Autore: Emanuel Pietrobon – 13/08/2019
L’acquisto del sistema d’arma antiereo S400 di produzione russa potrebbe aver spaesato analisti delle relazioni internazionali e consumatori di notizie, ma la verità è una sola: Recep Tayyip Erdogan non sta inaugurando alcun nuovo corso politico prorusso, né voltando le spalle alla comunità euroatlantica, sta perseguendo l’interesse nazionale nel modo che ritiene più profittevole attraverso un’accurata e ben studiata analisi costi-benefici.
Quell’analisi dice che, in questa particolare congiuntura storica, il modo migliore per ottenere maggiori leve di pressione, potere ed influenza, a livello internazionale, è intensificare temporaneamente i legami con la Russia.
Ma si tratta solo di una fase, perciò Erdogan si sta preparando già alla sua fine, mostrando un incredibile pragmatismo, e ha deciso di accogliere nei giorni scorsi ad Ankara il neoeletto presidente ucraino Volodymyr Zelensky con una cerimonia in grande stile.
La Turchia ha promesso appoggio diplomatico all’Ucraina su tutti i dossier discussi: prigionieri politici ucraini catturati durante la guerra nel Donbass, libertà di navigazione nel Mar nero, sicurezza regionale, cooperazione industriale e commerciale, status della Crimea.
È importante l’annuncio della possibile creazione di un’area di libero scambio fra i due paesi, ma lo è ancora di più che la Turchia abbia lanciato dei chiari messaggi minatori in direzione della Russia per ciò che concerne la contestata penisola.
Erdogan ha dichiarato che il monitoraggio della condizione dei tatari crimeani è una priorità della sua agenda estera, definendo la penisola “la loro storica madrepatria”, e che il paese reitera una posizione già espressa più volte – ossia che “l’annessione della Crimea è illegale”.
Sebbene a Mosca quelle parole siano state interpretate come un “gesto di cortesia” nei confronti dell’Ucraina, ciò che è forse sfuggito è quanto accaduto durante la fase culminante della visita di Stato: i due presidenti hanno inaugurato una sede di rappresentanza dei tatari crimeani nella capitale turca.
Che cosa potrebbe succedere? Ankara ha evidenti interessi nel seguire la situazione in Crimea per ragioni storiche e culturali, ancora prima che geopolitiche: i tatari sono un popolo insediatosi nell’Europa orientale con la discesa dell’orda mongola guidata dal leggendario condottiero Gengis Khan. Coloro che giunsero, e rimasero, in Crimea si convertirono all’islam fra il 13esimo e il 14esimo secolo, finendo nell’orbita ottomana.
Da quando l’esercito della zarina Caterina II pose fine all’esperienza del khanato nel 1783, annettendo la penisola all’impero, i tatari si sono sempre considerate vittime di un’occupazione e opposto con ardore ogni tentativo di russificazione. Fra la classe politica russa è invece cresciuta la convinzione che lavorassero come quinte colonne al soldo di potenze straniere, la Turchia prima e la Germania nazista dopo.
I tatari hanno accolto con malumore l’annessione del 2014 e la loro fervida opposizione, a base di proteste, boicottaggi, ricerca di attenzione da parte della comunità internazionale, ha spinto le autorità russe ad avviare un giro di vite ancora in corso.
Il corpo di autogoverno tataro, il Mejlis, è stato sciolto e sostituito da un ente sotto il controllo del Cremlino, e l’organizzazione religiosa Hizb-ut-Tahrir (HT) è stata messa al bando e i suoi adepti sottoposti al costante monitoraggio dei servizi segreti. Più di 20mila tatari hanno abbandonato la penisola, stabilendosi principalmente in Ucraina e Turchia, e una parte di essi lo ha fatto per sfuggire ai mandati di cattura delle autorità.
Infatti, HT è ritenuto un gruppo terroristico dalla Russia sin dal 2003, nonostante operi legalmente in più di 50 paesi, fra cui Stati Uniti, Ucraina e Gran Bretagna. A Londra il gruppo ha stabilito il proprio principale centro operativo d’Occidente. L’obiettivo ufficiale del gruppo è la conversione dei non-musulmani all’islam e la riunione di tutta la ummah (ndr. la comunità dei credenti) sotto un califfato universale.
In Russia, HT è stato accusato di pianificare attività terroristiche, convertire all’islam radicale giovani nel Caucaso e nelle repubbliche a tradizione islamica, come il Tatarstan, poi reclutati per combattere in Cecenia e Daghestan, e di avere legami con le principali organizzazioni jihadiste del pianeta, come al-Qaeda.
Fino al 2014 è stato libero di operare in Crimea, dove gestiva moschee, centri culturali, scuole coraniche, luoghi di aggregazione, nonostante la massima autorità del Mejlis, Mustafa Dzhemilev, denunciasse da anni a Kyev la pericolosità del gruppo e il suo ruolo nella radicalizzazione delle giovani generazioni tatare in quanto basato sulle più estreme dottrine del wahhabismo e del fondamentalismo sunnita e finanziato dall’estero.
Per il suo attivismo anti-HT, Dzhemilev era scampato ad un attentato nel lontano 2007 pianificato da tre membri del gruppo.
La sezione locale del FSB ha stimato che HT conti almeno 10mila membri nella penisola, concentrati soprattutto a Simferopoli, e ha iniziato un’attenta operazione di monitoraggio del gruppo, ora fuorilegge e quindi costretto alla clandestinità, che solo nel 2019 ha portato all’arresto di più 30 tatari accusati di detenzione d’armi e di esplosivi, istigazione all’odio religioso, pianificazione di attacchi terroristici e tentativi di sedizione.
Ed è proprio all’HT che Turchia e Ucraina stanno rivolgendo il loro sguardo, perché si tratta della piattaforma ideale con la quale animare le diffidenze già esistenti, e il crescente distanziamento fra slavi e tatari, per far partire una guerra a bassa intensità, o un arresto civile, in stile Cecenia.
Il piano ha tutte le potenzialità per funzionare: i tatari sono una minoranza che si sente accerchiata e nel mirino di una campagna persecutoria – che ha fondamenti storici, abbastanza numerosa da scatenare caos nella penisola – rappresenta fra il 10% e il 15% della popolazione totale, in cui è in corso un risveglio religioso guidato soprattutto da predicatori estremisti al soldo di agende straniere, e che ha già stabilito contatti con attori ostili a Mosca.
È dal 2015 che i tatari politicizzati stanno portando avanti azioni di sabotaggio e dimostrative con il supporto di esperti paramilitari ucraini – la più celebre ha portato all’interruzione dell’elettricità nell’intera penisola proprio in quell’anno, mentre gli islamisti sono partiti alla volta della Siria per combattere contro Bashar al-Assad o fra le fila del Daesh.
Quest’ultimo punto è il più meritevole di attenzione. Il già citato Dzhemilev, all’indomani della proclamazione di nascita dello Stato Islamico da parte di Abu Bakr al-Baghdadi, dichiarò di esser stato avvicinato da numerosi tatari, intenzionati a lanciare una guerra santa contro i russi e alla ricerca di appoggi per iniziarla.
Secondo il think tank American Center for Democracy più di 100 tatari crimeani si sarebbero arruolati in gruppi d’opposizione anti-Assad vicini al mondo jihadista, mentre i servizi segreti russi hanno accertato che solo nell’anno 2013 sono state 30 le partenze di chi ha giurato fedeltà ad al-Baghdadi.
Il quadro potrebbe essere ancora più fosco, dal momento che i dati sono i fermi a cinque anni fa’: chi voleva lasciare la penisola per i suscritti motivi lo ha fatto fra lo scoppio della guerra civile siriana e l’occupazione russa, perché poi il territorio è stato sigillato. È legittimo supporre che una parte dei 20mila tatari crimeani che ha optato per la fuga abbia poi avuto come destinazione finale la Siria.
Ed è proprio a partire dall’arrivo di combattent tatari crimeani in Siria che nei circuiti virtuali del jihadismo si inizia a discutere, e anche molto, dell’annessione della Crimea, un argomento dapprima completamente ignorato dal terrorismo islamista. Sia russi che statunitensi hanno appurato che #NafirForUkraine diventò fra gli hashtag più popolari del 2014 nelle piattaforme sociali jihadiste di tutto il mondo – utilizzato soprattutto in Arabia Saudita.
“Nafir” è un termine che secondo gli esperti del terrorismo è stato popolarizzato con l’ascesa dello Stato Islamico ed è un richiamo al jihad, un invito all’azione diretto verso volenterosi, lupi solitari, e cellule dormienti. È attraverso questo richiamo che l’organizzazione terroristica di al-Baghdadi ha attratto combattenti stranieri da tutto il mondo.
È vero, in Crimea non c’è ancora stato alcun attentato terroristico, né ci sono ancora segni di velleità apertamente secessioniste o riottose, ma questo è avvenuto per via dell’intensa e senza sosta attività di antiterrorismo del FSB. Attività che Stati Uniti, Unione Europea, Ucraina e Turchia reputano invece legittimata da altre ragioni: la repressione del dissenso popolare verso l’annessione, che è proprio rappresentato dai tatari, che non sarebbero potenziali jihadisti ma semplicemente dei fervidi oppositori.
In Russia sembra esserci la consapevolezza che la Turchia stia guidando un’agenda pericolosa, ma quanto questa consapevolezza sia radicata e attentamente valutata non è dato sapere. Ciò che è certo, è che il neo-ottomanesimo dell’era erdoganiana è diretto a ricostruire aree di influenze su tutti quei paesi che furono sotto dominio della Sublime Porta e su tutti i popoli legati dalla comune identità turanica.
In questo contesto di recupero del pensiero turanista si inquadrano le strette relazioni con l’Ungheria di Viktor Orban, i paesi dell’Asia centrale ex sovietica, e l’interesse verso la questione dello Xinjang. Non si tratta, quindi, soltanto di panislamismo e neo-ottomanesimo. Proprio le ambizioni sui popoli turchi e turanici hanno portato la Turchia gettare gli occhi sui popoli che abitano il Caucaso russo e i tatari.
Ma i tatari non sono stanziati soltanto in Crimea, perché durante l’epoca staliniana delle deportazioni di massa e dei trasferimenti forzati, molti di essi furono obbligati a insediarsi in ciò che oggi è la repubblica autonoma del Tatarstan. Anch’essa, similmente alla Cecenia, negli anni ’90 mostrò ambizioni secessioniste, ma i leader furono convinti a ritrattarle attraverso una serie di ampie concessioni, fra cui la libertà di poter condurre una politica estera semi-indipendente.
Ma fra i tatari dell’entroterra sono aumentati processi di radicalizzazione religiosa, le trasferte in altre città per commettere attentati terroristici contro obiettivi cristiani, o semplicemente russi, gli arruolamenti nei gruppi jihadisti che hanno dominato il Caucaso settentrionale a cavallo fra i ’90 e la prima parte degli anni 2000. Una situazione che ha portato la repubblica autonoma sotto la lente attenta dei servizi segreti, facendo loro scoprire il ruolo svolto in attività di proselitismo da predicatori wahhabiti, dell’HT, e dall’insospettabile Organizzazione Internazionale della Cultura Turca con sede ad Ankara.
Quest’ultimo evento ha spinto Mosca a ridurre la libertà politica del Tatarstan in ambito estero, obbligando ad esempio a troncare i rapporti con l’organizzazione panturca, e a imporre forti limitazioni a tutte le attività turche nella repubblica, che sono particolarmente intense, che coprono ogni ambito: dalla religione alla cultura, dall’industria al commercio.
Erdogan ha già una strategia chiara e ben delineata per il dopo-Russia, e il Cremlino che deve elaborare un’adeguata contro-strategia, che non sia soltanto basata su monitoraggio e repressione – perché il rischio è di favorire indirettamente i piani dei rivali.
La radicalizzazione è in crescita, i sentimenti antirussi sono diffusi, i sequestri di armi da fuoco ed esplosivi già ci sono stati, e i legami con il jihadismo internazionale e con i paramilitari ucraini sono stati accertati; se l’Occidente deciderà che il capitolo Crimea non è stato chiuso, lo farà tentando di trasformarla in una nuova Cecenia, e gli ingredienti per il successo del piano ci sono tutti.