Autori: Barbara Mascitelli & Emanuel Pietrobon – 14/06/2022
Le luci dei riflettori sono puntate sull’Ucraina dalla notte del 24 febbraio, cioè da quando Vladimir Putin ha dato semaforo a quella che in Russia è stata ribattezzata ufficialmente “operazione militare speciale”. Un altro modo, sebbene edulcorato, di dire guerra.
Da febbraio a giugno, però, tanti fatti hanno avuto luogo nel mondo mentre l’attenzione dell’Occidente era focalizzata sull’Ucraina: dall’ingresso della Cina nelle Isole Salomone alla crisi lungo la Madrid-Rabat-Algeri. E nella tormentata Siria, all’ombra dei grandi eventi che hanno scosso Europa e Indo-Pacifico, sono stati cento giorni di alta tensione.
Curdi, l’ossessione della Turchia
Il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan, come è ben noto a tutti, si è proposto come principale mediatore tra Russia e Ucraina. Promotore di pace pace mentre, però, aggredisce la Siria. Possibile sminatore del porto di Odessa, e scortatore del grano turco, che però non dimentica la sua battaglia infinita contro i curdi e il PKK.
È un’ossessione, la sua, quella nei confronti di questo popolo. Tutto ciò che è legato ad esso è destinato a perdersi, pur rendendolo un protagonista indiretto e inconsapevole della guerra: la Turchia, infatti, sta fermando delle trattative importanti come l’entrata nella NATO di Finlandia e Svezia per via del loro essere paladine della causa curda. Il leader turco, per sbloccare i negoziati, ha chiesto esplicitamente che 33 presunti terroristi vengano estradati dalle due nazioni e l’abolizione dell’embargo sulle armi che Svezia e Finlandia hanno applicato alla Turchia nel 2019. Una richiesta che, purtroppo, dovrebbe essere ascoltata dato che la Turchia ha il secondo esercito più potente all’interno della NATO e gli occidentali si aspettano che rispetti l’articolo 5 per la difesa e la sicurezza dell’organizzazione in caso di attacco.
Da quando è salito al potere della Sublime Porta, la sua politica si è incentrata principalmente sulla massiccia campagna di distruzione dei “partiti terroristici”, in particolare il partito dei lavoratori curdi. E Ankara ha da poco annunciato un’operazione nel nord dell’Iraq, in realtà iniziata il 18 aprile via aerea e via terra, quando l’esercito turco è intervenuto per colpire le postazioni del Pkk colpendo gli ezidi e le milizie curdo-siriane dello YPG. Come se non bastasse, Erdoğan sembra intenzionato ad avviare un’operazione speciale alla Putin nel nord della Siria. Nel mirino Manbij e Tal Rifa, strategiche teste di ponte per future e più profonde espansioni. La donbassizzazione della Siria.
Sarebbe la quinta operazione militare turca oltreconfine questa che Erdoğan vuole intraprendere, ribadendo l’ambizione di voler ripulire una striscia lunga 30 km da gruppi terroristici che – a detta di Donald Trump – sono peggiori dell’Isis. L’operazione mirerebbe anche a distruggere le basi, i rifugi e i depositi di munizioni del PKK situati nelle province di Zap, Metina, Gara e Avasin-Basyan del Kurdistan iracheno (KRG).
Il KRG è uno stato de facto all’interno dell’Iraq, che dal 2008 governa l’omonima regione in maniera quasi del tutto autonoma rispetto alle politiche centrali di Baghdad. Ma la presenza curda in Iraq non si limita alla regione autonoma, perché penetra a sud delle montagne del governatorato di Dahuk, oltrepassando il Tigri, fino al governatorato di Ninive e nel distretto di Sinjar. Proprio quest’ultima è un’area di contesa a causa della forte presenza del PKK, nonché un tratto pericolosamente esposto alle incursioni di turchi, iraniani, iracheni e altre fazioni curde.
Per il Kurdistan iracheno, paradossalmente, ripulire la zona dal PKK avrebbe dei vantaggi: non solo accesso a e controllo di strategiche regioni montuose, ma anche un’alleanza più stretta con il Sultano – soprattutto per il gas curdo, che dovrebbe essere esportato in Turchia. Oltre alla Turchia, inoltre, anche l’Unione Europea avrebbe dei benefici, in quanto alla ricerca di fornitori di gas alternativi alla Russia.
Mentre nell’area si respira il sapore di quella che sembra una quasi sicura invasione, la comunità internazionale resta a guardare l’evoluzione degli eventi e a meditare se accettare o meno le richieste di Ankara. Resta da capire se quella turca è una strategia che mira alla riconquista del prestigio antico tirando la corda con la NATO, se è tutto legato alle elezioni presidenziali di giugno 2023 – verso cui il Sultano è fortemente proiettato –, oppure entrambe le cose.
La Siria, dunque, è merce di scambio russa sull’Ucraina? Ebbene, potrebbe essere così: non è un segreto per nessuno che le tensioni tra Russia e USA hanno avuto e avranno sempre un effetto sulle negoziazioni russo-turche e sulla Siria. Ed è per questo oggi che sta provando a beneficiarne la Turchia, facendo i propri interessi a discapito della stabilità regionale.
“Il coltello ha raggiunto l’osso”, disse Erdoğan a Romani Prodi nel lontano 2007, parlando della questione curda. E non ha mai smesso di raschiare.
La Russia non dimentica la Siria, ma non la salverà
A meno di radicali inversioni di tendenza, delle quali attualmente non si intravedono i segni, il futuro ha in serbo uno scenario di vassallizzazione duratura per la Siria: a settentrione occupata dai turchi, tra centro e meridione ostaggio della guerra fredda tra iraniani e israeliani, perennemente al centro di un braccio di ferro tra Stati Uniti e Russia.
Mettere totalmente in sicurezza la Siria, alla luce del suo essere crocevia di interessi e agende divergenti di una costellazione di potenze regionali ed extraregionali, per la Russia non è possibile. Ma la diplomazia del Cremlino, che è maestra nelle arti dei compromessi e dei sotterfugi, negli ultimi anni ha saputo destreggiarsi egregiamente tra le parti in gioco all’insegna dell’antico “dialogare con tutti, allearsi con nessuno”.
Per Vladimir Putin, capo di un impero con più di un millennio di storia, tutti sono dei potenziali partner e nessuno è indispensabile. Ed essendo che la Russia ha solo due alleati – l’Esercito e la Marina –, come soleva dire Alessandro III, ne consegue che in Siria, come in ogni altro teatro, si possono fare affari con chiunque: con gli iraniani, con gli israeliani e coi turchi. Con gli iraniani combattere il terrorismo islamista e dar loro in cambio un seggio apparente nei tavoli che contano. Con gli israeliani contrastare l’influenza iraniana dando loro il permesso di attaccare le basi di Hezbollah e Guardie della Rivoluzione in loco. Coi turchi collaborare e guerreggiare a seconda della contingenza.
La Russia è una potenza storica, e in quanto tale è pragmatica, perciò ha piena consapevolezza di un fatto: la tendenza al doppiogiochismo di Erdoğan è tanto una sfida quanto un’opportunità. Ed è concentrandosi sulla trasformazione della sfida in opportunità che Mosca e Ankara sono riuscite a trovare delle intese di convivenza semi-pacifica in una serie di teatri di loro interesse – Libia, Siria, Azerbaigian – e stanno ora provando a riproporre questo formato in Ucraina.
Tornando alla Siria, dove la pace è di piombo sin dal 2011, a partire dallo scoppio della guerra in Ucraina si è registrato un crescendo di tensioni tra Russia e Israele, e tra Russia e Turchia. Quest’ultima, nello specifico, ha reagito all’aggressione dei propri assetti in Ucraina da parte russa chiudendo il proprio spazio aereo ai voli militari russi diretti in Siria e palesando la volontà di riaprire il fronte settentrionale. Putin, a sua volta, pur avendo dichiarato di comprendere le preoccupazioni di Erdoğan, a inizio giugno ha inviato un segnale eloquente: un’esercitazione congiunta tra il dispositivo militare russo in loco e le forze armate siriane – il primo esercizio del genere da quando è iniziata la guerra in Ucraina e il secondo del 2022.
Le esercitazioni russo-siriane di inizio giugno hanno un duplice significato e due destinatari: la Turchia, che vorrebbe profittare dell’impegno russo in Ucraina per espandere la propria sfera di influenza in Siria, e Israele, con il quale la Russia è ai ferri corti dall’inizio del conflitto. Per quanto riguarda la Turchia, il duplice significato è probabilmente il seguente: nessun intervento senza previa approvazione russa, nessun intervento che minacci direttamente gli assetti russi.
Putin non è aprioristicamente contrario agli interventi militari turchi in Siria – ben tre dal 2016 ad oggi –, ma si oppone fermamente ad ogni ingerenza esterna in grado di alterare il fragile equilibrio esistente – perché ogni scenario di Siria altamente destabilizzata implica problemi e/o arretramenti per la Russia –, ed è soltanto a partire da questa conoscenza che se ne possono comprendere le mosse.
La Russia non si dimenticherà della Siria, che è l’assicurazione sul mare caldo a lungo cercato dagli zar e un trampolino di lancio nel Grande Medio Oriente, ma neanche la salverà dalle incursioni e dalle intrusioni dei ladri di quartiere, come la Turchia, se servono a migliorare il suo potere negoziale in altri teatri. Perché la realpolitik, in quelle parti di mondo ancora immerse nella storia, è tutto.
Gli autori:
Barbara Mascitelli – Classe 1993, abruzzese e laureata in Media, comunicazione digitale e giornalismo presso La Sapienza – Università di Roma. Mi interesso di politica estera e relazioni internazionali, in particolare della Turchia, considerato da sempre un paese “ponte” tra l’Europa e l’Oriente. Autrice del saggio “La carenza di libertà di stampa e l’impatto sulle relazioni internazionali. Il caso della Turchia e della Russia”.
Emanuel Pietrobon – È analista geopolitico e consulente. Tra i suoi libri La visione di Orbán (con Andrea Muratore, 2022), L’arte della guerra segreta (2020) e Resistance Economics (2020). Scrive per vari think tank e riviste specializzate, tra cui «InsideOver». Ha lavorato per la Commissione Europea e Wikistrat. Esperto di guerre ibride e spazio postsovietico, ha vissuto a lungo in Russia e ha soggiornato per ragioni di ricerca, studio e lavoro in diversi Paesi, tra i quali Azerbaigian, Kazakistan, Polonia, Portogallo e Romania.