Author: Vincenzo Maddaloni – 26/01/2019
“Che Berlino sia l’ultimo muro della Storia umana” come intonò il presidente americano Reagan, ce lo siamo augurati tutti il nove di novembre del 1989 quando l’Antifaschistischer Schutzwall eretto in una notte dai soldati russi, cadde e con esso si frantumò l’immagine di un Europa che per ventotto anni si mostrò al mondo, liberale e capitalista, marxista e socialista. Tuttavia, questa dicotomia nata con la Guerra Fredda e che è sopravvissuta al Muro, resta all’origine dei tanti dilemmi politici e dei malesseri sociali che si trascinano da trent’anni e che si sta coagulando in un nazionalismo inquietante.
La disintegrazione dell’Unione Sovietica, la riunificazione della Germania e il movimento su vasta scala di migranti, di profughi hanno alimentato nell’Europa riunita – da subito – le diffidenze tra Stato e Stato, che sovente si sono tradotte in diatribe con effetti allarmanti per la stabilità di un’Unione europea in quanto tale.
Eppure proprio davanti alle macerie del muro di Berlino il presidente Reagan affermò che, qualsiasi ostacolo alla mobilità delle persone e dei capitali andava considerata come una minaccia per l’intera umanità. E il suo invito era stato accolto con entusiasmo dalle moltitudini osannanti che in quei tempi confidavano nelle promesse dell’Ovest capitalista.
Conclusione? Da tre anni a questa parte, spesso ogni lunedì a Dresda ci sono cortei con di manifestanti che marciano indossando le scarpe di tutti i giorni in sintonia con il loro abbigliamento curato, da media borghesia insomma. Si dichiarano i difensori della “cultura tedesca dalle invasioni degli immigrati islamici”, e marciano con slogan, canti, e qualche fiaccolata. Sono i Pegida (in tedesco: Patriotische Europäer gegen die Islamisierung des Abendlandes, che tradotto significa: Patrioti europei contro l’islamizzazione dell’Occidente), i quali si battono per ottenere dal governo Merkel delle misure più restrittive in materia di immigrazione. Sostengono e votano l’ Afd, Alternative für Deutschland, il partito di opposizione che predica un estremismo di chiaro stampo xenofobo e che fa leva sullo scoramento del tedesco-medio che non ama convivere con gli immigrati.
Così, il populismo dirompente nella Germania del welfare è diventato un fenomeno sul quale si sono appuntati gli occhi dell’Europa intera. La Germania del benessere – dal 2013 anno di nascita dell’AfD – è considerata il laboratorio migliore dove poter osservare e analizzare il fossato che si allarga a dismisura in ogni parte d’Europa, tra la gente comune e la piccola e media borghesia da un lato, dall’altro lato gli immigrati giunti, in nome della libera circolazione delle persone e dei capitali, dal Sud del mondo.
Una immigrazione massiccia e incalzante, tale da generare nuove guerre fra poveri già gravati dal disgregamento del sistema economico capitalista, e dai fenomeni di terrorismo islamico che rendono lo scenario ancora più disperante. Pertanto anche la rabbia dei tedeschi è entrata – alla grande – con l’AfD nel Bundestag, come i Podemos in Spagna, il Front National e France Insoumise in Francia, il Movimento Cinque Stelle e la Lega in Italia.
Il fascismo non sorge improvvisamente, in una democrazia. Non è facile convincere la gente a rinunciare alle proprie idee di libertà e di civiltà. Bisogna fare dei tentativi che, se sono ben attuati, servono a due scopi: abituano la gente a un qualcosa da cui potrebbe inizialmente rifuggire; consente di perfezionare e calibrare i meccanismi per dimostrare alla gente esitante che la troppa democrazia è il peggiore. Questo è ciò che sta accadendo in Europa, saremmo dei folli a non volerlo ammettere.
Il fascismo non ha bisogno di una maggioranza, poiché di solito arriva al potere con al massimo il quaranta per cento dei voti. Poi usa il controllo e l’intimidazione per consolidare quel potere. Quindi non importa se la maggioranza della gente li odia, a patto che il quaranta per cento li supporti in modo fanatico, come sta accadendo in Italia, il paese con tutti i requisiti per diventare l’indiscusso primus inter pares di questa nuova realtà.
Il fascismo naviga sull’onda della crisi economica, che ha mostrato i limiti della politica di fronte allo strapotere dell’economia. Infatti, se la si vede da fuori nasce la convinzione che, la società che consuma sia la più “libera”, e pertanto la più “democratica” e la più “prospera”. Poi, quando se ne diventa parte, ci si accorge che benché vi trionfi l’individualismo moderno di matrice liberale e progressista, essa finisca con l’ opprimere i popoli, ovvero i loro intrinseci bisogni di socialità, solidarietà, stabilità, comunità, e dunque di autentica libertà.
Il fascismo fa leva sul malessere e vi costruisce sopra la sensazione di inevitabile minaccia, della quale l’autore sarebbe un gruppo esterno, distante dalla cultura dei residenti, meglio ancora se già disprezzato e perciò disumanizzato. Soltanto dopo aver raggiunto questo obiettivo, il fascismo può gradualmente alzare la posta. È questa la fase sotto esame in Europa. In Italia il compito se lo è assunto Matteo Salvini, leader della Lega e ministro dell’Interno. Indaga usando il twitter come una spada.
Come la prenderebbe la gente se respingessimo le barche dei rifugiati? La maggioranza dei commenti sui social ha applaudito la decisione di Salvini di lasciarli a mollo. E se quei migranti fossero annegati nel mare? E’ fin troppo facile dedurre che quella maggioranza non vi avrebbe pianto, perché il credo salviniano rintrona su quelle “razze che arrivano da noi per infestarci.”.
È facile liquidare Matteo Salvini come un ignorante, non da ultimo perché lo è. Ma di una cosa ha una conoscenza profonda: la potenza di twitter, il social con il quale la celebrità si ravviva e si consolida con le dichiarazioni d’effetto, sovente oltraggiose, che poi si possono confermare o negare, secondo di come reagisce la gente. Stessa la tattica in televisione: dì qualcosa davanti alla telecamera, nega di averlo detto, cambialo un po’, ripeti. Ha funzionato, funziona per tutti i leader di questa pasta sparsi nei governi d’Europa.
E’ dagli anni Novanta, quasi subito dopo la caduta del Muro che si iniziò a predicare l’odio al “diverso”. A quel tempo, gli occhi degli europei si puntarono sulla Slovacchia, la quale dopo essersi staccata dalla Repubblica Ceca, aveva eletto a suo nuovo leader, Vladimir Meciar. Costui si rivelò presto come la quintessenza del populismo e pertanto è rimasto un modello da imitare. Un esempio? Meciar introduceva errori di grammatica nei manifesti della sua campagna elettorale per dimostrare la sua vicinanza al popolo. Discriminava la comunità ungherese presente nel paese al punto tale che – anno 1997 – propose persino un trasferimento in massa della minoranza in Ungheria.
Inoltre, fece approvare una campagna per “slovacchizzare” la cultura ordinando che il trenta per cento della musica trasmessa alla radio fosse di compositori slovacchi. Infine, strinse il controllo sui media fino a strozzarli. “I primi anni del governo di Meciar furono quasi peggiori di quelli passati sotto il comunismo.”, dichiarò lo scrittore Martin Simecka. Le inclinazioni antidemocratiche di Meciar costarono alla Slovacchia l’entrata nell’Unione europea a fianco della Repubblica Ceca, l’Ungheria e la Polonia.
Nel 1998, gli slovacchi riuscirono allontanare Merciar dal potere, con le elezioni vinte dai giovani e dai tantissimi apatici accorsi in massa alle urne. La loro clamorosa vittoria spalancò (2004) alla Slovacchia la porta dell’Unione europea.
Malauguratamente, il successo elettorale tradotto in governo, non riuscì a lenire quel sentimento di disperazione che i molti slovacchi provavano convivendo col capitalismo dell’austerità, della globalizzazione. Infatti, comparve sulla scena un altro populista, Robert Fico, che riuscì a macinare simpatia denunciando l’austerità, rottamando le tasse più odiate e criticando la privatizzazione. Vinse le elezioni, è iniziò a governare con un piglio di molto simile a quello del presidente americano Trump.
Denunciò il flusso di migranti, dichiarò un “suicidio rituale” la politica di accoglienza dell’Ue. Definì “anti-slovacchi” i critici, del suo partito, riappropriandosi della tattica alla Meciar. Sulla presenza dei Rom sentenziò che, la soluzione migliore per togliere loro la voglia di rimanere in Slovacchia, sarebbe stata quella di internare tutti i loro bambini in appositi collegi. Scatti alla Trump, per intenderci.
L’esempio slovacco calza bene per meglio capire quello che sta ora accadendo. Dagli inizi del secolo fino ad oggi la povertà in Europa si è via via urbanizzata, si è “ringiovanita” perché i giovani sono più poveri delle generazioni precedenti, persino in Germania sebbene non si siano raggiunti i picchi di disperazione dell’Italia, della Spagna, della Francia per non parlare della Grecia. Eppure, benché la situazione sia di gran lunga migliore rispetto all’Italia, alla Spagna, alla Francia, il populismo tedesco è un fenomeno in crescendo, non episodico e nemmeno elettorale.
Conclusione, non si può ancora parlare “della” “identità europea” bensì “delle” le identità europee”. Al plurale. Significa che non c’è ancora quella “Europa unita” che i padri fondatori pensavano di realizzare. Quante “Europe” ci sono? Quanti paesi sono paesi europei? Che cosa significa essere europeo? Credo che a queste domande non vi si possa rispondere finché non si risolve il problema degli immigrati.
L’approccio europeo con le genti del Sud del mondo prevalentemente si basa sulla convinzione della superiorità dell’ “uomo bianco”. E’ un’eredità del suo passato di dominio coloniale durante i quali si imponeva alle genti assoggettate un destino dipendente gestito sugli interessi degli europei.
Il concetto della superiorità dell’ “uomo bianco” ha origini antiche, ed è stato, di continuo rilanciato. Ad esempio, nei primi decenni del diciannovesimo secolo Klemens von Metternich, lo statista austriaco, sentenziò che “Asien beginnt and der Landstrasse”, cioè che l’Asia intesa come il Sud del mondo cominciava in una strada della periferia di Vienna, dove vivevano gli immigrati dai Balcani.
Infatti, lungo quel percorso l’Europa coloniale estese il suo dominio supportata, di volta in volta, dall’ evangelizzazione, dall’ imperialismo, dal neocolonialismo. I sottomessi ne hanno ancora il ricordo trasmesso dalle generazioni che li hanno preceduti, e ne sono succubi. Naturalmente, il concetto di subalternità delle genti di “colore” è sopravvissuto alla caduta del Muro, all’implosione dell’Unione sovietica.
Ne è un esempio (dicembre 2018) la guerra che si è scatenata intorno al Global Compact for Migration, il documento dell’Onu che stabilisce alcune linee guida nella gestione dell’immigrazione e dell’accoglienza dei richiedenti asilo sulla base delle ultime indicazioni di studiosi, operatori e funzionari. Il documento non è vincolante, perché chiede un approccio comprensivo, più che stendere una serie di proposte concrete. Tuttavia, fra i 23 obiettivi che esso si pone ci sono molte norme già previste dal diritto internazionale, come “affrontare e ridurre le vulnerabilità dei migranti”, “combattere il traffico degli esseri umani”, e così via.
In sintesi, l’obiettivo del Global Compact è, «un’immigrazione illimitata e uguali diritti per tutti e la legalizzazione dell’immigrazione illegale». Non mancano gli incentivi finanziati a sostegno di una maggiore cooperazione fra gli Stati per meglio gestire il fenomeno migratorio, assieme a qualche proposta di sapore politico, come l’apertura di vie legali per l’immigrazione.
Francia e Germania, si erano subito detti disponibili a sottoscrivere il Global Compact for Migration . Di parere contrario, Ungheria, Polonia, Slovacchia, Austria e Italia inclusa che non l’hanno votato.
Va pure sottolineato che la Germania svolse, «un lavoro sostanzioso insieme all’Onu nel sostegno a profughi, migranti e sfollati nei Paesi di origine, transito e arrivo». E dunque l’orgogliosa constatazione – suggellata da una nota del ministero degli Esteri tedesco – che, «la Germania ha contribuito attivamente all’elaborazione di entrambi gli accordi con proposte per la stesura dei rispettivi testi».
Tanto bastò per scatenare contro la patria della cancelliera Merkel un think tank assordante e per molti versi minaccioso, gestito dai paesi dell’Est e del Sud dell’Europa. L’Est rappresentato dai paesi dell’ex Patto di Varsavia; il Sud geograficamente periferico anche nella sostanza, sebbene con realtà molto diverse dall’Est. Mi sto riferendo a Portogallo, Spagna, Italia meridionale e Grecia. E così, vivono le due Europe di sempre, quella del centro e quella della periferia, con la prima che non ha mai concepito di poter imparare qualcosa di positivo dalle vicende della seconda.
Da qui la ragione dei moltissimi progetti scartati, screditati, abbandonati, demonizzati perchésovente sulle decisioni non si raggiunge l’ intesa. Le due Europe, così operando, sono al punto zero in fatto di innovazione sociale e politica. In questa fase che sembra debba durare all’infinito, non riesce a liberarsi dalla “dipendenza” americana. Si pensi ai versamenti gravosi, imposti per tenere in piedi la Nato, inutile dal momento che il Patto di Varsavia non esiste più. Si pensi alle nuove sanzioni di Trump all’Iran, e al danno che quelle sanzioni arrecano alla Germania e all’Italia i maggior partner commerciali della repubblica degli Ayatollah.
E’ giusto, è sbagliato che gli Europei debbano acquistare le armi fabbricate negli Stati Uniti? Certamente è il momento ideale per far leva sulla confusione. Gli iraniani sono i “cattivi”, i sauditi i “buoni”. Pertanto, i politici e il mainstream istruiti dagli americani indicano – è un esempio tra tanti – l’Arabia saudita come la culla dell’Islam moderato, ignorando o fingendo di non sapere che i sauditi hanno compiuto 18 mila e cinquecento raid aerei sullo Yemen, con una media di 14 bombardamenti al giorno, in larga parte finalizzati a terrorizzare la popolazione civile, provocando almeno 56 mila morti.
Tant’è che su quella tragedia uscì sul Foreign Policy un articolo dall’eloquente titolo: “L’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi stanno affamando gli yemeniti fino alla morte”. Del resto lo scorso settembre le Nazioni Unite avevano reso pubblici delle numerazioni agghiaccianti: “Quattordici milioni di yemeniti, circa la metà della popolazione, si trovano sul baratro della fame e senza la cessazione immediata di bombardamenti e di embargo sarebbe impossibile impedire una strage di massa”.
A conferma che non accade nulla per caso, c’è Israele, avamposto della “civiltà occidentale” nel mondo arabo, che ha instaurato rapporti sempre più stretti con le peggiori teocrazie dispotiche del Golfo, fingendo di non sapere – altro esempio tra i tanti – che il principe bin Salman, mentre “concedeva” la patente alle donne, faceva arrestare con capi di accusa assurdi “alcune fra le più note attiviste saudite dei diritti delle donne”.
Sono scenari poco conosciuti ai più e sui quali i grandi mezzi d’informazione glissano per rendere ancora più credibile l’immagine degli “arabi moderati” che si appiccicano alle teocrazie del Golfo, demonizzando quanti, nel mondo arabo, persiano e via dicendo, si ribella alle politiche imposte da Washington.
Questa strategia amplificata dal mainstream, che si affina ogni giorno e da anni, è nata per far sì che la gente famigliarizzi con ideologie e con le volontà distruttive e lentamente si convinca che queste idee sono le sue idee. Sicché di fronte a un fatto improvviso, di quelli scioccanti come lo può essere un attentato con morti e feriti, la spiegazione che le masse si danno sull’accaduto è in sintonia con quello che il potere vuole.
Di molto influisce la delusione degli europei che tutto potevano immaginare, ma non che la globalizzazione gestita dagli Stati Uniti di colpo cessasse, perché così avevano deciso i suoi gestori. Infatti, è nel pieno della crisi economica che il presidente, Donald Trump iniziò, con il suo ormai famoso discorso sul muro da costruire lungo il confine col Messico, a rilanciare la retorica anti emigranti, poi raccolta dai movimenti populisti disseminati in tutta l’Europa.
Due anni prima della pubblicazione di “Memorie dal Sottosuolo”, Dostoevskij, nel ricordo del suo viaggio (1884) in Europa occidentale, lasciò scritto che aveva incontrato una società dominata dalla guerra di tutti contro tutti, e ne aveva dedotto che la maggior parte era condannata a perdere.
Nel 1950, nella sua prefazione a “Le origini del totalitarismo” – un mega best-seller su Amazon – Hannah Arendt ci raccomandò di dimenticare l’eventuale restaurazione del vecchio ordine mondiale. Ribadì che siamo condannati al ripetersi della storia con un crescendo esponenziale del, “numero di senzatetto senza precedenti; dello sradicamento sociale di una profondità mai vista prima”.
Negli anni della filosofa Hannah Arendt le folle dei migranti dal Sud del mondo ancora non sbarcavano a Lampedusa.
Vincenzo Maddaloni, Presidente del Centro Studi Berlin89
Questo articolo è pubblicato nell’ambito del Platform Europe Project
Contributi precedentI.
Andrey Kortunov: What Kind of Europe Does Russia Need?
Côme Carpentier de Gourdon: For a New Alliance among European Countries
Alexey Gromyko: Political Landscape of Europe. The Spectre of Geopolitical Solitude
Iurie Roșca: Towards Continental Unity
Walter Schwimmer: The Future of Europe