Autore: Manfredi Orlando – 11/07/2022
Spettri sul Turkestan occidentale
L’Asia centrale è destinata a rivestire un ruolo di maggiore importanza negli anni a venire. Lo impone la sua posizione geostrategica. Un nuovo Grande Gioco, del resto, già albeggia.
L’Asia Centrale sembrerebbe possedere tutte le caratteristiche necessarie per diventare nel prossimo futuro un centrale snodo globale di confronto tra medie e grandi potenze regionali ed extraregionali. Ma non si può capire la rilevanza di questa regione senza una previa illustrazione del ruolo che essa riveste negli affari internazionali.
Nel 2001, all’indomani degli attentati dell’11 settembre, gli Stati Uniti occupano l’Afghanistan. Esattamente vent’anni dopo, nell’agosto 2021, i Talebani (ri)entrano a Kabul facilitati dalla definitiva e rocambolesca ritirata dell’esercito statunitense. È la fine della ventennale avventura a stelle e strisce nella fortezza tra le montagne del Pamir e del Karakorum, il cosidetto “cimitero degli imperi”, oggetto delle brame del Grande gioco narrato epicamente da Peter Hopkirk e Rudyard Kipling.
Gli Stati Uniti, nel corso dell’occupazione dell’Afghanistan, avevano trovato nelle repubbliche ex sovietiche situate tra il Mar Caspio e la Cina dei validi appoggi logistici per le proprie truppe e dei siti per le proprie basi militari, soprattutto in Uzbekistan (Karshi-Khanabad) e in Kirghizistan. Il primo, l’Uzbekistan, nel 2002 firmava un Accordo di partenariato strategico per la cooperazione in materia di sicurezza con gli Stati Uniti.
Anni dopo, nel 2019, gli investimenti diretti esteri dagli Stati Uniti registravano il picco: 38 milioni di dollari in Kirghizistan, 82 milioni in Uzbekistan, 40 milioni nella particolarissima e isolata satrapia turkmena. A fare da sfondo, l’inaugurazione di una serie di piattaforme di cooperazione strategica, coinvolgenti una vasta gamma di settori, tra le quali la New Silk Road (NSR) della presidenza Obama, lanciata nel 2011, cioè due anni prima che Xi Jinping svelasse la Belt and Road Initiative.
Obiettivo della NSR, oggi in stato di morte apparente, era collegare India, Pakistan, Afghanistan e Asia Centrale o, per dirla con le parole di Hillary Clinton, l’allora Segretario di Stato, costruire “una rete di collegamenti di transito per unire una regione a lungo lacerata da conflitti e divisioni”. La NSR era la prova che la presenza americana nella regione non fosse – e non sia – solo dovuta a mere necessità di praticità e logistica, e neanche alla Guerra al Terrore, ma che rispondesse all’esigenza di esercitare una maggiore influenza nell’area.
Stando ad un recente articolo del Washington Post, gli Stati Uniti continuano a essere estremamente interessati alla regione centroasiatica e vorrebbero ripartire da zero utilizzando un approccio basato sull’human intelligence (HUMINT). Approccio che dovrebbe consentire di valorizzare maggiormente gli interessi securitari nelle e delle singole realtà, ottenendo simultaneamente la loro fiducia. Approccio che, nella grand strategy americana, potrebbe persino rendere possibile un vertice a Tashkent con partecipanti i Talebani, gli -stan, le Nazioni Unite e gli Stati Uniti.
Gli -stan contesi tra l’Orso e il Dragone
La Russia, prima di ogni altra potenza, ha istituito una serie di organizzazioni macro-regionali allo scopo di integrare le economie (e non solo) delle repubbliche postsovietiche. Ad esempio l’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva (OTSC), fondata nel 1999, specializzata in affari militari e sicurezza, alla quale Uzbekistan e Turkmenistan hanno scelto di non aderire e che a inizio anno è intervenuta in Kazakistan. Ad esempio l’Unione Economica Eurasiatica, avente cinque membri permamenti e tre osservatori. E poi l’Organizzazione della Cooperazione di Shanghai, ideata con Pechino e nata con l’obiettivo di giungere ad una migliore integrazione politica, economico-commericiale e militare dell’intero continente asiatico.
Se da una parte l’attuale guerra economica a suon di sanzioni e di ritirata di grandi marchi di multinazionali occidentali dal suolo russo non sembri preoccupare più di tanto le élite moscovite, bisogna anche considerare che il mercato del lavoro della Federazione vede impiegate, come manovalanza stagionale o sottoqualificata, tantissime persone provenienti dai paesi dell’Asia Centrale, su tutti, ad esempio, il Kirghizistan – il cui PIL dipende per un terzo dalle rimesse della diaspora in Russia. Va da sé che qualora venisse a mancare lavoro a queste persone, mancherebbero gli stipendi e le altre entrate inviate in patria, il che potrebbe causare ulteriori problemi alle già fragili, precarie e povere economie-stan.
Per quanto riguarda la Cina, ha eletto quest’area geografica come uno snodo cruciale per il suo commercio via terra verso l’Europa. Tenendo a mente che il commercio è l’anticamera dell’influenza economica e, dunque, politica.
La regione dello Xinjiang, appendice-fardello del Turkestan attaccata alla Cina occidentale, di cui è parte (molto) produttiva e (molto) popolata, è stata foraggiata da una pioggia di finanziamenti nel quadro dell’allargamento di Pechino all’Asia centrale. Investimenti che per l’Occidente sono uno specchietto per le allodole utile a coprire la presunta persecuzione etno-religiosa contro gli uiguri, e che per Pechino sono un modo per alimentare stabilità e concordia sociale in una regione dilaniata dalla radicalizzazione, bisognosa di maggiore benessere economico e da secoli alla ricerca della secessione.
Lo Xinjiang è fondamentale perché il passo successivo è l’Asia centrale, in particolare Afghanistan e Kazakistan. In quest’ultimo, Pechino sta investendo molto per egemonizzare i panorami infrastrutturale, minerario e metallurgico, avendo quale orizzonte spaziotemporale la BRI, senza trascurare settori come agricoltura, ferrovie e industrie. Perché Nur-Sultan, per varie ragioni inalterabili, il portale in prospettiva verso mercati di oltre un miliardo di consumatori e l’hub dell’Asia centrale.
Turkestan, centro del mondo
È in Asia centrale che si intrecciano più che altrove gli interessi di Stati Uniti, Russia e Cina, ognuno di loro avente dei propri obiettivi – quando militari, quando culturali, quando economici e quando politici – e costretto ad operare in un campo minato, tra terrorismi, rivalità interetniche e dispute transfrontaliere. Problemi che il cambiamento climatico e un passato di disastri ambientali – lago d’Aral – potrebbero esacerbare, mettendo a dura prova le agende delle tre potenze – e delle altre parti in gioco.
Il 2022 dell’Asia centrale si è aperto con la grande rivolta in Kazakistan, è poi proseguito con i moti nel Karakalpakstan uzbeko e sta ora vedendo un curioso confronto tra il Cremlino e la presidenza Tokayev sulla questione del gas all’UE. Eventi precorritori e premonitori di qualcosa di (molto) più ampio al di là dell’orizzonte: l’aggravamento del Grande Gioco 2.0.
Manfredi Orlando, laureando in scienze politiche presso il Cesare Alfieri di Firenze, è uno studioso di storia e geopolitica dell’Asia, di conflitti e spazio postsovietico.
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