Autore: Stefano Ricci – 14/07/2020
Con l’approssimarsi delle elezioni presidenziali del prossimo novembre, il dibattito politico a stelle e strisce s’avvia verso il culmine della propria incandescenza: nei mesi a seguire, saranno diversi i colpi di scena cui assisteremo e altrettanti saranno i dossier pubblicati a favore di quel candidato o a scapito di quell’altro.
Eppure, fra tutte le questioni ormai al centro dell’agenda politica statunitense, c’è un tema che – più d’ogni altro – reca con sé una vasta scia di implicazioni che valicano i confini del puro tracciato economico e politico.
Un tema dai contorni più indefiniti, più internazionale nella sua stessa definizione e che vede, per la prima volta nella storia, i social network al centro d’una riflessione circa la neutralità d’adottare (o meno) in merito a temi caldi del dibattito politico e sociale internazionale.
Una neutralità che, secondo le recenti posizioni adottate dal Presidente degli Stati Uniti Donald Trump, Twitter ha recentemente violato.
Sin dalla campagna elettorale del 2016, il Presidente Trump ha fatto largo uso dei social network per raggiungere i propri elettori, spesso sfruttandone le pose per accentrare su di sé l’attenzione del pubblico, oltre alla volontà – mai celata – di veicolare specifici messaggi “piegando” la realtà intorno alle proprie dichiarazioni.
Ne abbiamo letto e sentito a lungo, in queste ultime settimane, eppure su due elementi si è poco dibattuto, sebbene più fonti ne abbiamo tirato in ballo i contenuti: parliamo della cosiddetta “Sezione 230” e delle accuse di shadow banning mosse a Twitter da ormai diversi anni.
Vediamo la situazione più nel dettaglio.
Sezione 230
Il Communications Decency Act, alla Sezione 230, chiarisce come le società attive su Internet non possano essere ritenute legalmente responsabili di ciò che i differenti utenti pubblicano liberamente sul web, allo stesso tempo specificando come tali società non possano essere considerate dei veri e propri “editori” e, pertanto, non possano essere perseguite penalmente proprio per via di ciò che è reso fruibile dal proprio pubblico di riferimento.
Allo stesso tempo, a queste società è concessa la facoltà di rimuovere quei contenuti ritenuti offensivi o che violino il codice di condotta delle diverse piattaforme.
Tale provvedimento normativo fu emanato nel 1996, nel momento in cui vennero intentante due cause legali ad altrettante società di servizi web: Prodigy e CompuServe, due forum in voga all’epoca in cui agli utenti era garantita la (quasi) totale libertà d’espressione.
Mentre CompuServe non applicava filtri di moderazione ai contenuti esposti sulle proprie pagine, Prodigy si serviva di una schiera di moderatori a cui spettava il compito di approvare – o meno – il contenuto dei messaggi scritti dagli utenti.
Sta di fatto che, proprio nel 1996, le due società furono querelate per via di alcuni contenuti ospitati nelle directory dei due siti: CompuServe fu dichiarata innocente, in quanto non esisteva “moderazione” sul proprio dominio; Prodigy, per parte propria, fu ritenuta direttamente responsabile, in quanto era attivo un servizio di moderazione che equiparava, pertanto, il forum a una testata giornalistica.
Ripeto, era il 1996 … e all’epoca, non esistevano i social network, la cui presunta “immunità” degli è già stata incrinata dal Fosta-Sesta Act del 2018.
Perché, dunque, il Presidente degli Stati Uniti d’America Donald Trump si è così accanito contro Twitter?
Twitter e l’accusa di shadow banning
A fine maggio, la piattaforma di microblogging Twitter ha, per la prima volta, segnalato come “contenuto fuorviante” un tweet del Presidente Trump; il tweet riguardava il voto per corrispondenza, definito da Trump come sicuramente “falsato” in quanto le schede finirebbero «per essere rubate, e che il governatore della California (un Democratico) sta inviando milioni di schede, anche a chi non dovrebbe riceverla, e condizionerà gli elettori nello spiegare loro come votare».
Un tweet, questo, palesemente “falso”, come pur spiegato in un interessante articolo pubblicato dalla CNN[1].
Pronta è arrivata – al vetriolo – la risposta del Presidente Donald Trump, il quale ha accusato proprio Twitter di shadow banning, di aver posto cioè un vero e proprio “bando virtuale” che penalizza alcuni utenti rendendoli meno visibili.
L’accusa non è nuova: già un’indagine di Vice News, pubblicata nel 2018, aveva sottolineato come Twitter avrebbe usato lo shadow banning per penalizzare alcuni esponenti repubblicani, segnalando gli account nelle ricerche complete, ma rendendoli non visualizzabili nel più immediato menu a tendina[2]
Una considerazione
Di certo, Trump non potrà mai arrivare a “chiudere” (come paventato) una piattaforma del calibro di Twitter; non solo è de facto impossibile, quanto inverosimile: pensiamo ai miliardi di dollari investiti in inserzioni, sponsorizzazioni e attività commerciali fra Facebook, Google e Twitter.
Oppure, ai milioni di tweet, dirette video e commenti che popolano ogni giorno le pagine di queste piattaforme: imputare, per esempio, a Twitter la precisa responsabilità di tutto ciò che viene pubblicato sulle migliaia di pagine di cui si compone comporterebbe un corto circuito tale da mettere al tappeto qualsiasi operatore.
Sullo sfondo, però, c’è un più interessante dilemma che coinvolge proprio Jack Dorsey, fondatore di Twitter: lasciare al presidente degli Stati Uniti la facoltà di impiegare la piattaforma per diffondere contenuti ritenuti controversi o impedire una simile possibilità rischiando la censura?
Se, come recita la Sezione 230 del Communications Decency Act, le società attive su Internet non possono essere ritenute responsabili di ciò che gli utenti pubblicano sul web in quanto non configurabili come editori, allora, come nel caso di Prodigy, segnalare come “contraffatto” un contenuto condiviso dal Presidente degli Stati Uniti d’America equivale a farsi editore e dunque ad assumersi precise responsabilità, in questo caso soprattutto politiche.
E questo nei confronti di qualsiasi utente: repubblicano, democratico e così via.
Al di là di posizioni utili solo per arricchire le colonne della stampa internazionale, chi ha davvero interesse nel mettersi contro il Presidente degli Stati Uniti?
In fin dei conti, dopo le minacce di Trump, il titolo di Twitter ha ceduto in Borsa il 2,76% e negli scambi che precedono l’apertura di giornata è arrivato a perdere più del 4%[3].
Note
[1] https://twitter.com/i/events/1265330601034256384
[2] https://www.vice.com/en_us/article/43paqq/twitter-is-shadow-banning-prominent-republicans-like-the-rnc-chair-and-trump-jrs-spokesman?utm_campaign=sharebutton
[3] https://www.agi.it/estero/news/2020-05-28/trump-twitter-social-network-8751170/
Stefano Ricci lavora come data analyst per un’importante società italiana di import – export e come freelance cyber-security analyst. E’, inoltre, autore del volume: Cyber Warfare: Verso Un Nuovo Paradigma Strategico, 2017 (Cyber-Warfare – Towards a New Strategic Paradigm)