Autore: Sandro Furlan – 1/11/2019
All’inizio di questa settimana, il Presidente cileno, Sebastian Piñera ha chiesto pubbliche scuse per la gestione inadeguata dell’ordine nel paese a seguito delle violenze manifestatesi negli ultimi giorni nella capitale ed in altre città del Cile. Allo stesso tempo ha annunciato misure economiche e sociali per ridurre la pressione sulle fasce di popolazione meno favorite. Il coprifuoco è mantenuto così come lo stato di emergenza.
Il Cile è il paese sud americano con le migliori performances economiche: un PIL pro capite di 25.222 (US$ PPA), inflazione relativamente bassa scesa al 2.2% ed un tasso di disoccupazione del 6% ed un debito pubblico del 23,5 % del PIL (sic…). Ma i dati non rivelano sempre ciò che in alcuni strati della società è latente da tempo. Infatti, è bastato l’annuncio di un aumento delle tariffe del trasporto metropolitano (da 800 ad 830 pesos, aumento equivalente a 4 cents di dollaro) per scatenare una protesta per molti tratti estremamente violenta nella capitale e nelle maggiori città del paese (il fatto più grave, con l’esplosione di una bomba nella metropolitana di Santiago). La reazione del Presidente è stata immediata e molto dura (si parla di diverse vittime tra i dimostranti), inviando nelle strade l’esercito ed i Carabineros con mezzi militari pesanti. Le scene di violenza hanno riportato alla memoria i tristi giorni del golpe dell’11 settembre (data infausta) 1973 e la repressione militare che portò ad una dittatura militare tra le più dure del continente.
Oggi, il Cile è una giovane democrazia dove si svolgono libere elezioni e, tuttavia, è bastata una scintilla per far esplodere rabbia, malcontento e violenza da parte di quei strati della popolazione che più hanno sofferto le riforme in senso liberista operate negli anni ’80 dai cosiddetti “Chicago Boys”, discepoli dell’economista Milton Fredman. Il timore di una nuova recessione mondiale favorita dalla guerra dei dazi (l’export cileno rappresenta il 29% del PIL ed USA e Cina sono i primi due partner commerciali) ha indebolito parti della società che non vedono nella globalizzazione la panacea per risolvere i loro problemi. Se aggiungiamo a questo, una riforma del sistema pensionistico sul modello statunitense, comprendiamo come, malgrado le buone performances economiche, alcune fasce più deboli della popolazione siano disposte a protestare in modo conflittuale anche estremo.
Anche la Francia, con i fenomeni più eclatanti di violenza urbana a Parigi, conosce da quasi un anno una forte protesta (seppur più tenue con il passar del tempo), spesso violenta, nata a seguito della decisione del governo francese (poi a seguito delle dimostrazioni, ritirata dal Presidente Macron) di aumentare le tasse sul gasolio per autotrazione di 6 cent di Euro/l. Da segnalare che, purtroppo, in questo caso una misura dalle connotazioni “verdi”, non ha ricevuto alcun appoggio evidente dagli ambientalisti. Non ci sono stati “gilet verts” a Parigi. Va detto però che sono apparsi a Bruxelles per una manifestazione per il clima nel dicembre dello scorso anno dei gilets verts.
Ad Hong Kong, si è svolta per diverse settimane, una protesta, di natura diversa, quasi opposta a quanto avvenuto in Cile. Nella sostanza, i giovani hanno manifestato con comportamenti a bassa intensità di violenza, ma la repressione è stata affrontata con estrema risoluzione dalla polizia locale. Da anni, in effetti, i giovani della città ex colonia britannica, chiedono diritti civili e libertà che il governo di Pechino ritiene non compatibili con il sistema esistente nella Repubblica Popolare di Cina. Il PIL pro capite ammontava, nel 2018, a 64.487 (US$ PPA), mentre quello dell’intera Cina equivale a 18.210 (US$ PPA). La leadership cinese intende portare la Cina ad essere un paese consumatore e non fondato sull’ export com’è attualmente. Questa rivoluzione economica richiederà al sud ricco e prospero di finanziare questo passaggio. Hong Kong, territorio che già gode di una seppur timida autonomia, non è pronto a finanziare questo “trasferimento di risorse”.
A Barcellona, capitale della Catalogna, e cuore economico della Spagna (il PIL della Catalogna ammontava nel 2018 a 46.024 US$ PPA), la condanna ai leader della dichiarazione d’indipendenza della regione dalla Spagna, ha provocato nuovi scontri tra fautori dell’indipendenza e forze di polizia. Indipendenza voluta da molti nella regione più ricca del paese che mal sopporta la cultura spagnola che considera conservatrice e meno dinamica dei Catalani.
Cosa ci dicono questi episodi apparentemente così diversi a causa delle differenze culturali, economiche, sociali e politiche che caratterizzano queste città e territori? Forse, ci dicono che uno sviluppo sostenibile non può prescindere dalla realtà che caratterizza ogni società. Le specificità sono state rimosse dalla globalizzazione ma non sono state eliminate negli atteggiamenti individuali ed in alcune fasce di società. La nuova sensibilità ambientale che vediamo emergere con forza attraverso la diffusione dei social media, rischia di scontrarsi con bisogni, interessi (legittimi o meno) frustrazioni e reazioni violente di coloro che rivendicano altre priorità: povertà, mancanza di libertà, disagio sociale, mancanza di identità.
Il rischio che questo pianeta corre è, come spesso è accaduto nella sua storia, di sfociare nel paradosso. Certamente è sacrosanta l’istanza di agire noi tutti, individualmente e collettivamente, per ridurre il degrado ambientale. Molto è stato fatto, molto va fatto e molto si deve fare. Tuttavia, proibire, fermare, chiudere, imporre, tassare, sono termini che, seppur animati dalle migliori intenzioni, possono portarci a reazioni e comportamenti più egoisti, più autoritari più violenti. Ovviamente, ciò vale anche per altri termini quali crescita, globalizzazione, profitto deregulation quando diventano appunto ideologia e dogma a prescindere da tutto. Mentre l’ambientalismo richiede necessariamente decisioni collettive, molti paesi si rifugiano nell’illusione nazionalista. In ogni continente proliferano e crescono movimenti che si richiamano a valori che si allontanano dal multilateralismo.
Un paradosso che la maggioranza di noi non vedrebbe con favore. Lev Trotsky, un uomo che conosceva molto bene le dinamiche della violenza e lottò tutta la vita per la rivoluzione, dialogando con Freud a Vienna, definì la sintesi delle teorie psicanalitiche con una parola: Парадокс ! (paradosso !).
Senza scomodare una figura controversa della storia, od il padre della psicanalisi, forse un approccio più pragmatico, non ideologico, né tantomeno dogmatico, potrebbe aiutarci a limitare i nostri paradossi, o perlomeno cercare di ridurne l’impatto e limitarne gli effetti non desiderati.
Sandro Furlan, analista senior – Vision & Global Trends- International Institute for Global Analyses