Autore: Emanuel Pietrobon – 28/05/2019
A sei anni di distanza dall’elezione al soglio pontificio, papa Francesco I, al secolo Jorge Maria Bergoglio, il primo pontefice proveniente dal Sud globale, è chiamato ad affrontare una crisi senza precedenti nella storia della chiesa cattolica e non si tratta soltanto di fronteggiare la piaga degli scandali di pedofilia coinvolgenti il clero, che hanno portato all’azzeramento di intere diocesi in Cile e negli Stati Uniti e travolto figure di spicco come Theodore McCarrick, ex arcivescovo di Washington, e George Pell, ex arcivescovo di Sydney.
È in corso uno scontro egemonico tra il blocco occidentale, e anche all’interno di esso, e l’asse Mosca-Pechino, nel quale il Vaticano si è ritrovato a suo modo invischiato, assumendo una posizione chiara e netta sin da subito: contrastare l’avanzata del populismo di destra, preparando il terreno per una transizione al multipolarismo che tarda ad arrivare. In questo contesto si inquadrano le attenzioni dell’agenda estera firmata da Pietro Parolin, l’influente segretario di Stato, su Africa, mondo islamico e Cina.
L’Europa si è avviata verso la completa post-cristianizzazione, palesando il fallimento del piano di “nuova evangelizzazione” elaborato nel post-guerra fredda da Giovanni Paolo II e il futuro Benedetto XVI, e si popolarizzano idee come l’“opzione Benedetto”, ossia una chiusura volontaria dal mondo in attesa di tempi migliori come fecero i monaci benedettini dopo il collasso dell’impero romano d’occidente, mentre la partita sembra volgersi al termine anche in America Latina, che secondo le proiezioni del Pew Research Center entro il 2030 potrebbe non essere più a maggioranza cattolica per via della crescita straordinaria degli evangelici, cresciuti dal 4% del 1969 al 19% del 2014, mentre nello stesso periodo i cattolici sono diminuiti dal 92% al 69%.
Il futuro del cattolicesimo è in Africa nera ed Estremo oriente, sia per ragioni demografiche (i cristiani aumentano ad un tasso maggiore della crescita della popolazione per via delle numerose conversioni) che culturali, come l’irrilevante o nulla secolarizzazione, e politiche, come l’influenza ancora giocata dai valori religiosi sui politici.
L’attitudine terzomondista del nuovo papato, che risente in maniera significativa delle origini argentine del Pontefice, è stata sfruttata abilmente dalla galassia del populismo di destra per macinare consensi tra i cattolici, praticanti e non, che sono stati delusi dai continui appelli all’integrazione, all’accettazione dell’altro e alle porte aperte durante la crisi dei rifugiati, e da quel che è stato percepito come uno schieramento politico “sbagliato”, ossia l’aperto attacco ai populisti, che pur con alle spalle partiti molto eterogenei tra loro sostanzialmente accomunati da conservatorismo, identitarismo ed euroscetticismo.
L’eccessiva attenzione dedicata ai “fronti caldi” delle relazioni internazionali ha impedito agli strateghi vaticani di comprendere pienamente il malessere serpeggiante tra milioni di europei causato dalla crisi migratoria, contrariamente ai populisti di destra, che hanno cavalcato l’onda del risentimento, sia verso gli immigrati non europei che verso il burocratismo di Bruxelles, riuscendo a trasformarsi in forze dal peso nazionale in numerosi paesi, inclusi i pilastri fondanti dell’Ue, ossia Italia, Francia e Germania.
I consensi non sono stati strappati soltanto ai grandi partiti egemoni di natura liberale, progressista ed europeista, ma sono stati ricercati appositamente anche tra l’elettorato cattolico, nella consapevolezza che parte di tale malessere fosse rivolto anche verso l’istituzione-chiesa.
È così che è nato un cavallo di battaglia, apparentemente paradossale, rivelatosi vincente: per difendere l’identità cristiana dell’Europa, minacciata dall’islamizzazione, dall’ideologia di genere e dalle follie del politicamente corretto, è necessario difendersi dal Vaticano, accusato di essere complice di tali eventi perché troppo incline al dialogo interreligioso, alla linea dell’accoglienza infinita e ostile a nazionalismi di ogni sorta.
I richiami a Dio, al cristianesimo, alla Madonna, le visite a luoghi santi, gli sfoggi di crocifissi e rosari, hanno dominato le strategie comunicative dei principali volti del populismo di destra mondiale: Donald Trump, Jair Bolsonaro, Marine Le Pen, Matteo Salvini, Viktor Orban, Jarosław Aleksander Kaczyński.
Ciascuno dei suscritti, con l’eccezione di Kaczyński, si è mostrato al tempo stesso arduo difensore dell’identità cristiana occidentale, e forte detrattore di Francesco I.
Un ruolo di primo piano nel modellamento delle strategie adottate dai populisti di destra è stato giocato da Steve Bannon, una vera e propria eminenza grigia, per un certo periodo capo stratega dell’amministrazione Trump, con un largo seguito tra la cosiddetta “destra alternativa”, i sionisti cristiani, gli evangelici, i neoconservatori, e i sostenitori dello scontro di civiltà.
Nonostante Bannon e Trump abbiano ufficialmente chiuso ogni rapporto, il primo continua a dedicarsi con senso di abnegazione al compimento dell’agenda dell’ultimo, e ha passato l’ultimo anno più in Europa, a cavallo tra Belgio, Francia, Italia e paesi Visegrad, che in madrepatria, rilasciando interviste, incontrando politici populisti, fornendo consigli, lanciando previsioni geopolitiche rivelatesi estremamente accurate.
Bannon, autodichiarato cattolico praticante, è anche uno dei più forti critici verso l’attuale papato e avrebbe contribuito alla formazione del “fronte tradizionalista anti-Francesco”, con in prima fila il cardinale Raymond Burke e Carlo Maria Viganò, dal quale sono state lanciate accuse molto gravi, dalla complicità nell’insabbiamento di casi di pedofilia, al non essere il “vero Papa”, alla vera e propria eresia.
Il Vaticano è stato colto impreparato, dovendo fronteggiare più campi di battaglia simultaneamente e risentendo soprattutto dell’operato manipolatore ed ingannevole dei media. Gli stessi media, di stampo liberale, che hanno osannato Francesco I come un riformatore, colui che avrebbe aperto le porte della Chiesa al progresso, sono anche gli stessi che da sei anni portano avanti una guerra di informazione continua, a base di notizie false o arbitrariamente distorte, decidendo di enfatizzare e riportare soltanto alcuni stralci degli discorsi e degli appelli del pontefice, contribuendo ad alimentare confusione e ostilità tra i fedeli, per via di dichiarazioni controverse su temi etici, teologici e politici, puntualmente smentite.
È tempo di bilanci e si può sostenere che l’assalto populista al Vaticano abbia prodotto due “effetti Francesco”. Il primo, in Occidente, ha portato gradualmente alla protestantizzazione del cattolicesimo, mettendo in discussione l’autorità papale, la cui legittimità è sempre più screditata tra gli stessi fedeli, che ai suoi insegnamenti e consigli preferiscono quelli del politico di turno, e trasformato la religione universale per antonomasia in un bastione dell’identitarismo, bianco e occidentale, proprio come è l’evangelicalismo negli Stati Uniti.
Il secondo, nel resto del mondo, è stato invece diametralmente opposto, e ha migliorato l’immagine del pontefice, e della chiesa, agli occhi di cattolici e non cattolici – musulmani soprattutto. In diversi viaggi apostolici il pontefice ha voluto essere presentato come uomo di pace, costruttore di ponti per il dialogo tra civiltà, scegliendo appositamente un luogo più strategico dell’altro: Egitto, colpito da sanguinosi attentati miranti a rompere il clima di storica convivenza tra musulmani e copti, Myanmar, luogo di un rastrellamento su base etno-religiosa a detrimento dei musulmani, Macedonia del Nord, nel post-raggiungimento dell’accordo sul nome con la Grecia.
Inoltre, seppure passato sotto silenzio mediatico, il ruolo di mediazione svolto dal Vaticano si è rivelato fondamentale in diversi fronti: la riapertura del dialogo diplomatico tra Cuba e l’amministrazione Obama, il raggiungimento dell’accordo nucleare con l’Iran, sempre durante l’era Obama, gli accordi di pace tra le FARC e il governo colombiano, ed il proseguimento del “sogno” di Giovanni Paolo II di una “santa alleanza” tra le religioni abramitiche per fronteggiare l’avanzata del nichilismo occidentale, palesato dalla realizzazione del Documento sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune, firmato ad Abu Dhabi lo scorso febbraio insieme ad Ahmad Al-Tayyeb, il grande imam di Al-Azhar.
Negli ultimi mesi le relazioni tra l’Occidente, guidato dagli Stati Uniti, e la Cina, sono andate incontro ad un veloce raffreddamento, degenerando in una guerra commerciale che rischia di trascinare con sé l’intera economia globale. Anche in questo caso, i populisti europei hanno mostrato opinioni convergenti con quelle di Washington, sostenendo la necessità di arrestare la corsa di Xi Jinping verso la costruzione della nuova via della seta, che permetterebbe a Pechino di costruire un sistema egemonico in Eurasia.
Il Vaticano, invece, ha puntato tutto sulla Cina, giungendo ad una frettolosa e preliminare intesa sulla nomina dei vescovi nella chiesa cattolica cinese, che pure non ha fermato le persecuzioni anticristiane nel paese – anzi sembra averle galvanizzate. Forti sono anche le indiscrezioni sul presunto ruolo giocato dalla diplomazia della Santa Sede nel convincere il governo Conte a firmare il memorandum d’intesa sulla cooperazione italo-cinese nel contesto della nuova via della seta, siglato a marzo scorso.
I motivi per cui Francesco I ha deciso di “voltare alle spalle” all’Occidente per dedicarsi alla Cina sono molto chiari: da almeno 20 anni il cristianesimo è la seconda religione più seguita del paese, e il numero di fedeli è verosimilmente compreso fra i 50 e 130 milioni. Ma non è tutto, i cristiani crescono più velocemente della popolazione, per via delle elevate conversioni (50mila battesimi cattolici l’anno, controbilanciati da un milione di protestanti in più ogni anno), e le proiezioni governative concordano su una cosa: entro il 2040 la Cina sarà il paese “più cristiano” del mondo, sorpassando Brasile, Stati Uniti e Messico, con una popolazione di fedeli prevista in circa 579 milioni.
Gli effetti di tale shock culturale e demografico sono destinati, con molta probabilità, ad incidere profondamente sull’assetto del regime orwelliano retto dall’ideologia ateistica-materialistica del Partito Comunista Cinese, magari contribuendo anche all’erosione graduale del sistema di sorveglianza di massa creato nelle ultime decadi.
È emblematico anche che il Vaticano guardi con sospetto ai propositi dei populisti di costruire delle democrazie illiberali, ma plasmate da valori cristiani, di cui l’Ungheria di Orban rappresenta il prototipo ideale, più volte esaltato dagli omologhi polacchi, italiani, francesi, statunitensi e di altri paesi, e che al tempo stesso guardi con favore al modello cinese, che secondo l’ex cancelliere dell’accademia pontificia delle scienze sociali, Marcelo Sanchez Sorondo, avrebbe implementato nel migliore dei modi la dottrina sociale della chiesa cattolica.
Se è vero che i populisti, a parole, si ergono alla difesa del cristianesimo, è al tempo stesso vero che le società che vorrebbero costruire sono tutto fuorché incardinate sugli insegnamenti neotestamentari: xenofobia, sciovinismo, divisione elitarista tra autoctoni e stranieri, ostilità verso l’accoglienza di rifugiati che guerre patrocinate dai loro partiti (o dalle loro ideologie) hanno creato, retorica basata sullo scontro di civiltà.
L’ascesa del movimento populista-sovranista è costellata di guerre culturali che stanno polarizzando le società europee, sempre più divise da profonde spaccature proprio come negli Stati Uniti, in cui fra il puritanismo di origine evangelica ed il progressismo ultralaicista di origine liberale ormai non c’è più nulla. Il Vaticano, proprio perché espressione di una posizione intermediaria, bilanciata ed equilibrata, si è ritrovato invischiato nel conflitto, ma costretto a combattere da una posizione di debolezza per i motivi suscritti.
Il doppio effetto Francesco avrà due conseguenze nel medio e lungo periodo: la fine definitiva del cattolicesimo come religione di massa in Occidente, che già oggi è in stato comatoso ed è destinato ad una ulteriore protestantizzazione in salsa statunitense, e la sua espansione in Africa nera ed Estremo oriente, in cui il clero non è stato colpito da scandali sessuali e finanziari e la forte presenza di attività caritatevoli, educative e di missionari ha creato un legame difficilmente dissolubile, almeno nel breve termine, tra chiesa e popolazione.
Il futuro della chiesa cattolica non si deciderà più a San Pietro, scritto da cardinali occidentali formatisi tra le diocesi di Washington e Rio de Janeiro, ma nelle periferie del globo, su impulso di cardinali africani, arabi, indiani, cinesi, formatisi in Stati falliti, teatri di guerra, persecuzioni, e conflitti interetnici. Il fatto che la “copia di San Pietro”, ossia la Basilica di Nostra Signora della Pace di Yamoussoukro (Costa d’Avorio) dopo decenni di quasi abbandono e oblìo sia tornata ad attrarre milioni di pellegrini ogni anno, è un segno di tutto ciò: la fine dei tempi è giunta in Occidente, ma se la chiesa saprà imparare dagli errori che ne hanno determinato la rovina nella propria culla, potrà prosperare altrove.
Emanuel Pietrobon, Higher School of Economics, Saint Petersburg, Russia