Autore: Emanuel Pietrobon – 21/08/2019
“Io credo in un’Europa da Lisbona e Vladivostok”, questa è probabilmente la dichiarazione più altisonante che sarà ricordata dell’incontro del 19 agosto fra Vladimir Putin e Emmanuel Macron in Francia. A pronunciare queste parole, però, non è stato il leader russo, ma il suo omologo francese.
I due presidenti hanno discusso di diversi temi, fra i quali Artico, conflitto nel Donbass, guerra in Siria, situazione interna nei rispettivi paesi, rapporti tra Unione Europea e Russia. In ogni caso è quasi sembrato un dialogo tra sordi – un copione già visto in occasione di un precedente incontro ufficiale tra i due, tenutosi però in Russia.
Macron si è lamentato del modo in cui le autorità russe stanno trattando i manifestanti che da settimane protestano per il mancato accesso di alcuni candidati indipendenti alle elezioni locali della capitale, Putin ha risposto che non vuole uno scenario da gilet gialli nel paese e ha anche citato i numeri dei morti e dei feriti occorsi nei mesi di proteste – tutt’oggi in corso – che hanno scosso le principali città francesi.
Sempre Macron ha chiesto Putin maggiori sforzi per porre fine al conflitto nel Donbass, evitando però di parlare delle quasi giornaliere violazioni del cessate il fuoco compiute dalle forze armate ucraine nelle repubbliche di Luganks e Donetsk. Putin ha risposto che il dialogo avuto con il neoeletto presidente ucraino, Volodymyr Zelensky, gli ha trasmesso del “cauto ottimismo”.
Tornando alla frase d’apertura, si tratta di una chiara citazione ad un celebre pensiero di Charles de Gaulle, il padre fondatore della Francia del secondo dopoguerra. De Gaulle ha lasciato un’impronta profondissima nella cultura politica nazionale, soprattutto nel campo della geopolitica. Fu colui che lavorò per far risorgere la grandeur francese, tentando di sganciare il paese dalla totale acquiescenza verso gli Stati Uniti e di trasformare quella che sarebbe diventata l’Unione Europea in un’associazione di nazioni legate da una comune identità, autonoma dalle logiche dei due blocchi e capace di avere ancora una voce che conta nei grandi affari internazionali.
Macron sta investendo molto nella difesa, nell’alta tecnologia e nella preservazione della Françafrique, una gigantesca sfera d’influenza che parte dal Nord Africa e arriva fino al Congo e che garantisce al paese introiti legati allo sfruttamento minerario ed energetico senza i quali il pil francese sarebbe più che dimezzato.
Sta investendo molto anche in un’altra ambizione: egemonizzare l’Unione Europea insieme alla Germania. Il patto di Aquisgrana è l’esempio più lampante di ciò.
Ma la politica estera francese continua a risentire pesantemente delle interferenze statunitensi e Macron – nonostante i proclami di velleità autonomiste – ha mostrato ampiamente di seguire pedissequamente gli ordini che giungono da oltreoceano. Lo ha mostrato in Venezuela, riconoscendo immediatamente Juan Guaidò come legittimo presidente, in Iran, allineandosi alla linea dura dell’amministrazione Trump che ha rotto con l’apertura di Barack Obama, ed anche con la Russia. La Francia sostiene la necessità del regime sanzionatorio posto in essere in seguito l’annessione della Crimea, non lo ha mai rimesso formalmente in discussione e non sembra intenzionato a farlo, e addossa alla presidenza russa tutte le responsabilità degli eventi che hanno avuto luogo in Ucraina dal 2014 ad oggi.
Ma Macron non è mai andato contro l’amministrazione Trump, nonostante questa non abbia mai nascosto di seguire un’agenda euroscettica, che è tale perché contraria ad un’egemonia franco-tedesca, e minacci di guerre commerciali sin dal 2016.
Per quanto le dichiarazioni del presidente francese possano suscitare un’indubbia presa emotiva, i russi devono tenere in considerazione una cosa: Macron non è de Gaulle, lo ha dimostrato più volte, in ogni teatro che conta, quanto sia disposto a seguire pedissequamente gli ordini di oltreoceano anche a costo di sacrificare l’interesse nazionale od europeo.
La riesumazione del formato Normandia 2+2 che Macron ha proposto a Putin per risolvere la situazione di stallo in Ucraina si rivelerà con molta probabilità un altro strumento diplomatico dall’alto potenziale non sfruttato, quindi inefficace. Perché l’Unione Europea non sta seguendo quel che dovrebbe essere il proprio interesse in Ucraina, ma sta conformandosi pienamente alla visione statunitense e la sta difendendo.
De Gaulle temeva che far entrare la Gran Bretagna nella Comunità Europea avrebbe permesso agli Stati Uniti di influenzare ulteriormente le dinamiche interne europee, perché riteneva Londra la longa manus di Washington nel continente.
Se lo statista fosse vivo oggi si renderebbe conto dell’impensabile cambio di paradigma avvenuto negli ultimi 40 anni: la Gran Bretagna si appresta ad uscire dall’Unione Europea, mentre la Francia di Macron è custode degli interessi americani.
Un’Europa da Lisbona a Vladivostok è ancora possibile, ma solo a patto di riconoscere alla Russia le legittime pretese di influenza su territori storicamente dominati e la sua natura identitaria unica, frutto della combinazione di influenze europee, eredità bizantina ed autoritarismo asiatico.
L’incontro del 19 agosto è stata l’ennesima prova che non può esserci un vero dialogo, se uno dei due interlocutori è disinteressato ad ascoltare le posizioni dell’altro. Forse Macron crede veramente in un’Europa da Lisbona a Vladivostok, ma non come la intendeva de Gaulle: in questa visione non c’è spazio per il rispetto delle identità nazionali, per una reale ricerca di grandezza che permetta maggiore autonomia da Washington, e neanche per un rapporto leale con la Russia.