Autore: Alexander Sheffner – 05/04/2020
Yehuda Shoenfeld, ricercatore israeliano attualmente in carica presso l’Università statale di San Pietroburgo e capo del Laboratorio dedicato all’autoimmunità dello stesso ateneo, sembra abbia scoperto la causa delle complicanze provocate dal coronavirus. Si tratterebbe di una sostanza, la cui alta concentrazione nel sangue può condurre all’esito letale.
Yehuda Shoenfeld, professore dell’Università statale di San Pietroburgo, professore onorario dell’Università di Tel Aviv, ricercatore del Centro medico israeliano Sheba, è convinto che il ruolo di biomarcatore di gravità dell’infezione da coronavirus appartiene alla ferritina. I soggetti più a rischio sono le persone con un alto livello di ferritina nell’organismo. Proprio questo parametro è legato alla gravità del decorso della malattia nei pazienti affetti dal coronavirus, per esempio, quando sopraggiunge una complicanza come la polmonite bilaterale.
“La ferritina è una proteina responsabile dell’assorbimento del ferro da parte dell’organismo”, – spiega il fondatore e direttore del Centro delle malattie autoimmune Yehuda Shoenfeld. – “Nelle cellule del corpo umano la ferritina svolge la funzione di deposito del ferro. Questa sostanza lega ioni liberi di ferro, neutralizzando in tal modo le sue proprietà tossiche e migliorando il grado di solubilità. Una carenza di ferritina provoca l’anemia sideropenica, mentre un relativo eccesso comporta l’iperferritinemia.
L’iperferritinemia, a sua volta, determina l’insorgenza di disturbi di deglutizione, astenia, calo della funzione riproduttiva, patologie epatiche, cardiache e del pancreas, disfunzioni di carattere neurologico e, in alcuni casi, problemi alla vista. L’iperferritinemia può essere registrata in presenza di gravi forme di varie malattie infettive, compresa l’infezione dal coronavirus.”
L’équipe del professor Yehuda Shoenfeld, da tempo occupata nello studio della sindrome da iperferritinemia, ha già pubblicato i risultati ottenuti dalla relativa ricerca. Purtroppo, il 50% dei malati affetti dalla sindrome non sopravvive.
Stando alle parole dello scienziato, l’eccesso della ferritina può essere una specie di risposta dell’organismo alla presenza degli agenti infettivi: non è da escludere che il coronavirus possa essere uno di loro. Durante le malattie virali, la ferritina si mostra in grado di attivare le cellule responsabili delle difese immunitarie aspecifiche, ossia i macrofagi che, a loro volta, producono delle sostanze chiamate citochine. Queste ultime lanciano segnali ad altre cellule, ad esempio, “ordinandogli” di produrre una risposta infiammatoria ed iniziare ad agire contro gli agenti estranei. Una bassa concentrazione delle citochine rappresenta per l’organismo un buon indizio, ma quando la loro quantità oltrepassa un certo limite, si rischia di sviluppare una sindrome soprannominata “tempesta citochinica”. Proprio questa è la complicanza più pericolosa dell’infezione da coronavirus. L’organismo riceve una potente “scossa” che nel 50% dei pazienti diventa la causa del decesso. La categoria dei soggetti a rischio comprende anziani e pazienti con patologie croniche gravi.
“Come dimostrano gli studi effettuati in Cina, USA e Italia, nelle persone contagiate dal COVID-19 si registra un alto livello di ferritina. Un eccesso di questa sostanza svolge il ruolo di indicatore della presenza di microrganismi patogeni nell’organismo umano. Il nostro obiettivo è capire come ridurre rapidamente il livello della ferritina nel sangue” – ha concluso il professor Shoenfeld.
Oggi gli studiosi del Laboratorio sull’autoimmunità presso l’Università statale di San Pietroburgo cercano le soluzioni per abbassare la concentrazione della ferritina nel sangue e bloccare con l’aiuto degli anticorpi la sintesi della citochina СD-143: è stato rilevato che la sua presenza funge da “spia” di un’alta probabilità di comparsa delle gravi complicanze del COVID-19. La notizia importante è che attualmente i ricercatori dell’Università statale di San Pietroburgo sono impegnati nella creazione di un vaccino contro il coronavirus a base di proteine virali come il suo componente principale.
“Per sviluppare un vaccino, abbiamo intenzione di usare le proteine del virus come il suo componente essenziale”, – racconta Yehuda Shoenfeld. “Le proteine virali non si trovano nell’organismo umano, pertanto non possono produrre una risposta immunitaria indesiderata. Il frammento non viene rifiutato dal sistema immunitario e tale fatto rende il vaccino alquanto promettente.”
Il professore Yehuda Shoenfeld è un esperto di fama mondiale nella ricerca, cura e prevenzione di malattie autoimmuni, medico israeliano, fondatore e direttore del Centro Zabludowicz per le malattie autoimmuni presso il più importante ospedale di Israele – Centro medico israeliano Sheba affiliato all’Università di Tel Aviv –, presidente del Congresso Internazionale sull’Autoimmunità. Attualmente è il caporedattore delle riviste scientifiche Autoimmunity Reviews, IMAJ, Harefuah (Israele), membro del comitato editoriale delle riviste Journal of Autoimmunity e Autoimmunity Network. Ha partecipato alla realizzazione dell’Enciclopedia medica israeliana ed organizzato oltre 20 congressi internazionali sull’autoimmunità.
Nel 2016 lo scienziato ha vinto il concorso per ottenere un mega-grant messo a disposizione dal Governo della Federazione Russa con lo scopo di sostenere le ricerche scientifiche nazionali. Dalla fine del 2016 è a capo del Laboratorio del mosaico dell’autoimmunità presso l’Università statale di San Pietroburgo.