Autore: Manfredi Orlando – 28/06/2022
Gli Stati Uniti hanno le idee più chiare di quanto non sembri: il doppio contenimento di Russia e Cina come strumento con cui costringere i due aminemici ad una convivenza autodistruttiva. Ma funzionerà?
La guerra in Ucraina è stata un’occasione ghiotta per gli Stati Uniti, per i quali l’osservazione della Russia in azione ha significato studiarne il sistema logistico, l’apparato decisionale, l’arsenale e il funzionamento dell’esercito. Gli Stati Uniti hanno già tratto il loro bilancio: il mito dell’invincibile Armata rossa è crollato.
Anche la Cina è molto interessata all’osservazione delle parti in gioco, più che altro in ottica di ipotetica invasione di Taiwan e per comprendere logica e funzionamento delle guerre economiche dell’Occidente. Sono gli Stati Uniti, comunque, i principali osservatori partecipanti: e ora, avendo ottenuto ciò che volevano, si sono convinti del fatto che la minaccia russa non è poi così tanto minacciosa. Anche perché la Russia, a causa di questa guerra, si è avvicinata ancor di più alla Cina ed è proprio sul mutuo annullamento dei due rivali che scommettono gli Stati Uniti: le mire energetiche (e non solo) cinesi su Siberia, Estremo Oriente e Artico come catalizzatori di uno scontro con la Russia, la Russia “affogata” dall’Asia e un nuovo Ivan I quale sul trono del Cremlino.
Tornando alla Cina, il nodo che spaccherà il pettine è chiaramente Taiwan. Ma una guerra per procura all’ucraina qui non sarà possibile: geografia e altri fattori lo impediscono. Eppure, gli Stati Uniti neanche potranno stare a guardare se Pechino decidesse di procedere all’agognata unificazione con Taipei. Perché Taipei è il dito, l’egemonia sull’Indo-Pacifico è la Luna. Per i cinesi Taiwan è la base che li proietterà nel Pacifico inoltrato, emancipandoli da quell’antistorica condizione tellurocratica alla quale sono costretti dal 1949. E chi domina i mari, Mahan docet, ha più possibilità di competere per l’egemonia globale.
La RPC, con l’eccezione del 1967, non ha mai avuto avventure belliche al di fuori di casa – non le pertiene storicamente. E quelle poche incursioni che hanno avuto luogo, sono state primariamente dirette al Sudest asiatico e secondariamente per affrontare la pirateria. Esperienze non belliche fuori casa, però, sì, la Cina ne ha avute: si pensi al viaggio esplorativo del navigatore Zheng He, agli albori del XV secolo, fino al Corno d’Africa.
Tornando al presente, il PCC sta oggi puntando nuovamente sul Sudest asiatico, lo storico e naturale giardino di casa della Cina, siglando accordi e trovando appoggi politico-economici nei paesi-chiave della regione, dalla Birmania al Laos. Altrove, come nell’ostico Vietnam, si sta giocando la carta degli investimenti e delle grandi infrastrutture per corteggiare un popolo e una dirigenza storicamente refrattari alla cooperazione coi cinesi.
Perché il Sudest asiatico sia importante per Pechino è chiaro: è l’appendice naturale del sino-mercato, che dal centro nevralgico di Kunming potrebbe diramarsi verso Bangkok, Vientiane, Ho Chi Minh, Naypydaw, Yangon e Shianoukville, assicurando ai cinesi una “seconda frontiera”, a sud, tra l’altro con potenziale di proiezione esterna.
Il mantenimento della stabilità nel Sudest asiatico è vitale anche e soprattutto nel contesto della Belt and Road Initiative che, lanciata nel 2013 da Xi Jinping, rappresenta la massima espressione della visione cinese per la globalizzazione. BRI che nelle sue molteplici traiettorie giunge nel cuore dell’Europa, ad esempio a Lodz (Polonia), e traversa l’Asia centrale, con epicentro il Kazakistan. Un progetto troppo grande per essere securizzato per intero, perciò è lecito attendersi sorprese negli anni a venire. Si pensi, ad esempio, ai moti kazaki di inizio anno.
Punti sensibili, del resto, la BRI ne ha parecchi: dalle rivalità interetniche ed energetiche strumentalizzabili negli -stan all’Afghanistan nuovamente talebanizzato, passando per l’Iran e, soprattutto, il Pakistan. Non è facile pronosticare dove scoppierà il prossimo incidente, ma una cosa è più che certa: prima o poi gli Stati Uniti prepareranno una “trappola ucraina” alla Cina lungo le Nuove vie della seta. E se la Cina cadrà nel tranello, ecco che gli Stati Uniti potranno finalmente studiarla all’azione. Nell’attesa del fatidico redde rationem.