Autore: Alberto Cossu – 24/ 8/ 2019
Il conflitto economico tra Cina e Usa sembra continuare e promette di non esaurirsi presto. La Cina ha annunciato di imporre dazi per ulteriori 75 miliardi di dollari. La risposta americana è stata quella di incrementare i dazi di un ulteriore 5% su tutte le importazioni dalla Cina del valore di 550 miliardi di dollari. Inoltre Trump, compiendo un ennesimo strappo in avanti nella “tit-for tat escalation war“, richiede alle aziende statunitensi di abbandonare la Cina e di localizzare le produzioni in altri paesi. E’ solo un invito perché, non essendo un “economia pianificata” al pari di quella cinese, niente può fare per orientare le decisioni di tali aziende.
E’ ormai esplicito l’obiettivo della Casa Bianca: spostare le produzioni americane fuori dalla Cina. Il messaggio è indirizzato principalmente alla corporate America, cioè alle multinazionali che sono quelle che maggiormente hanno investito in Cina. Il valore degli investimenti delle imprese americane in Cina ammonta a circa 250 miliardi di dollari contro i poco più di 100 di quelli effettuati dalle imprese cinesi. Gli investimenti cinesi nel settore high tech negli USA hanno un trend positivo ma, per effetto del forte controllo esercitato dalle autorità Usa, nel futuro si prevede che diminuiranno, mentre in Europa, nell’anno passato, si è registrato un trend negativo in tutti i settori.
Insomma l’amministrazione Trump invia un segnale forte e anche preoccupante per il mondo, poiché potrebbe essere veramente il preludio per una escalation del conflitto economico. La Cina è un paese di cui non ci si può più fidare e con il quale gli USA sono in aperta competizione.
I dazi su cui Trump insiste sono lo strumento per convincere il sistema produttivo americano a ripensare completamente la supply chain a seconda di convenienze non solo economiche, ma anche strategiche e di sicurezza nazionale. I dazi sono pagati dagli importatori americani ed un aumento di queste proporzioni oltre a generare incertezza per il futuro, spinge le aziende a riprogrammare la catena dei fornitori.
Finora non si è avuta nessuna fiammata inflazionistica ma se le cose dovessero continuare in questa direzione molti economisti prevedono un aumento dei prezzi dei prodotti importati. Questa strategia collide con le certezze di tanti economisti che vedono irrompere in modo prepotente la politica nelle scelte economiche.
Uno dei primi atti dell’amministrazione Trump, risalente al luglio del 2017, è stato quello di richiedere una revisione della supply chain del settore manifatturiero ed in particolare della difesa. Nel settembre del 2018 in un documento predisposto dall’amministrazione si individuano chiaramente alcuni punti deboli e in particolare l’eccessiva dipendenza da fornitori cinesi, soprattutto per produzioni strategiche.
La strategia indicata (per le produzioni strategiche quali quelle della difesa) è basata sul ripensamento della supply chain in modo che risponda a criteri di sicurezza nazionale e strategici per gli USA. Insomma la localizzazione di investimenti esteri non dipende solo ed esclusivamente da valutazioni economiche ma deve tenere anche conto della visione strategica e delle alleanze USA. Competenze e know how, non si muovono nel mondo seguendo solo logiche esclusivamente economiche.
Si può facilmente dedurre (come anche da altri documenti ufficiali dell’amministrazione americana) che la Cina non rientra tra i paesi preferiti, anche perché è un mercato chiuso e protezionista verso l’esterno e propenso a favorire le proprie aziende. Ha scelto come strategia non solo quella di mettersi in competizione con gli USA, e in genere con l’Occidente, ma anche di disattendere le regole dell’ordine economico internazionale. Questa scelta è legittima cosi come quella di respingere apertamente modelli democratici occidentali per affermare esplicitamente la superiorità del modello cinese. Però è altrettanto evidente che questa posizione qualche problema lo genera sia agli Usa che all’Occidente, ma anche alla Cina perché la porta a dover ragionare sulla base di sistemi valoriali disallineati.
Ovviamente la strategia dell’attuale amministrazione americana dispiegherà i suoi effetti nel lungo periodo. Infatti, spostare filiere di supply chain non è mai semplice e comporta anche dei costi rilevanti. Spesso non è possibile attuarla perché alcune produzioni richiedono competenze non facilmente reperibili in altre parti del mondo. Molti autorevoli economisti la ritengono disastrosa e prevedono una recessione mondiale.
Comunque sia il processo di distacco dell’economia USA da quella della Cina è ormai avviato e sembra, almeno dagli atti dell’amministrazione Trump e dal modo in cui si comporta la Cina, che non si fermerà. Il cosiddetto disaccoppiamento (decoupling) cioè la riduzione dell’integrazione tra le due economie si sta già manifestando in modo abbastanza evidente.
I dati, infatti, dicono che il Messico e il Canada hanno per la prima volta superato, nella prima metà di questo anno, la Cina come principali fornitori degli Stati Uniti. Sono ancora dei segnali deboli da prendere con estrema prudenza ma evidenziano un fenomeno di “sostituzione” graduale del fornitore Cina con altri specializzati su segmenti di supply chain (auto-motive nel caso Messico). Questi segnali si uniscono anche a quelli che registrano un emigrazione di aziende dalla Cina verso altre destinazioni localizzate in Asia. Inoltre, l’innovazione tecnologica, ed in particolare l’intelligenza artificiale, sconvolgerà ulteriormente gli scenari economici facendo cessare il vantaggio competitivo del costo del lavoro su cui la Cina ha basato fino ad oggi le sue fortune economiche.
L’accordo USMCA, che dovrebbe sostituire il NAFTA, ha le potenzialità per creare un area di libero scambio sempre più integrata di circa 24 mila miliardi di dollari in grado contrapporsi ad altre aree ed in primo luogo alla UE che in questo momento assiste al distacco del Regno Unito. Un area con capacità di attrazione per altri paesi ed in primo luogo dello stesso Regno Unito che come più volte è stato esplicitamente affermato in caso di una Hard Brexit potrebbe trovare un porto in cui rifugiarsi.
Le politiche multidimensionali dell’Amministrazione Trump, duramente contrastate in Europa e in Cina, stanno dispiegando i loro effetti che a differenza di quanto la stampa mainstream sostiene dovrebbero essere valutate con molta attenzione e soprattutto senza gli occhiali di ideologie che offuscano i contorni della realtà.
In conclusione ci sembra di intravedere all’orizzonte un processo di distacco delle due principali economie del mondo. Un processo che durerà a lungo e che continuerà, a differenza di quanto qualcuno potrebbe pensare, anche con amministrazioni americane di orientamento diverso dall’attuale. I democratici supportano le decisioni di Trump sulla questione cinese. Gli USA, infatti, non sono più disposti a dare fiducia alla Cina ed a favorirne lo sviluppo economico come hanno fatto fin qui, almeno dall’entrata di questo paese nel WTO.
Gli eventi in corso segnano il fallimento dell’ordine economico internazionale cosi come l’abbiamo finora conosciuto, ed in primo luogo del WTO, da cui in questi giorni Trump ha minacciato per l’ennesima volta di voler ritirare gli USA. Il WTO, infatti, si è dimostrato incapace di regolare le grandi questioni del commercio internazionale evidenziando i limiti delle istituzioni multilaterali che nel tentativo di tenere assieme interessi molteplici si scordano di quelli che contano di più e dai quali non si può, purtroppo, prescindere. E’ anche una questione di dimensione, in questo caso economica e non solo. Insomma l’unilateralismo americano è la conseguenza del fallimento del multilateralismo e delle istituzioni di cui è espressione e a cui in tanti, e non solo gli USA, hanno concorso a determinare