Autore: Maria Alessandra Varone – 25/10/2022
Riportiamo il testo dell’intervento della Dott.ssa Maria Alessandra Varone pronunciato nel corso del seminario Processo all’Italia. Dal sistema dei partiti alla crisi della democrazia, tenutosi il 17 ottobre 2022, presso la Sala Italia di UnAR – Via Ulisse Aldrovandi 16 – Roma
Libertà tiranna!
Breve riflessione sulla repubblica e la democrazia
Io partirei dalla democrazia, dalla democrazia come concetto. Da rapportare, più che ad un profilo storico, ad uno contingente, attuale.
Personalmente ho sempre voluto insistere nel sottolineare la differenza tra repubblica e democrazia; noi, oggi, moderni, siamo abituati ad intenderle come sinonimi, ma, di fatto, non lo sono. Questa è una distinzione che avevano fatto i greci, in particolar modo Aristotele, il quale addirittura parlava non di democrazia, ma di politia, una sorta di via di mezzo tra democrazia ed oligarchia; non esiste un corrispettivo latino del termine, ma la maggior parte della critica la considera la forma greca più vicina alla res publica romana. Aristotele opponeva alla politia la democrazia come forma degenere. Già da questo si possono intuire le mie posizioni in merito alla democrazia. Lo dico sempre scherzando, ma con serietà: io sono una repubblicana, e pertanto non sono democratica. Ma perché? Per qualcosa che aveva notato anche Kant, e cioè per la differenza fondamentale che esiste tra queste due forme. Nella democrazia c’è il governo della maggioranza, la quale diventa, però, la famosa dittatura della maggioranza di cui parlava de Tocqueville nei suoi saggi. Nella repubblica, invece, quantomeno in linea teorica, si avanza l’aspettativa, nonché la pretesa, che, in qualche modo, tutti abbiano una voce in capitolo, pertanto anche le minoranze.
Ecco, gli ultimi sviluppi in Italia rivelano questa generale rimostranza su come funzioni effettivamente la repubblica, in favore di una visione per la quale, dato che la maggioranza delle persone propone una determinata idea, allora è giusto che questa vada portata avanti, e sia eseguita, per il semplice fatto che lo dice la maggioranza. Ma non funziona così: lo insegna Machiavelli, che parlava dello Stato come terreno di compromesso. Ed è questo che deve fare una repubblica: cercare un compromesso. L’Italia si dichiara costituzionalmente una Repubblica, eppure il compromesso…sì, c’è stato, ma negli ultimi anni, forse, un pochino meno. Certo, noi abbiamo, chi lo potrebbe mai negare, la libertà, moltissime libertà, questo è innegabile. Però non è possibile pensare che, dato che in altri Stati esiste la dittatura, allora sia lecito accontentarsi della linea che stiamo seguendo oggi. Non è possibile dire che siccome ci sono le dittature nel mondo, noi, che abbiamo questo genere di libertà, non possiamo farci un esame di coscienza.
L’Italia è, e probabilmente sarà sempre, un Paese incompiuto; ci sono molti motivi storici, anche complessi. Ma io credo, non con pessimismo, ma con realismo, perché bisogna avere sempre la prontezza all’azione, con la consapevolezza, però, di quello che è, io credo, recuperando una tesi di Dostoevskij, poi riproposta da Prezzolini ne L’Ideario, che la democrazia, nel suo senso ideale, non ideologico, abbia questa grande difficoltà a realizzarsi perché, e qui voglio richiamare La leggenda del Grande Inquisitore, gli uomini, in realtà, parlano di libertà, ma non vogliono essere liberi. Preferiscono avere il pane terreno piuttosto che il pane celeste. Ad un certo punto, ne I fratelli Karamazov, c’è Ivan, che, parlando con Alëša, richiama l’episodio evangelico delle tentazioni di Cristo nel deserto, e lo commenta con una ironia, drammatica, sentita, pressappoco così: <<Ah, se Cristo avesse trasformato le pietre in pane quando il demonio lo tentò nel deserto, sai a quel punto, quanti lo avrebbero seguito!>>. Dostoevskij, in questo importantissimo passaggio, vuol dire proprio questo, che l’essere umano ha bisogno essenzialmente di tre cose: del miracolo, del mistero e dell’autorità.
Immaginandosi di essere l’inquisitore che parla per la Chiesa di Roma, Ivan, e così Dostoevskij, afferma: <<Noi abbiamo dato all’uomo questo>>. E cioè cosa? Non l’opportunità di rendersi libero, dignitoso come si confà a un vero Dio, avendo in mente la magnifica fierezza del Cristo che non cede alla tentazione. No, è stato detto all’uomo come comportarsi, cosa fare, cosa non fare, perché, e via dicendo. Insomma, è stata data all’uomo l’impressione di essere libero, ma in realtà quest’ultimo non ha accettato veramente cosa significa essere liberi e prendersi le responsabilità delle proprie azioni, fino in fondo.
[L’Inquisitore a Cristo] Non eri forse tu a ripetere sempre “Voglio rendervi liberi?”. Ecco, ora li hai questi uomini “liberi” aggiunge a un tratto il vecchio con un sorriso pensoso. “Sì, questa faccenda ci è costata cara”, prosegue, guardandolo severo “ma noi l’abbiamo finalmente portata a termine, nel nome tuo. Per quindici secoli ci siamo tormentati con questa libertà, ma ora è finita, decisamente finita. Tu non credi che sia finita? Mi fissi con quel tuo sguardo mite e non mi degni neppure della tua indignazione? Ma sappi, che ora, proprio oggi, questi uomini sono più che mai convinti di essere completamente liberi; eppure, ci hanno reso la loro libertà e l’hanno deposta umilmente ai nostri piedi. Ma siamo stati noi a ottenerlo, era forse questo che volevi? Una libertà simile[1]?
Cosa, questa, che viene riproposta da Prezzolini nel ‘900.
La democrazia riposa sopra un presupposto erroneo, ossia che gli uomini siano capaci di giudicare gli avvenimenti politici. Non sono capaci, non lo desiderano, cercano di evitare qualsiasi responsabilità. Il pubblico nella maggioranza vuol essere comandato bene, ossia in modo da godere la mediocrità di cui si contenta. Non gli importa di altro[2].
Tuttavia, questa è una cosa sotto gli occhi di tutti.
La morale odierna è proprio questa: abbiamo la libertà di fare quello che vogliamo ma non accettiamo le conseguenze delle nostre scelte, o almeno questa è la mia impressione. In democrazia, questo genere di cortocircuito emerge con un certo nitore, favorito dal contesto, che manifesta lo scontro secolare tra individuo e Stato, e perciò tra volontà del singolo e volontà collettiva. Un problema, questo, che la nostra Costituzione aveva provato, quantomeno in linea teorica, a tamponare, cercando un equilibrio tra il singolo e la collettività, dimodoché non ci fosse una ingerenza eccessiva dell’uno sull’altro. Tuttavia, sempre negli ultimi due anni, c’è stato un evidente sbilanciamento, violando la dimensione, non dico neutrale, dello Stato, perché nulla può mai essere assolutamente neutrale, sine ira et studio, se si vuol citare il Tacito degli Annales, o sine odio neque amore, citando quello delle Historiae, ma quantomeno un maggiore distacco verso le possibili polarità estreme. Questo è interessante, perché oggi partecipiamo ad una dimensione sociale che vive, sostanzialmente, sulle spalle dell’hegelismo, dell’hegelismo, ci tengo a precisare, non di Hegel. Per cui vige l’idea per la quale la massima realizzazione dell’individuo è nello Stato. A questo si aggiunge la pretesa di paternalismo statale, che denota una profonda insicurezza, la quale psicologicamente si trasforma in un totale affidamento, dettato dal genuino sentimento di voler fare la cosa giusta. Ma questo, spesso e volentieri, si trasforma in un ottimo terreno per affermazione ideologica, per l’imposizione di una lettura della realtà sociale e civile che porta all’abbandono di quella terra di nessuno che è la sfera pubblica. Tutto questo conduce ad un atteggiamento ingenuo che sin dai greci rappresenta la fine definitiva della democrazia, e cioè l’oclocrazia, il governo delle masse.
In questo senso, l’Italia è in piena crisi democratica. È un periodo, il nostro, in cui ad avere il controllo effettivo sono le masse, le quali si concretizzano in due opposti ideologici e non lasciano spazio alle sfumature, a posizioni più moderate, che spesso sono le più utili, e favoriscono chi le favorisce, alimentando questa malsana dinamica. Si vede una intera opinione pubblica che parla con emotività di cose di cui emotivamente si dovrebbe tacere, per lasciar spazio non ad una fredda razionalità, la quale è feroce quanto l’emotività assoluta, ma ad una mite ragionevolezza. Tuttavia, noi oggi sperimentiamo il risultato di pareri emotivi, indignazioni generali, certamente spesso determinati dall’ingenuo, nonché genuino, desiderio di fare la cosa giusta, di essere dalla parte giusta, ma che non portano da nessuna parte. È una “lotta tra poveri”, direbbe Céline, nel senso che si partecipa al rafforzamento della dinamica classica del potere che è quella del divide et impera, per cui mentre ci si azzanna tra cittadini, si perde di vista quello che conta; ma per questo serve quella freddezza, quel maggiore distacco, che permetta di vedere quel che non deve sfuggire o passare inosservato: fare quello che conviene al Paese. Con ciò si intende la volontà di soddisfare il popolo in tutta la sua complessità. Infatti, come ricordava Hegel, popolo non significa nulla. Esso, infatti, è il contadino, l’artigiano, il magistrato, lo studente, l’imprenditore: popolo in quanto tale non significa nulla. Tuttavia, per semplificarci la vita, è ovvio che siamo costretti a parlare di popolo.
Pertanto, alla luce di tutto questo, io personalmente ritengo che la democrazia in Italia sia messa a dura prova, e che si trovi in questa situazione, come sempre, non per qualche Deus ex machina, ma per i suoi stessi cittadini.
[1] F. Dostoevskij, I fratelli Karamazov, Mondadori, 2010, Milano.
[2] G. Prezzolini, Ideario, Ciarrapico Editore, 1967, Roma.
L’Autore
Maria Alessandra Varone – laureata in Filosofia della scienza presso l’Università degli Studi Roma Tre con una tesi sull’eredità della fisica di Newton nella filosofia di Kant, attualmente lavora come collaboratore esterno per l’Università degli Studi Niccolò Cusano, in attesa di iniziare il dottorato a gennaio 2023 sul rapporto tra scienze naturali e metafisica, con particolare riguardo al newtonianesimo nella Germania romantica ed idealista.