Autore: Emanuel Pietrobon – 03/07/2019
Donald Trump si è contraddistinto, durante il G20 di Osaka, per le apparenti volontà conciliatorie con gli omologhi di Russia e Cina, le principali minacce per la sicurezza nazionale statunitense secondo la versione più aggiornata del National Defense Strategy.
Il clima di rinata voglia di collaborazione ha spinto il presidente Vladimir Putin a invitare ufficialmente Trump alle celebrazioni del giorno della vittoria del prossimo anno. Eppure, nonostante i proclami di stima e gli scambi di battute, i rapporti tra i due paesi continuano ad essere tesi come non lo erano dalla guerra fredda.
È chiaro che la Russia rappresenti un obiettivo di secondo piano rispetto alla Cina nell’agenda estera dell’amministrazione Trump, perché incapace – per ragioni strutturali di difficile risoluzione, di tornare ai fasti dell’epoca sovietica, e quindi meno pericolosa globalmente. È altrettanto vero che la Russia rappresenta un rivale geopolitico esistenziale per gli Stati Uniti, per via della sua estensione geografica che la rende una permanente minaccia per il controllo sul cuore della terra mackinderiano: l’Eurasia.
Trump vorrebbe migliori rapporti con la Russia, eppure è proprio la sua amministrazione ad aver esacerbato ulteriormente l’escalation nata durante l’era Obama con le crisi ucraina e siriana, incrementando la presenza militare statunitense lungo la periferia orientale della NATO, appesantendo il regime sanzionatorio, e rifornendo l’Ucraina di carichi di armi letali. Eppure, non è utopistico pensare che gli Stati Uniti possano effettivamente, nel caso che Trump vinca il secondo mandato, fare delle concessioni alla Russia, come ad esempio il riconoscimento della sovranità sulla Crimea. Ma anche se ciò avvenisse, si tratterebbe di un’iniziativa dettata da interessi contingenti: la necessità di allontanare l’orso russo dalla sfera d’influenza cinese.
L’obiettivo degli Stati Uniti nei confronti della Russia resta soltanto uno: l’annichilimento attraverso un contenimento infinito, multidimensionale e sempre più asfissiante. Per capire le origini della cosiddetta “guerra fredda 2.0” è necessario ripescare un testo per addetti ai lavori del 1997, La grande scacchiera dello stratega Zbigniew Brzezinski, uno dei protagonisti del collasso dell’Unione Sovietica.
Nel libro, che era piuttosto una sorta di testamento lasciato ai posteri per l’avvenire dell’America, lo stratega delineava i passi essenziali da fare per sfruttare adeguatamente la vittoria nella guerra fredda ed evitare la resurrezione della Russia quale grande potenza eurasiatica nel nuovo secolo: allargamento dell’Unione Europea e della NATO ad Est, ossia agli ex membri del patto di Varsavia, rimozione dell’Ucraina, della Moldavia e dei paesi del Caucaso dall’orbita russa, pressioni sui paesi -stan dell’Asia centrale per distogliere l’attenzione russa dalle questioni europee, la trasformazione della Polonia nella roccaforte del contenimento antirusso ad Est, l’ostacolamento della nascita di una coalizione antiegemonica russo-cinese-iraniana e dell’incubo mackinderiano di un fronte comune europeo (a guida franco-tedesca) e russo.
Nella visione di Brzezinski era di vitale importanza che l’Ucraina venisse inglobata quanto prima nella comunità euroatlantica, perché “la Russia senza l’Ucraina cessa di essere un impero euroasiatico”. In tal modo, Mosca sarebbe stata costretta a focalizzarsi obbligatoriamente sul vicinato centroasiatico, in fibrillazione e fonte inevitabile di problemi per via della letale combinazione di risentimento antirusso e risveglio islamico, e sulla Cina, un rivale in ascesa per gli Stati Uniti (a livello globale) e per la stessa Russia (a livello regionale).
A 22 anni di distanza dalla pubblicazione del libro è lapalissiano che i suggerimenti di Brzezinski siano stati eseguiti alla lettera, gradualmente ed intelligentemente, e che la Russia si ritrovi più accerchiata che mai.
Uno dopo l’altro i paesi del patto di Varsavia sono stati inglobati nell’Unione Europea e nella NATO, nonostante le celebri rassicurazioni fatte a Mikhail Gorbaciov da Manfred Woerner, segretario generale dell’Alleanza atlantica dal 1988 al 1994, che ciò non sarebbe mai avvenuto. Il Caucaso è stato scosso da rivoluzioni colorate che hanno causato la fine del dominio in politica di figure prorusse, come palesato dai casi di Georgia e Armenia, le aree a maggioranza islamica della federazione si sono trasformate in focolari di jihadismo, dalla Cecenia al Daghestan, che non mostrano segni di spegnimento.
Il controllo sugli -stan resta una priorità per l’agenda estera russa, ma l’Unione Economica Eurasiatica tarda ad affermarsi come entità geopolitica di rilievo e realmente coesa, pagando l’influenza subita da nuovi attori con ambizioni egemoniche nell’area, come Turchia, Cina, Iran, Pakistan, e gli stessi Stati Uniti, che stanno concentrando gli sforzi su Kazakistan e Uzbekistan.
Moldavia e Bielorussia restano le ultime due roccaforti della presenza russa nell’Est europeo, ma il controllo su di esse è esercitato in maniera miope, ignorando completamente i bisogni e i desideri delle popolazioni di prosperità economica, e le proteste popolari sempre più frequenti che scuotono i due paesi sono un segno che Mosca non dovrebbe sottovalutare. Nel primo caso, il malcontento potrebbe favorire e accelerare il percorso d’adesione all’Unione Europea (e quindi, poi, alla Nato), anche in ragione della forte influenza esercitata dalla Romania, nel secondo caso pesa l’incognita del dopo-Lukashenko, perché il vuoto di potere potrebbe essere sfruttato per indurre rivoluzioni colorate già sperimentate con successo in altri paesi ex sovietici.
L’Ucraina è stata finalmente trasportata fuori dall’orbita russa e la classe politica emersa nel dopo-Euromaidan ha fatto dello scontro con la Russia un veicolo per la costruzione di una nuova identità, più europea e liberale e meno legata alla propria storia e ai rapporti con Mosca, e nei prossimi anni probabilmente si assisterà all’entrata del paese nell’Ue.
Per quanto riguarda gli ultimi due punti, ossia le paure mackinderiane di possibili coalizioni antiegemoniche, è chiaro che esse siano state parzialmente scongiurate. Parzialmente perché se è vero che l’asse franco-tedesco è completamente prono a Washington ai limiti della paura rossa maccartiana, è altrettanto vero che la politica estera statunitense per l’Eurasia ha causato un inevitabile avvicinamento strategico tra Russia, Cina e Iran.
Tuttavia, i tre paesi, lungi dall’essere alleati in chiave antistatunitense, sono piuttosto considerabili dei rivali naturali spinti ad una collaborazione forzata dall’estemporaneità che, però, non sono intenzionati a fare il passo decisivo. Le banche cinesi, ad esempio, evitano accuratamente di incorrere nelle sanzioni secondarie statunitensi, abbandonando Russia e Iran all’assenza di liquidità in tutti i settori sanzionati. Neanche la guerra commerciale lanciata dall’amministrazione Trump, sempre più intensa ed oggi spalmata anche sul settore dell’alta tecnologia (vedi Huawei), ha convinto i cinesi ad aggirare le sanzioni antirusse e antiiraniane.
La strategia della Russia post-sovietica è basata sul controbilanciamento, l’accerchiamento di staliniana memoria è stato sepolto e negli ambienti diplomatico-militari non è neanche tema di discussione una sua riedizione aggiornata. Si tratta sostanzialmente di interferire nei piani statunitensi attraverso azioni di congelamento del conflitto: Transnistria in Moldavia, Abchasia e Ossezia del Sud in Georgia, Crimea e Donbass in Ucraina, intervento militare in Siria, supporto logistico, di intelligence e diplomatico a Nicaragua e Venezuela.
È una strategia che ha permesso alla Russia di non perdere completamente il controllo su aree di interesse geostrategico, ma che al tempo stesso neanche è portatrice di garanzie assolute per il futuro: il processo di euroamericanizzazione di Ucraina e Georgia continua nonostante la presenza di territori fuori controllo entro i propri confini, Nicaragua e Venezuela sono strangolate economicamente e la Russia non può intervenire da quel punto di vista, Bielorussia e Moldavia mostrano segni di cedimento, l’Asia ex sovietica è sempre più esposta a influenze esterne, l’espansionismo militare Nato procede a ritmi serrati.
È chiaro che la Russia, un gigante diplomatico ma nano economico, non potrà continuare a lungo sulla strada del controbilanciamento, soprattutto perché l’amministrazione Trump è portatrice di una linea dura in stile reaganiano che mira a far collassare il sistema creato da Putin nel post-Eltsin. Le sanzioni si aggiungono alle pressioni sui partner principali della Russia, sullo sfondo di una nuova corsa allo spazio, con obiettivi Marte e la militarizzazione dell’orbita terrestre, e una nuova corsa agli armamenti. L’annuncio della prossima creazione della Forza Spaziale ricorda molto il cosiddetto progetto Guerre Stellari dell’amministrazione Reagan e il rischio è che la Russia possa cadere nel tranello, ripercorrendo gli stessi errori fatali che determinarono l’implosione dell’Unione Sovietica.
In questo contesto, la Russia ha bisogno di un ripensamento globale della propria strategia, anche e soprattutto dal punto di vista economico – magari guardando all’ambizioso Made in China 2025 e ad altri progetti dell’era Xi incentrati sulla ricerca della diversificazione e dell’autosufficienza autarchica, perché l’ascesa di Trump ha mostrato al mondo che l’impero americano è lontano dall’essere in declino e in Eurasia gli Stati Uniti sono a poche mosse dallo scacco matto, per la felicità di Brzezinski.