si riesce a
capire questa distinzione e la si applica alla finanza, la prima implicazione è
che va rifiutata la tesi della doppia moralità cioè della tesi per cui le
regole etiche per la finanza sono diverse da quelle valgono per gli altri
ambiti della vita, in altre parole la
finanza è una specie di ‘porto franco’
dove ognuno può far quello che vuole pur di massimizzare il profitto. Ecco
allora che la prima cosa che la politica dovrebbe fare con una adeguata
legislazione è quello di dire basta a questo concetto, e poi dopo avere
dichiarato questo, fare dei provvedimenti specifici, ad esempio sui paradisi
fiscali. I paradisi fiscali potrebbero essere chiusi in quarantotto ore se ci
fosse il consenso politico. Luoghi extraterritoriali dove si possono portare
soldi sporchi per riciclarli oppure per eludere o non pagare le tasse. Una
leggina impedirebbe che questo avvenisse. Quando, alcuni anni fa, la FIAT ha
trasferito il suo quartiere generale da Torino ad Amsterdam, perché l’ha fatto?
Perché in Olanda la pressione tributaria è inferiore a quella italiana. Una
fabbrica italiana nata e sviluppata in Italia che produce reddito e profitto in
Italia perché deve pagare le tasse al governo olandese e non a quello italiano?
Tecnicamente questa è una sottrazione di risorse agli italiani, perché quel
profitto è stato ottenuto da italiani, lavoratori e ingegneri italiani. Si
pensi a un altro esempio, ossia il problema dello spacchettamento riguardante
le cinque grosse imprese americane indicate con l’acronimo “GAFAM”
(Google, Apple, Facebook, Amazon, Microsoft) che essendo diventate troppo
grosse e potenti per essere tenute, gli americani stanno pensando a una legge
che li obblighi a dividersi in imprese di più modesta dimensione, perché gli
americani – che sono molto attenti al comportamento concorrenziale di mercato –
sono contro i monopoli: vorranno fare oggi quello che fecero alla fine
dell’800. Non dimentichiamo che la prima legge Antitrust
l’hanno fatta gli americani nel 1890 perché, allora, i petrolieri – soprattutto
quelli che gestivano le ferrovie – erano diventati troppo potenti, per cui li
hanno divisi. Ed ecco oggi che fra un po’ di tempo succederà così. Perché non è possibile che queste cinque imprese
finiscano col condizionare il processo di formazione delle leggi, perché questo
vorrebbe dire l’aberrazione del principio democratico.
[1] L’Economia Civile è una tradizione di pensiero economico nata in Italia a metà del 1700 sviluppatasi poi nel resto del paese, affonda le sue radici proprio nella Toscana del primo Rinascimento e trova compiutezza nel pensiero economico di Antonio Genovesi che nella Napoli della seconda metà del 1700 – titolare della prima cattedra di Economia – teorizzò come il fine ultimo di questa nuova scienza fosse la pubblica felicità, ossia il conseguimento del bene comune. A partire dall’inizio del 1800 l’economia civile viene superata e, quindi, messa nel dimenticatoio dal paradigma alternativo dell’economia politica.
Sulla materia v. Luigino Bruni, Stefano Zamagni, Economia civile. Efficienza, equità, felicità pubblica, Il Mulino, 2004.