Autore: Emanuel Pietrobon – 06/10/2021
Tra Serbia e Kosovo è scoppiata la crisi a settembre per una banalità: una legge del governo Kurti sull’immatricolazione degli autoveicoli che aveva scosso la sensibilità dei serbi. Tra carri armati serbi mobilitati e Alleanza Atlantica che aveva invitato le parti alla calma, viene da chiedersi: perché le analisi che paventavano una guerra hanno fatto un buco nell’acqua?
Tra Serbia e Kosovo è crisi da settembre, cioè da quando il governo nazionalista di Albin Kurti ha introdotto una legge sull’immatricolazione degli autoveicoli in entrata in Kosovo che ha toccato la sensibilità dei serbi, in quanto obbligati ad esibire una targa kosovara temporanea per la durata del loro transito sul territorio sotto la sovranità di Pristina. Il peggio sembra essere passato, dopo che le parti hanno raggiunto un accordo di compromesso, ma la retorica è rimasta incendiaria da entrambe le parti, con Belgrado che parla di inviare soldati per proteggere la minoranza serba e con Pristina che annuncia che l’era della sottomissione è finita per sempre.
All’apice della crisi, che aveva visto un intervento sia da parte della Russia sia da parte dell’Alleanza Atlantica, qualcuno aveva pensato che una guerra fosse realmente sul punto di scoppiare. Anche perché da queste parti, nei Balcani, la patria è molto più di un’idea: è tutto. E per i serbi, che continuano a cullarsi nell’illusione che il Kosovo sia ancora una provincia della Grande Serbia, quella legge era ed è più di un affronto: è un invito al duello.
E il duello, ce lo hanno confermato gli eventi di settembre e il perdurare delle tensioni in ottobre, è effettivamente scattato. Perché nelle strade del Kosovo settentrionale – una regione che costituisce il 10% dell’intera nazione, è composta dalle quattro municipalità di Leposavic, Zvecan, Zubin Potok e Mitrovica settentrionale, ed è abitata al 90% da serbi – è stata guerra urbana per giorni. Una guerra a base di blocchi stradali, edifici dati alle fiamme, scontri con le forze dell’ordine e assalti con granate.
I dimostranti chiedevano un passo indietro al governo Kurti, che a sua volta aveva risposto loro come i kosovari dovessero (e debbano) sottostare ad una simile regolamentazione quando entrano nel territorio serbo. Nessuna delle due parti voleva cedere all’altra, in estrema sintesi. Ma, alla fine, la tattica dell’escalation verticale controllata ha funzionato: tregua raggiunta e tensioni alleggerite.
Una fine prevedibile? Senza dubbio. Anche se grande stampa e analisi avevano fatto inutile allarmismo, facendo più disinformazione che informazione. Lo avevo previsto già il 25 settembre, all’acme della crisi – con i carri armati e gli aerei militari serbi platealmente mobilitati, sullo sfondo delle strade in fiamme del Kosovo settentrionale –, che non sarebbe successo nulla (almeno per ora). E il perché, che era sfuggito ai più, (mi) era abbastanza chiaro: Belgrado e Pristina stavano giocando, insieme, al classico giochetto del “mostrare i muscoli per evitare lo scontro”. Giochetto che, in termini pratici ed esemplificativi, significava ufficiali russi fotografati con gli omologhi serbi in luoghi prossimi al teatro degli scontri, aerei militari e carri armati serbi mobilitati, Alleanza Atlantica in stato di allerta e primo ministro albanese che sbarcava a Pristina in fretta e furia per inviare un messaggio sia al fratello minore sia al rivale serbo.
Erano giorni caotici, di stampa in palese confusione e tifoserie della rete scatenate, ma che sono terminati in un nulla di fatto. La verità, però, era davanti agli occhi di tutti. E torna utile, ai fini dell’analisi, provare a capire perché avessero (e hanno tutt’ora) torto coloro che vedevano delle similitudini tra la questione serbo-kosovara e quella karabakha, convinti che la recente vittoria dell’Azerbaigian sugli aspiranti separatisti filoarmeni potrebbe aver convinto gli strateghi di Aleksandar Vucic a tentare l’azzardo e scongelare questo conflitto assiderato. La verità è che, a meno di sorprese – quali potrebbero essere delle operazioni sotto falsa bandiera e dei gravi incidenti non previsti né ordinati dai registi degli scontri –, tra Pristina e Belgrado continuerà ad essere pace fredda, o meglio pace di piombo, come sempre. Almeno per ora – domani forse no, ma servirebbe un altro approfondimento per spiegarne le ragioni.
I motivi per cui, almeno per ora, non scoppierà nessuna guerra sono vari. E qui di seguito, noi di Vision and Global Trends, vi illustriamo brevemente i più importanti. Per quanto riguarda il Karabakh:
- Qui, a differenza del Kosovo, l’Azerbaigian poteva contare su più canali di comunicazione diretti con la Turchia. Canali fondamentali nel trasporto di armamenti, combattenti e rifornimenti.
- Turchia a parte, voli presumibilmente carichi di armi (per l’Azerbaigian) sono provenuti dai Balcani e da Israele
- I separatisti del cosiddetto Artsakh – uno Stato non riconosciuto da nessun Paese – godevano del solo supporto (militare) dell’Armenia, indi erano facilmente accerchiabili (e così è stato).
- L’Azerbaigian era pronto ad una rivincita da molto tempo e lo ha dimostrato con la guerra-lampo condotta sul campo.
Per quanto concerne il Kosovo, invece, si osservi che:
- L’attenzione della stampa russa sulla questione serbo-kosovara è stata inizialmente pari a zero, ed è andata aumentando soltanto all’acme della disputa. Si suppone, dunque, che da parte del Cremlino non ci sia l’interesse ad un intervento incisivo in stile Donbass a supporto dell’antico alleato.
- La Serbia, in caso di guerra aperta, potrebbe avere difficoltà nel ricevere armamenti/combattenti dalla Russia perché da essa divisa da un cordone Nato che potrebbe chiudere facilmente e rapidamente gli spazi aereo e terrestre.
- Non si tratterebbe di combattere uno Stato non-riconosciuto da nessuno – il Kosovo ha il riconoscimento formale di 97 Stati su 193 –, ma di combattere contro il “Kuwait dei Balcani”, cioè una realtà semplicemente intoccabile per via dell’importanza rivestita per l’Occidente, come palesato dalla presenza in loco della più grande base Nato in Europa (Camp Bondsteel).
Cos’è accaduto nel mese di settembre, dunque, e perché le schermaglie non sono cessate dopo la tregua raggiunta dalle due diplomazie? Molto semplice: trattasi di una crisi concertata utile a moltiplicare pani e pesci sia per Vucic sia per Kurti.
Vucic, verosimilmente, può (e vuole) utilizzare questa “escalazione persistente” per migliorare la propria immagine presso i serbi – persuadendoli del fatto che non si è dimenticato della questione kosovara – ed aumentare il proprio potere negoziale in sede di trattative – lo sfondo è sempre il medesimo: gli accordi di normalizzazione economica dell’amministrazione Trump –, rammemorando simultaneamente il pubblico locale e internazionale della facilità con cui la Serbia può condurre operazioni di disturbo al di fuori dei propri confini – oggi è il Kosovo, ma domani potrebbe essere l’entità serba di Bosnia (curiosamente visitata dal primo ministro serbo a inizio mese).
Kurti, invece, il 17 ottobre sarà chiamato a testimoniare sul banco delle municipali e ha bisogno di compattare l’elettorato attorno ad una minaccia tangibile ed esistenziale – quale è la Serbia – per replicare il successo delle parlamentari – vinte con il 50% dei suffragi – ed egemonizzare la piccola nazione dall’alto al basso.
Il presidente serbo, in sintesi, non ha mai avuto un amico migliore del proprio peggior nemico (e viceversa!), dato che la retorica e le azioni di quest’ultimo – entrambe miranti all’unificazione con l’Albania – hanno il potenziale di rendere possibile l’estremamente difficile: una cristallizzazione del sistema vuciciano.
I fatti hanno dato ragione a quell’analisi a caldissimo, del 25/9, dove scrivevo che: “a meno di sorprese, dunque, la crisi tra Serbia e Kosovo dovrebbe rientrare pacificamente con un accordo di compromesso. Tra loro continuerà ad essere pace di piombo, ma questo è inevitabile: non potrà esserci pace imperitura e definitiva fino a che la Serbia non accetterà l’inalterabilità dello status quo venutosi a creare tra il 1998 e il 2008. Status quo difeso armi in pugno dall’Alleanza Atlantica e dagli Stati Uniti, per i quali il Kosovo è, a tutti gli effetti, una linea rossa invalicabile”.
Un altro punto meritevole di approfondimento, l’ultimo in realtà, è il seguente. La Serbia è stata storicamente interessata alle quattro municipalità a maggioranza serba del Kosovo settentrionale, che in passato sono state al centro dei colloqui di pace – tema un do ut des: le quattro municipalità per la Valle di Presevo, regione serba a maggioranza albanese –, perciò non è da escludere che questa escalazione possa rivelarsi utile al fine della riattivazione delle trattative sugli scambi territoriali.
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