Autore: Emanuela Irace – 19/08/2020
Tra le costanti della politica, non soltanto in Italia, c’è l’abitudine di annunciare qualcosa prima di realizzarla. Il motivo è semplice. Si testano gli umori. Si aggiusta il tiro. E soprattutto si calibra il proprio peso sul piano internazionale e interno. L’intesa, a regia statunitense e saudita, tra Israele ed Emirati Arabi Uniti, che dovrebbe essere firmata ai primi di settembre a Washington, rispecchia questa condizione, ma non solo. Per Trump è un tassello del “Deal of the Century”, annunciato a inizio mandato per il Processo di pace in Medio Oriente. Un passaggio che riveste grandi finalità politiche in vista delle prossime elezioni. Una scommessa anche per il Premier dello stato ebraico Netanyahu investito dagli scandali, che rischia l’ennesimo ritorno alle urne.
Questo accordo – per la normalizzazione dei rapporti tra Emirati e stato ebraico – si innesta dunque in Medio Oriente sul terreno scivoloso del conflitto israelo-palestinese, reso proibitivo da oltre settanta anni di politica coloniale che ha fermato gli orologi della storia consentendo a uno stato occidentale contemporaneo l’occupazione di tutta la Palestina storica. Un territorio ridotto a pelle di leopardo, frammentato dagli insediamenti dei coloni, su cui è difficile immaginare l’edificazione di un futuro stato palestinese, come vorrebbero le risoluzioni Onu e i desiderata internazionali.
In questo contesto, l’ufficializzazione delle relazioni diplomatiche tra Israele ed Emirati Arabi Uniti, con corollario di accordi bilaterali economici e commerciali che spaziano dalle armi alla sicurezza, passando per religione e cultura, rappresenta un pericoloso passo indietro nel processo di pace in Medio Oriente. La perdita di valore della causa palestinese a livello internazionale è molto più preoccupante dell’ipotetico tradimento degli Emirati. “La piccola Sparta” – come viene chiamata la federazione dei 7 emirati – forte di una politica internazionale presente in un buon numero di teatri di guerra, esibisce un attivismo bellico che ha bisogno di armi a tecnologia avanzata, necessarie al Principe ereditario di Abu Dhabi, così come al suo omologo saudita Mohamed Bin Salman che dell’accordo è regista per parte araba. Con Israele fornitore di apparecchiature militari tra le più sofisticate al mondo si può comprendere il gioco delle alleanze, non più come in passato “under the table”, ma ufficializzate per volontà geostrategica. Tra gli obiettivi la volontà di mantenere lo status quo in Medio Oriente, ed evitare il rientro Usa negli accordi sul nucleare iraniano.
Sul palcoscenico della politica, fin da epoca biblica, le cause reali dei conflitti e delle paci vengono manipolate per diventare accettabili alla sensibilità pubblica. E’ il meme della causa giusta, conquistare il cuore è primo step del soft power. Lo sa Trump e lo sa Netanyahu. Entrambi parlano di accordo di pace e blocco degli insediamenti. In questo la Palestina è l’anello debole: non ha appoggio internazionale e continua a perdere anche quell’ultima arma morale, che si dovrebbe accordare al soggetto più debole per antonomasia.
Da parte araba la regia dell’accordo è in mano al principe saudita MBS, Mohammad Bin Salman. L’Arabia Saudita Ipotizzata come prossima in lizza –dopo Oman e Bahrein – tra gli stati della penisola che potrebbero ufficializzare i rapporti diplomatici con Israele. Decisamente una arma a doppio taglio per la conservazione al trono della monarchia saudita, assediato da pretendenti e clan rivali. Il pericolo per il principe ereditario, capo del “51esimo stato americano d’oltreoceano”, che ospita i principali luoghi sacri dell’Islam – Mecca e Medina – potrebbe essere di scivolare sul fattore religioso, col rischio di perdere il potere, – “per una messa” – diremmo noi.
Se l’Arabia Saudita dovesse seguire gli Emirati nel processo di pace potrebbe facilitarsi l’ingresso nell’ICI, Istanbul Cooperation Initiative, il forum di dialogo e collaborazione pratica tra la Nato e gli stati del Golfo. In passato sia Sauditi che Omaniti hanno inviato ufficiali ai corsi della Nato Defence College e tutti e due mostrano interesse verso la ICI. Una materia intricata tenendo conto delle ottime relazioni dell’Oman con l’Iran diversamente da quelle intrattenute con la dirigenza saudita della Gulf Cooperation Council.
Normalizzare i rapporti con Israele, per i Sauditi, significherebbe rinnegare di fatto la causa palestinese con lo spettro del blocco dei finanziamenti a una popolazione senza altro sostentamento. Un po’ come è avvenuto per il Libano. Andare contro la Palestina per l’Arabia Saudita equivarrebbe a trovarsi in difficoltà anche all’interno della Lega araba, ormai orfana di Libia e Siria, dove MBS gioca la sua partita per l’egemonia. Una lotta che si contende con due capi determinati: al-Sisi (Egitto) e la Erdogan (Turchia). Una compagnia da brivido, che sta lavorando per un nuovo assetto nel Mediterraneo e Medio Oriente.
Emanuela Irace, giornalista, inviata in Vicino e Medio Oriente, socio ISMEO