Autore: Mario Rino Me – 03/04/2020
Doppiato un secolo che il filosofo Isaiah Berlin aveva definito “il più terribile della storia dell’Occidente”, la realtà contingente e rapidamente mutevole di questo tempo dà l’impressione di attraversare un momento delicato di transizione per la ridefinizione dei ruoli e delle gerarchie del potere del mondo del XXI° secolo. Come avvenuto per la condotta della guerra su cui si sono cimentati i maestri del pensiero strategico, anche sui rimedi al male endemico sono state formulate varie proposte che riflettono differenti approcci e culture.
Già il Presidente T. Wilson sull’onda emotiva del bagno di sangue della Grande Guerra aveva cercato di far valere le ragioni dell’etica su quelle della politica, ma le sue idee e visione del mondo erano all’epoca rivoluzionarie. Papa Francesco, oramai riconosciuto come “forza globale della geopolitica” nel suo tradizionale messaggio per la pace di Capodanno 2019 “cento anni dopo la fine della Prima Guerra Mondiale, oggi più di ieri conosciamo il terribile insegnamento delle Guerre fratricide, cioè la pace non può mai ridursi al solo equilibrio delle forze e della paura. Tenere l’altro sotto minaccia vuol dire ridurlo allo stato di oggetto e negarne la dignità…l’escalation in termini di intimidazione, così come la proliferazione incontrollata delle armi sono contrarie alla morale e alla ricerca di una vera concordia”.
Per il Santo Padre, fautore di un vero dialogo, gli accordi di Yalta non furono il frutto di incontro di forze politiche diverse, ma di “spartizione tra potenze (mezza torta a te, mezza torta a me) e ne abbiamo visto i risultati”. Esso infatti “non significa solo compromesso, mezza torta a me e mezza a te. Dialogo significa siamo arrivati qui, possiamo essere o non essere d’accordo, ma cominciamo assieme e questo significa costruire”. Il dialogo dunque è una relazione dinamica, costruttiva che non deve ridursi a uno sterile esercizio verbale; per questo motivo questa funzione, deve essere corroborata da rispetto di principi e giustizia.
Nella sua visita in Giappone il Pontefice ha ripreso il tema affermando che “la pace e la stabilità internazionali non possono essere basate su un falso senso di sicurezza, sulla minaccia di distruzione reciproca o di annientamento totale, o semplicemente sul mantenimento di un equilibrio di potere”. Per lui infatti “La stabilità basata sulla paura aumenta semplicemente la paura e compromette la fiducia nelle relazioni tra le nazioni”.
Già E. Kant, nella sua opera sulla Pace Perpetua aveva formulato una teoria basata su una sorta di stato Universale costruito sulla giustizia, sullo sviluppo umano integrale ed è poi sopraggiunto un voluminoso corpus giuridico volto alla tutela dei diritti umani fondamentali. R. Aron si era poi pronunciato invocando “l’abiura di quella che è stata l’essenza della Politica Internazionale, rivalità degli Stati che tengono all’onore e al dovere di farsi giustizia da soli”.
Di recente, il professor Crayling, partendo dalla constatazione che gli Stati, approntando e armando strumenti militari, di fatto “istituzionalizzano” la guerra” la cui idea è nel DNA della società”, arriva alle stesse conclusioni proponendone la “delegittimazione” (de-institutionalization), e la “fine del romanticismo della guerra” in modo da ri-indirizzare energie e società in “cose di pace, dato che “i legami dei commerci e della cooperazione, sono la profilassi suprema per la guerra”.
Alla politica si richiede dunque che, oltre a delegittimare l’istituto della Guerra, dia seguiti concreti con in modo da trasformare quella forza potenziale delle armi in fattore soft capace di influenzare gli eventi in altri modi. Oggi dunque da varie parti del pianeta si fa appello al rafforzamento della funzione del dialogo che, nell’accezione appena data e nella moderna visione della Sicurezza è, assieme alla Consultazione, una delle sue funzioni vitali per la sua declinazione.
Una funzione necessaria dunque, ma non sufficiente se non sorretta da capacità di repressione credibile delle Nazioni Unite. Tuttavia, questi appelli, a similitudine di altri precedenti non hanno ancora avuto seguiti politici concreti: verità incontrovertibili sul piano della morale, appaiono tuttavia poco appetibili vis à vis le quasi certezze delle logiche delle relazioni internazionali, fino ad ora basate sul realismo dei rapporti di forza.
Un Realismo che tiene conto della geopolitica, disciplina sempre più appetibile ritenuta di valore aggiunto nella conoscenza delle interazioni, ma che non tiene conto dei freni etico morali. Non a caso, gli ultimi avvenimenti delle cronache del gennaio 2020, mostrano che di fronte alla pericolosa prospettiva di un ineludibile confronto militare, i due contendenti forti rispettivamente nella dimensione convenzionale l’uno e asimmetrica l’altro, USA e Iran, aiutati anche dalla diplomazia di terzi, hanno smorzato i toni.
Sul versante del realismo, Henry Kissinger, un personaggio che di crisi se ne intende, sostiene che “l’obiettivo della nostra era è quello di trovare un equilibrio, tenendo a freno i mastini della guerra”. E’ una chiosa non dissimile da quella fatta molti anni prima dal citato Michael Walzer, che concludeva la sua opera seminale osservando che “i freni al ricorso alla guerra sono l’inizio della pace”. Nella sostanza, è un richiamo alla buona volontà e responsabilità dei governanti. In passato, durante la fase ascendente del neo-Impero Germanico, il “Cancelliere di ferro” Otto von Bismark era riuscito a farsi perdonare l’ascesa militare con le armi, contenendo le ambizioni della Germania in modo da non turbare il sistema che assicurava il bilanciamento tra le potenze della sua epoca.
Senza poi dimenticare lo sforzo di buona volontà dei padri fondatori del più grande progetto della Storia sulla pace che, rimuovendo la Guerra tra paesi che si erano confrontati per secoli sui campi di battaglia, ha portato pace e stabilità in Europa. In questa prospettiva, sia H. Kissinger che M. Walzer intravedono dunque la via d’uscita alla drammatica bagarre internazionale nell’impianto di un vero governamento mondiale; idea che, comporta, nel quadro di un rafforzamento delle istituzioni, freni alle opzioni muscolari, più dialogo come metodica di dialettica politica, meno interesse di parte e più condivisione per pervenire a una giustizia politica.
Solo così a detta, secondo i proponenti, si possono mitigare gli effetti della competizione sfrenata e degli impulsi istintivi del confliggere, di difficile dominio, come i differenziali di giustizia, disuguaglianze e di alterità. Si tratterebbe dunque di una trasformazione radicale sia di cultura che di metodica del governamento, che di volontà degli Stati del consesso multilaterale. In effetti, come afferma E. Luard, “la forza, come si è quasi sempre asserito, è necessaria, ma[solo] per adempiere a doveri morali, e non per perseguire interessi nazionali”.
Al momento i segnali sembrano contradditori. A quelli positivi provenienti dalla chiusura di lunghi conflitti (come quello tra Eritrea e Etiopia) o da una comunità di scienziati della Silicon Valley, che si rifiutata di dare il proprio contributo della ricerca sull’uso militare delle intelligenze artificiali, si contrappone, con il deciso aumento delle spese militari, una propensione alla “muscolarizzazione” della politica internazionale. Orbene, le proposte appena riportate non sono una novità vis à vis quello che potremo definire un vero percorso storico di ricerca della pace.
Sempre H. Kissinger nell’incipit dell’opera più conosciuta, Diplomacy, osservava che “sulla base di qualche legge naturale, in ogni secolo sembra emergere un paese che con la sua potenza, volontà, nonché forza e intellettuale e morale, ha plasmato l’intero sistema internazionale in corrispondenza dei propri valori”.
In effetti questo sistema è iniziato sin dagli albori delle relazioni tra comunità organizzate, con le correnti filosofico-religiose. Sullo sfondo della parabola del Mondo Moderno, che sino alla seconda Guerra Mondiale possiamo caratterizzare eurocentrico, lo storico scozzese W. Robertson aveva sostenuto che “la nuova forma politica dell’Europa era iniziata con l’era di Carlo Quinto”, allorquando una ragnatela di matrimoni tra le case regnanti aveva creato una serie di interdipendenze, ante litteram, tra gli Stati del Continente.
Nel XVII° secolo la Francia del cardinale Richelieu “introdusse l’approccio moderno alle relazioni internazionali, basate sullo stato-nazione e motivate dall’interesse nazionale come suo fine ultimo”. Quel sistema andò in crisi con le guerre di religione, culminate con quella terribile commistione di politica e religione manifestatasi nella Guerra dei 30 anni.
Di fatto, la linea politica del Cardinale Richelieu fu presto messa in pratica con l’intervento nel 1635 alleandosi lei “cattolicissima, figlia maggiore della Chiesa”, con la parte Protestante guidata da Gustavo Adolfo di Svezia. Con il capolavoro dei trattati di Westfalia, in cui furono creati i presupposti per lo Stato Moderno e la tendenza a traino religioso alla pace diventa allora politica e internazionale a quasi 150 dall’inizio del sistema.
A seguire, con i Concerti delle Potenze si inaugurò la lunga stagione dei Trattati in cui si incanalano le dispute internazionali. Sempre nel filo della narrativa storica, nel XVIII° secolo fa capolino la Gran Bretagna, che si impone applicando il concetto dell’equilibrio delle potenze. Nell’Ottocento, dopo l’epopea Napoleonica, l’Austria-Ungheria del Principe Metternich diventa il riferimento con il suo Concerto Europeo della Santa Alleanza.
Quest’ultima, sarà smantellata da Bismark che rimodella la diplomazia in una sorta di gara, a sangue freddo, di politica della forza, salvo poi, a unificazione avvenuta, farsi perdonare i modi forti con un atteggiamento costruttivo negli equilibri europei. Il secolo scorso, marcato da due Guerre mondiali dove la teoria clausewitziana trova la sua piena applicazione, vede il ruolo crescente d’Oltreoceano.
Qui le componenti idealistiche wilsoniane e derivati che hanno portato alle Istituzioni Internazionali, come la Società delle Nazioni dove si cerò di dar corso alla volontà di bandire la Guerra con un processo strutturato nel quadro di un’Alleanza iniziando col Disarmo. In questo spirito nasce il precedente del Patto Briand-Kellog di Parigi del 1928, in cui gli aderenti rinunciano espressamente al ricorso alla guerra, come “strumento della politica nazionale”.
Eppure si trattava di una proposta davvero coraggiosa in quanto, come si può notare, la adottata che riprendeva integralmente le ipsissima verba del famoso detto Clausewitziano, ne sanciva la sua valenza giuridica. All’atto pratico, il Patto rappresenta uno dei vari tentativi Internazionali di quel periodo volti a prevenire un’altra guerra, ma che, a giudicare dai risultati, ebbe effetti limitati sulle dinamiche che portarono al riarmo degli anni successivi. I tempi non erano evidentemente maturi. Nonostante gli sforzi, negli anni 30 il contesto strategico iniziò a deteriorarsi, per poi sfociare nella Seconda Guerra Mondiale.
Si ripartì con il sistema di sicurezza delle Nazioni Unite in cui il sostegno all’ordine mondiale e alla pace internazionale si coniugava con una struttura di controllo degli armamenti e con organizzazioni mondiali volte alla prosperità economica. Da allora come osserva H. Kissinger “nessun paese ha influenzato le relazioni internazionali come gli Stati Uniti d’America”. Tutto questo è ora messo in discussione da revanscisti ed ex paesi emergenti, di fatto emersi al potere mondiale. Di fatto, i governi dei paesi del mondo continuano ad acquisire e migliorare sistemi d’arma dei propri Apparati di Difesa attraverso la ricerca.
Nel dic. 2018, il Presidente russo V. Putin ha fatto richiamo al rischio, di “un Olocausto nucleare”, che sembrava dimenticato. Con la rinuncia degli USA prima e della Russia poi al Trattato sulle armi nucleari a Medio Raggio (INF), che avviò il “disgelo “tra le due superpotenze della Guerra Fredda, le tensioni tra USA e Cina, tra USA e Iran, l’effervescenza della polveriera Mediorientale dove è in discussione la stessa mappa della geografia politica disegnata un secolo fa dal citato duo Briand Kellog e la lotta alla supremazia nel mondo musulmano, tornano a soffiare i venti di un periodo che sembrava relegato alla Storia. Per di più, con il combinato disposto dei nuovi ritrovati della tecnologia e dell’intelligenza artificiale si ripropongono gli scenari da “guerre stellari”, di reaganiana memoria.
In definitiva, di fronte alla spregiudicatezza dell’esercizio del potere, l’appello a una evoluzione culturale, che richiede generazioni, in prospettiva di un mondo ideale sembra trascendere l’ordine del tempo. Nel frattempo, a fronte delle nuove sfide e della comparsa di nuove armi si pensa a elaborare strategie su tutti gli elementi della competizione, dalla tecnologia ai modi di guerreggiare. Vero è che questo presente turbolento che prefigura un futuro ipotetico, più che aspettative ci consente solo auspici. In questo quadro, alle classi politiche si richiede molto impegno e non rassegnazione e dunque inerzia anche perché le stesse società, stando alle cronache, risultano entrate in un clima di disillusione mescolate al rancore e rabbia.
Oggi, messi sotto schiaffo dalla sfida globale del CoViD-19, che, partito dalla Cina si è esteso al pianeta, possiamo chiederci se questo genere di flagello abbinato alle poco confortanti implicazioni dei cambiamenti climatici possa innescare, oltre a sommovimenti nel campo dei blocchi delle Alleanze tradizionali per quella che potremmo definire come la geopolitica degli aiuti medico-sanitari-finanziari, cui assistiamo nel botta e risposta tra Oriente e Occidente nei nostri confronti, anche quel cambiamento di attitudine generale vis à vis la madre delle sventure che oggi affligge tanti paesi del Mondo. A questo punto, per aggiungere un po’ di spezie alle ricette appena dette non possiamo non ricordarci della tolleranza che il grande Benedetto Spinoza ci ha sintetizzato così “sedulo curavi actiones humanas non ridere, non lugere, neque detestari, sed solum intelligere[1]”.
In conclusione, nell’amnesia della Storia, che non si ripete anche perché le realtà sono solitamente diverse, si ha l’impressione che, nel perenne vuoto di memoria, quella storia umana “scritta con le lettere di sangue”, senza rimedi efficaci, sia destinata a durare. Del resto la possibilità di deflagrazione di conflitti maggiori è ammessa all’unisono dai vari leaders mondiali.
Come conclude il Prof. L. Freedman, “solo il drammaturgo conosce, sin dal principio, se sta scrivendo una commedia oppure in tragedia. [Per contro], lo stratega mira a una commedia, ma rischia la tragedia”. In effetti la platea mondiale sta diventando complessa e complicata da governare anche in relazione a una tendenza dell’era della tecnologia dell’informazione e della comunicazione, che riguarda anche il ruolo della diplomazia tradizionale.
Nel contesto della muscolarizzazione delle relazioni internazionali, come osserva il giornalista R. Farrow, si assiste a un declassamento della diplomazia ridotta a operare “sotto la protezione del cannone; aspetto che egli sintetizza come “Guerra alla Pace”. Queste ultime osservazioni appaiono eccessive, anche perché l’autore fa riferimento ai canali ufficiali; il che rafforza le tesi di E. Luttwak che, a proposito dell’approccio dei Romani d’Oriente alla strategia, ci fa vedere, come aveva già detto R. Aron, la pace come una perenne “interruzione temporanea dello stato di guerra”, dunque una non-guerra.
Tuttavia, in questo vuoto nel depotenziamento dei conflitti, e in linea con l’anelito alla pace, prendono abbrivio formule operative come i canali secondari (nel lessico back channels) di intermediari volenterosi, di solito di ispirazione umanitario-caritatevole (charities), come, ma non solo, la Comunità di Sant’Egidio, riconosciuti come mediatori onesti (honest brokers) tra le parti. Senza poi dimenticare l’esempio del modello di pace che regna nell’attuale Unione Europea, soluzione che Raymond Aron ha definito come “pace di soddisfazione“ tra le parti.
In un sussulto di orgoglio e rifacendosi all’antica tradizione greca delle olimpiadi, le Nazioni Unite hanno chiesto una Tregua Olimpica ai conflitti da rispettare in occasione dei Giochi di Tokio 2020. Quest’appello vale ancor più sotto la minaccia pandemica del CoViD 19 giacché la geografia dei conflitti che insanguinano il globo terracqueo mette in risalto aree in cui i servizi sanitari dei paesi afflitti sono pressoché distrutti. In definitiva, la tendenza al bene comune, trova espressione, nel nostro caso, nella continua ricerca di rimedi al male della guerra: adattando i versi di U. Foscolo “la speme, ultima dea non fugge i sepolcri”.
[1] “Ho cercato assiduamente di imparare a non ridere delle azioni umane, a non piangerne e a non detestarle, ma solo a comprenderle. Dal Tractatus Politicus , 1-4
Mario Rino Me, ammiraglio di Squadra (r)