Autore: ERGO – 24/10/2023
Gli eventi di sabato 7 ottobre 2023 rappresentano qualcosa che entrerà pesantemente nella storia e negli sviluppi futuri del conflitto Israelo-Palestinese. Storicamente, non si era mai vista un’offensiva partire dai territori della Cisgiordania o della Striscia di Gaza. L’entità dell’attacco, portato avanti dall’organizzazione politico-militare Hamas, rende l’evento in sé senza precedenti, tanto che giornalisticamente si parla di un nuovo 11 settembre in versione israeliana. La miopia predittiva dei servizi di sicurezza; i bombardamenti israeliani; la cattura di ostaggi da parte di Hamas; il numero di vittime da entrambe le parti; una comunità internazionale tentennante e piazze di tutto il mondo in fiamme sono solo alcuni dei fenomeni a cui assistiamo al giorno d’oggi e che caratterizzano il conflitto attualmente ancora in corso.
In un sistema internazionale estremamente complesso e dinamico, il podcast “Ergo” di Radio UNINT si pone l’obiettivo di analizzare e spiegare cosa succede nel mondo della geopolitica e delle relazioni internazionali, cercando di dipingere un quadro che incornici tutti gli attori coinvolti, come essi interagiscano tra loro e come è possibile che si muovano in futuro.
Le parole di Ludovica, Alessandro e Marco ricostruiranno il filo degli eventi con un approccio analitico e neutrale, nel tentativo di gettare luce su uno dei fronti che da decenni tormenta l’equilibrio internazionale. Attraverso una narrazione il più possibile lucida e chiara, tenteranno di rendere comprensibile la vicenda anche a coloro che non hanno dimestichezza con la geopolitica del Medio Oriente o con le relazioni internazionali in generale.
ERGO (script)
ISRAELE – HAMAS: UNA PACE SEMPRE PIÙ LONTANA
“Cittadini di Israele, siamo in guerra. Non un’operazione, non un ciclo di combattimenti, ma una guerra.”
Quelle che avete appena sentito sono le parole del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu a poche ore dall’inaspettato e violento attacco che Hamas ha sferrato contro Israele il 7 ottobre scorso.
La puntata di oggi tratterà proprio del conflitto attualmente in corso tra Hamas ed Israele, ma prima di cominciare è opportuno fare alcuni disclaimer:
Il podcast di oggi non vuole essere una mera ricostruzione dei fatti avvenuti fino ad ora. L’obiettivo di “Ergo” è infatti spiegare le implicazioni geopolitiche degli scontri tra gli attori coinvolti e presentare le ipotetiche evoluzioni del conflitto. Nel farlo, non verranno prese le parti di nessuno, ma si tenterà di fornire un’analisi quanto più oggettiva possibile. È importante poi dire che questa puntata viene registrata il 18 ottobre, quindi, considerando che il conflitto è attualmente in corso, sicuramente da qui ai prossimi giorni sarà possibile assistere a stravolgimenti o mutamenti degli equilibri nella regione.
Alle 6:30 ora locale di sabato 7 ottobre suonano le sirene in molte città israeliane. Ha inizio l’operazione “Alluvione Al-Aqsa”, un attacco congiunto via aria, terra e mare ad opera di Hamas, la quale è davvero senza precedenti. L’effetto sorpresa viene rinforzato dal fatto che generalmente il sabato, ricorre lo Shabbat (per tradizione il giorno di riposo), ma questo in particolare (il 7 ottobre) corrispondeva allo Simkhat Torah, ossia l’ultimo giorno di una celebrazione ebraica, il Sukkot, che storicamente rievoca la diaspora della comunità ebraica dall’Egitto verso la terra promessa.
Hamas, ma più precisamente la sua ala militare, la brigata Al Qassam, ha sferrato un attacco contro il territorio limitrofo di Israele. L’operazione è avvenuta in pochissime ore, e ha visto l’utilizzo di oltre 5000 missili combinato a un’invasione di terra che ha sfondato in diversi punti la recinzione che segna il confine tra Israele e la Striscia di Gaza. Nel mentre, un numero imprecisato di miliziani di Hamas ha attuato incursioni simultanee nei vari villaggi israeliani che circondano Gaza, conosciuti con il nome di Kibbutz.
Durante l’offensiva, centinaia di persone hanno perso la vita e molte altre sono rimaste ferite. Tra le vittime si contano militari ma anche moltissimi civili, tra cui donne, bambini e anziani.
Ovviamente, la risposta di Israele non si è fatta attendere, tant’è vero che le forze di difesa israeliane hanno replicato a loro volta con l’operazione “Spade di Ferro”, attuando massicci e continui bombardamenti sull’enclave palestinese, giustificandoli come attacchi diretti al cuore di Hamas.
Perché questo attacco si può definire senza precedenti?
Innanzitutto, si registra il fallimento dell’intelligence israeliana che non è stata in grado di prevedere l’attacco, nonostante sia uno dei servizi di intelligence più competenti al mondo.
Il fallimento viene testimoniato dal fatto che ci sono volute alcune ore prima che le forze di difesa organizzassero una risposta adeguata.
Non è la prima volta che si registra questo tipo di fallimento. Infatti, già il 6 ottobre del 1973, quindi esattamente 50 anni fa, gli eserciti regolari di Siria ed Egitto attaccarono a sorpresa Israele dando inizio a quella che ricordiamo con il nome di Guerra dello Yom Kippur.
Un altro fattore che rende l’attacco senza precedenti è il bilancio delle vittime. Al momento in cui registriamo, si contano più di 1400 israeliani uccisi, per lo più civili, e oltre 4 mila feriti: un numero di perdite mai registrato dallo stato israeliano.
Infine, elemento di totale novità è rappresentato dalle circa 200 persone, tra civili e militari, che sono state prese in ostaggio e portate con la forza nell’enclave palestinese.
Ma entriamo ora nel contesto geopolitico in cui si inserisce la vicenda e capiamo chi sono gli attori coinvolti.
La striscia di Gaza è una delle due unità territoriali, assieme alla Cisgiordania, che costituiscono l’Autorità Nazionale Palestinese (nonostante vi sia una netta divisione politica tra le due parti). La striscia di Gaza è un territorio incuneato lungo il confine marittimo tra Egitto ed Israele, con una lunghezza di circa 49 km e una larghezza di 9. Ma la particolarità più rilevante è la sua demografia: infatti, all’interno della striscia, che ha una superficie di 360 km quadrati (estesa quanto un quarto di Roma), vivono oltre due milioni di palestinesi, che rendono l’enclave una delle aree più densamente popolate al mondo.
Quasi seimila persone per chilometro quadrato.
L’alta densità demografica non è però l’unico problema a Gaza. La popolazione infatti, dal 2006, vive in uno stato di assedio e i palestinesi hanno accesso limitato a ogni tipo di bene: acqua, energia, o cibo devono essere forniti o da organizzazioni umanitarie, o da Israele che proprio in ragione di questa dipendenza, li ha spesso utilizzati come strumento di pressione e coercizione.
La storica instabilità nella regione ha alimentato nel tempo la nascita di un’organizzazione politico militare, da alcuni paesi riconosciuta come gruppo terroristico, che oggi guida politicamente la striscia di Gaza, Hamas.
Hamas è un partito armato, di matrice islamico-sunnita, che ha come obiettivo quello di abbattere lo stato di Israele, considerato invasore e usurpatore di territori da sempre appartenenti al popolo palestinese.
Il suo controllo territoriale sulla Striscia di Gaza diventa centrale dopo la vittoria alle urne conseguita nel 2006, separandosi definitivamente dall’altro partito palestinese, al-Fatah, il quale invece è riconosciuto internazionalmente e controlla ad oggi la Cisgiordania. Da allora il fronte con Israele è rimasto caldo, ma tendenzialmente stabile, salvo qualche scambio di artiglieria tra le due parti. Sottolineiamo, inoltre, che Hamas dialoga con tutti i Paesi dell’area mediorientale, ricevendo supporto, nel tempo, tanto dal Nord Africa quanto dai paesi del Golfo (Qatar in primis), i primissimi nemici di Israele.
Ed è appuntoIsraele il secondo attore che qui ci interessa. Tel Aviv,dal canto suo, presenta un proprio profilo, legittimato dal punto di vista internazionale e regionale e risalente all’indipendenza dichiarata nel 1948. Questo profilo vede il paese strettamente legato agli Stati Uniti, alleati storici, e per eccellenza.
Israele, infatti, costituisce l’unico attore di riferimento occidentale in mezzo alla polveriera del Medio Oriente.
Ultimamente, però, diversi fattori stanno generando instabilità presso la società e la politica israeliana: il governo insediatosi verso la fine del 2022 si dimostra come uno dei più estremisti mai formati. Infatti, oltre al malcontento interno creato dalla controversa riforma della giustizia, si è assistito in quest’ultimo anno ad una pressante espansione degli insediamenti israeliani in Cisgiordania.
Un fatto che ha chiaramente aumentato gli scontri tra i residenti palestinesi, costretti ad andarsene, e le forze armate israeliane.
Data l’instabilità di una tale area, continuamente soggetta a proteste e tensioni, è evidente che nell’ultimo periodo l’intelligence israeliana abbia preferito concentrarsi sulla Cisgiordania, vista la presunta stabilità a Gaza.
Stabilità presunta, appunto, perché gli avvenimenti di questi giorni dimostrano il contrario.
Ad oggi Israele ha effettivamenteisolato la Striscia di Gaza, bloccando ogni tipo di accesso dall’esterno, aggravando le condizioni di vita di una popolazione che da anni è stremata da tale segregazione e che vive in una vera e propria “prigione a cielo aperto”.
Allo stesso tempo, Israele non ha mai cessato di bombardare la striscia. Dopo undici giorni di bombardamenti, il conto delle vittime palestinesi è arrivato a oltre 3000 morti (tra cui più di 800 bambini) e 13 mila feriti.
Per rispondere all’attacco di Hamas, Tel Aviv sta richiamando oltre 300mila riservisti delle forze armate, preparando a sua volta una massiccia offensiva da lanciare contro l’enclave stessa. È di questi giorni, infatti, l’appello dell’amministrazione Netanyahu affinché i palestinesi situati nel nord della striscia evacuino verso il sud, proprio in vista di un’imminente invasione di terra.
Secondo le Nazioni Unite, i bombardamenti, uniti al blocco dei beni di prima necessità stanno generando una disastrosa crisi umanitaria, che getta gli oltre due milioni di persone in una situazione di emergenza idrica e igienico-sanitaria.
Per far fronte alla situazione si è discusso dell’apertura di un corridoio umanitario da Gaza verso l’Egitto per permettere a donne e bambini di abbandonare il territorio palestinese. Ma la decisione è al momento osteggiata tanto da Israele, quanto dallo stesso Egitto, che vedrebbe riversarsi nel proprio territorio centinaia di migliaia di profughi in fuga dai bombardamenti.
Gaza, però, non è al momento l’unico fronte che rischia di esplodere: guardando al confine nord di Israele, infatti, già da sabato 7 ottobre, si è assistito ad alcuni scambi di artiglieria tra le forze armate israeliane e alcune milizie affiliate al partito di Hezbollah.
Hezbollah è un partito armato libanese, di fede islamico sciita, che controlla il Libano meridionale, al confine con Israele. Questa milizia mantiene ottimi rapporti con Hamas, sebbene appartenenti a due rami differenti della religione islamica. La relazione è testimoniata dagli scambi economici, tecnologici e militari.
In questa interazione si inserisce un terzo attore l’Iran, che ricopre il ruolo di sostenitore militare e strategico per entrambi i gruppi armati, creando così una rete triangolare in chiave anti-israeliana.
Pertanto, è facile supporre che le armi utilizzate da Hamas provengano dagli arsenali di Hezbollah, se non direttamente da quelli iraniani. Teheran stessa non nasconde le proprie simpatie per il gruppo palestinese, e sono molti gli osservatori e gli analisti a favore della tesi secondo cui la repubblica islamica sciita sarebbe dietro ai flussi di denaro e armi verso Gaza.
In una situazione che, come abbiamo visto, è estremamente delicata, la risposta della comunità internazionale appare tanto divisa quanto incerta.
Il Consiglio di Sicurezza dell’ONU ha condannato le violenze di Hamas contro i civili israeliani, ma non l’ha fatto all’unanimità, perché né Pechino né Mosca hanno voluto esprimere giudizi sulla questione.
Allo stesso modo neanchel’Europa appare unita di fronte all’escalation di tensione. Se dapprima Italia, Germania e altri paesi membri condannavano le violenze compiute da Hamas (annunciando uno stop agli aiuti verso la Palestina), ad oggi la brutalità delle azioni di Tel Aviv sta comportando alcuni ripensamenti. Infatti, ad undici giorni dall’inizio delle violenze, l’alto rappresentante dell’Unione Europea per gli affari esteri Josep Borrell ha affermato che l’assedio in atto contro i cittadini della striscia viola il diritto internazionale
La stessa identica cosa è stata ribadita dal segretario Generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres, in un incontro bilaterale con l’ambasciatore israeliano presso le Nazioni Unite.
Nel frattempo, gli Stati Uniti, storicamente alleati di Tel Aviv, continuano ad inviare rifornimenti militari nonostante il sostegno di Washington stia in parte vacillando. La Casa Bianca, infatti, non approva la forzata evacuazione del nord della striscia, poiché causerebbe un peggioramento ulteriore della condizione umanitaria nel paese.
Eppure, tutto sommato, sembra che voglia chiudere un occhio.
Dal punto di vista dell’opinione pubblica, invece, voci di sostegno nei confronti della causa palestinese si sono sollevate dalle piazze di diverse città nel mondo, concentrate soprattutto nell’area medio-orientale, ma raggiungendo anche Europa e Stati Uniti.
In tutto ciò l’Iran, l’unico attore statuale dichiaratamente vicino alle milizie di Hezbollah e Hamas, non ammette il diretto coinvolgimento, anche perché rischierebbe serie ritorsioni militari da parte di Israele. Nonostante ciò, non nasconde il proprio compiacimento per l’iniziativa intrapresa dalla milizia palestinese. Uno dei motivi del supporto iraniano alla causa va ricercata negli accordi di Abramo, di cui sono già firmatari Israele e Stati Uniti, EAU, Bahrain, Sudan e Marocco. Tali accordi prevedono il riconoscimento di Israele e gettano le basi per una futura stabile cooperazione su moltissime materie, tra cui sicurezza e difesa. Negli ultimi tempi, anche l’Arabia Saudita aveva avviato degli incontri bilaterali con Israele per la normalizzazione dei rapporti, percepiti dall’Iran come una forma di accerchiamento. Questo timore ha spinto Teheran a sostenere l’azione di Hamas contro Israele, ben sapendo che qualunque reazione di Tel Aviv contro i palestinesi, avrebbe congelato le trattative.
Ergo:
Le questioni sul tavolo sono caldissime ed estremamente mutevoli, dal momento che la situazione è tutta in divenire, il numero degli attori direttamente coinvolti è elevato e le loro posizioni altamente discordanti.
Il problema dal punto di vista palestinese è che, mentre il conflitto continua, centinaia di migliaia di persone dentro la Striscia Gaza sono completamente nel panico, trovandosi al buio, senza acqua, cibo e nella condizione di sfollati, dal momento che da giorni vivono tra bombe e macerie.
Dal punto di vista di Israele, invece, la presenza di ostaggi militari e civili (tra cui donne e bambini) in mano ad Hamas limita la nota risolutezza delle forze armate di Tel Aviv, che infatti stanno ritardando l’invasione via terra. L’emotività della leadership israeliana, al momento offusca la capacità decisionale e diplomatica, allontanando sempre di più la pace e la tranquillità in una regione che da decenni è vessata da conflitti.
Le possibilità che si possano intavolare dei negoziati sembrano dipendere nuovamente dall’esito di un conflitto che si fermerà solamente quando il sangue versato sarà troppo per continuare la lotta.
È così che ritorna prepotentemente la domanda su chi prevarrà tra il diritto internazionale o i rapporti di forza. Questa è l’ennesima prova che la comunità internazionale deve affrontare, solo che in questo caso il tempo è maledettamente poco.
Prima di chiudere intendiamo fare un’ultima precisazione: è delle scorse ore la notizia che l’ospedale Al-Ahli situato a Gaza City sarebbe stato oggetto di un bombardamento che avrebbe causato centinaia di vittime. Proprio a causa della mancanza di prove, delle speculazioni, e degli scambi di accuse tra Hamas ed Israele sull’accaduto, lanciamo un appello generale alla cautela quando si leggono notizie.
Disinformazione e manipolazione sono all’ordine del giorno durante i conflitti. Pertanto, prima di dare per appurato un fatto, è sempre meglio aspettare che passi del tempo e che vengano svolte analisi di terze parti.
Notizie di questo calibro causano una risposta emotiva tale da incendiare strade e città intere, esattamente come successo ieri in serata (17 ottobre 2023) in diverse piazze del mondo arabo-musulmano.
Esse hanno, quindi, il potenziale per aumentare una tensione che rischia di coinvolgere sempre più attori.
Per evitare di finire vittime dell’irrazionalità causata dalla disinformazione, è sempre meglio attendere che la realtà dei fatti venga alla luce col tempo.
ERGO
ENGLISH VERSION
ISRAEL-HAMAS: A PEACE EVER MORE DISTANT
“Citizens of Israel, we are at war. Not an operation, not a cycle of fighting, but a war”.
What you have just heard are the words of Israeli Prime Minister Benjamin Netanyahu within hours of the unexpected and violent attack that Hamas launched against Israel on October the 7th.
Today’s episode will focus on the current conflict between Hamas and Israel, but before we begin, a few disclaimers should be made:
The podcast is not intended to be a mere reconstruction of the events so far. Rather, it aims to explain the geopolitical implications of the clashes between the actors involved and to present hypothetical developments in the conflict. We will not take sides, but we will try to provide an analysis as objective as possible. It is also important to note that this episode is recorded on October the 18th, therefore, since the conflict is still ongoing, we may well see upheavals or shifts in the balance of power across the region in the coming days.
At 6.30am local time on Saturday October the 7th, sirens sounded in many Israeli cities. The operation ‘Al-Aqsa’ has begun, a joint air, land and sea attack by Hamas that is truly unprecedented. The surprise effect was heightened by the fact that Saturday was Shabbat (traditionally a day of rest), but this Saturday was Simchat Torah, the last day of the Jewish festival of Sukkot, which historically commemorates the Diaspora of the Jewish community from Egypt to the Promised Land.
Hamas, or more precisely its military wing, the Al-Qassam Brigades, launched an attack on Israel’s neighboring territory. The operation took place in just a few hours and involved the use of more than 5,000 rockets, combined with a ground invasion that broke through the fence marking the border between Israel and the Gaza Strip in several places. Meanwhile, an unknown number of Hamas militiamen carried out simultaneous incursions into the various Israeli villages surrounding Gaza, known as Kibbutz. Hundreds of people were killed and many more injured during the offensive. The victims are soldiers, but also many civilians, including women, children, and elders.
Obviously, Israel’s response was not long in coming, in fact the Israeli Defense Forces responded with the operation “Iron Swords”, carrying out massive and continuous bombardments of the Palestinian enclave, justifying them as direct attacks on the heart of Hamas.
Why can this attack be called unprecedented? First of all, it marks the failure of Israeli intelligence, which was unable to foresee the attack, despite being one of the most competent intelligence services in the world. The failure is evidenced by the fact that it took several hours for the defense forces to mount an adequate response. This was not the first time such a failure had occurred. In fact, on 6th October 1973, exactly 50 years ago, the regular armies of Syria and Egypt launched a surprise attack on Israel, that marked the beginning of what we remember as the Yom Kippur War.
Another factor that makes the attack unprecedented is the death toll. At the time of recording, over 1,400 Israelis, mostly civilians, have been killed and over 4,000 wounded. It is a number of casualties that have never before been recorded by the Israeli state.
Finally, a completely new element is the approximately 200 people, both civilians and soldiers, who have been taken hostage and forcibly transferred to the Palestinian enclave.
But now, it is time to enter the geopolitical context of the affair and understand who the actors involved are.
The Gaza Strip is one of the two territories, along with the West Bank, that make up the Palestinian National Authority (although there is a clear political division between the two sides). The Gaza Strip is a territory wedged along the maritime border between Egypt and Israel, with a length of about 49 km and a width of 9 km. But the most relevant peculiarity is its demography. In fact, within the Strip, which has an area of 360 km2 (the size of a quarter of Rome), live more than 2 million Palestinians that make the enclave one of the most densely populated areas in the world (almost 6,000 people per square kilometer). The high population density is not the only problem in Gaza since Palestinians have been under siege since 2006 and have limited access to goods of all kinds. Water, energy, and food must be supplied either by humanitarian organizations or by Israel, which has often used this dependence as an instrument of pressure and coercion.
The historical instability in the region has, over time, favored the emergence of a political-military organization, recognized by some countries as a terrorist group, which is now the political leader of the Gaza Strip: Hamas. Hamas is an armed party with an Islamic-Sunni matrix whose aim is to overthrow the State of Israel, which it regards as an invader and usurper of territories that have always belonged to the Palestinian people. Its territorial control over the Gaza Strip became central after its victory at the elections in 2006, definitively separating itself from the other Palestinian party, al-Fatah which is internationally recognised and nowadays controls the West Bank. Since then, the front with Israel has remained hot but rather stable, except for a few exchanges of artillery between the two parties. It should also be highlighted that Hamas dialogues with all the Middle Eastern countries and has received support from North Africa as well as from the Gulf States (Qatar in particular), Israel’s first enemies.
Israel is the second relevant player. Tel Aviv has its own profile, legitimized both at international and regional level, which dates back to its independence declared in 1948. This profile sees the country closely linked to the United States, its historical ally. In fact, Israel is the only key player for the West at the heart of the Middle East “Powder Keg”. Recently, several factors have created instability in Israeli society and politics: the government that took office at the end of 2022 is proving to be one of the most extremist ever formed. Indeed, in addition to the internal discontent caused by the controversial judicial reform, the past year has seen a rapid expansion of Israeli settlements in the West Bank. This has increased the clashes between Palestinian residents, who have been forced to leave their homes, and Israeli forces. Given the instability of the area, constantly subject to protests and tensions, Israeli intelligence has recently preferred to focus on the West Bank, given the supposed stability in Gaza.
Stability that is supposed since the events of these days have proven the opposite.
Until now, Israel has effectively sealed off the Gaza Strip, blocking all access from the outside, worsening the living conditions of a population that has been exhausted by years of isolation and that lives in a veritable open-air prison. At the same time, Israel has never stopped bombing the Strip: after 11 days of bombardment, the Palestinian death toll has reached over 3,000 dead (including more than 800 children) and 13,000 injured. In response to the Hamas attack, Tel Aviv is recalling more than 300,000 reservists from the armed forces and preparing to launch a massive offensive against the enclave itself. Indeed, the Netanyahu government has just called on Palestinians in the north of the Strip to evacuate to the south in the face of an imminent ground invasion.
According to the United Nations, the bombardments, together with the blockade of basic supplies, are creating a catastrophic humanitarian crisis, with more than 2 million people facing water and sanitation emergencies. In order to deal with the situation, the opening of a humanitarian corridor from Gaza to Egypt to allow women and children to leave the Palestinian territory was discussed. But this decision is currently opposed by both Israel and Egypt itself, which would see hundreds of thousands of refugees fleeing the bombardments pouring into its territory.
However, Gaza is not the only front currently in danger of exploding. Looking at Israel’s northern border, since Saturday October the 7th there have been some artillery exchanges between the Israeli army and some militias belonging to the Hezbollah party, a Lebanese armed party of Shiite Islamic faith, which controls southern Lebanon on the border with Israel. This relationship is evidenced by economic, technological, and military exchanges. Into this interaction comes a third actor, Iran, which plays the role of military and strategic supporter of both armed groups, thus creating a triangular network in an anti-Israeli key. Therefore, it is easy to assume that the weapons used by Hamas come from Hezbollah’s arsenals, if not directly from Iranian ones. Tehran itself makes no secret of its sympathy for the Palestinian group, and many observers and analysts argue that the Shia Islamic Republic is behind the flow of money and weapons to Gaza.
In a situation that, as we have seen, is extremely delicate, the response of the international community appears as divided as it is uncertain. The UN Security Council condemned Hamas’s violence against Israeli civilians, but not unanimously since neither Beijing nor Moscow wanted to pass judgment on the issue. Similarly, Europe does not appear united in the face of escalating tension either. If Italy, Germany and other member states initially condemned the violence perpetrated by Hamas (and announced the suspension of aid to Palestine), today the brutality of Tel Aviv’s actions is causing some to reconsider. Indeed, eleven days after the beginning of violence, the European Union’s High Representative for Foreign Affairs, Josep Borrell, declared that the siege imposed on the citizens of the Strip violates international law, and the same was reiterated by the UN Secretary-General, Antonio Guterres, in a bilateral meeting with the Israeli Ambassador to the UN. Meanwhile, the United States, an historical ally of Tel Aviv, continues to send military supplies even though Washington’s support is faltering somewhat. The White House does not approve the forced evacuation of the north of the Strip, as it would cause a further deterioration of the humanitarian situation in the country but, at the same time, it seems to turn a blind eye.
From the point of view of public opinion, voices of support for the Palestinian cause have risen from the squares of various cities around the world, mainly in the Middle East, but also in Europe and in the United States.
Iran, the only State actor openly close to the Hezbollah and Hamas militias, does not admit direct involvement, not least because it would risk serious military retaliation from Israel. Nevertheless, it has made no secret of its satisfaction with the Palestinian militia’s initiative. One of the reasons for Iranian support to the cause is the Abraham Accords, already signed by Israel, the United States, the United Arab Emirates, Bahrain, Sudan, and Morocco, which recognize Israel and lay the foundations for future stable cooperation on many issues, including security and defense. Recently, Saudi Arabia has also initiated bilateral meetings with Israel to normalize their relations, which Iran perceives as a form of encirclement. This fear has led Tehran to support Hamas’ actions against Israel, knowing that any reaction by Tel Aviv against the Palestinians would freeze the talks.
Ergo: The issues on the table are hot and highly shifting, given the changing situation, the number of actors directly involved and the diversity of their positions.
From the Palestinian point of view, the problem is that while the conflict continues, hundreds of thousands of people in the Gaza Strip are in a state of total panic, in the dark, without water or food, and in a state of displacement, having lived for days under bombs and rubble.
On the other hand, from Israel’s point of view, the presence of military and civilian hostages (including women and children) in the hands of Hamas limits the well-known determination of Tel Aviv’s armed forces, which are in fact delaying the land invasion. The emotionalism of the Israeli leadership is currently clouding its decision-making and diplomatic capacity, pushing peace and tranquility further away in a region that has been plagued by conflict for decades.
The chances of negotiations seem once again to depend on the outcome of a conflict that will only end when the bloodshed is too great to continue. Hence the question of who will prevail between the international law or the balance of power is back. This is yet another test for the international community, but in this case, time is running out.
Before concluding, we would like to highlight one final point: it has just been reported that the Al Ahli hospital in Gaza City was the target of a bombing that has killed hundreds of people. Because of the lack of evidence, the speculation and the exchange of accusations between Hamas and Israel over the incident, we urge caution when reading the news. Misinformation and manipulation are the order of the day in conflicts, hence, before assuming a fact, it is always better to wait for time to pass and for third party analysis. This kind of news creates such an emotional response that can set streets and entire cities ablaze, as happened last night (October the 17th) in several squares of the Arabic-muslim world. Therefore, they have the potential to exacerbate a tension that is likely to involve more and more actors. In order to not fall victim to the irrationality of disinformation, it is always better to wait for the reality of the facts to emerge in time.
Traduzione a cura di Ludovica Lara.
Di seguito il link per ascoltare la puntata sulla versione web, liberamente accessibile, di Spotify.
(disponibile anche su Google podcast e Apple podcast).
https://spotify.link/kYTlVqox8Db
Voci di: Ludovica Lara; Alessandro Carossa; Marco Centaro.
Registrazione a cura di: Aurora Peruzzi; Carlotta Bianchi.
Ergo è il podcast di Radio UNINT che tratta di geopolitica e relazioni internazionali.
Iniziativa autonoma degli studenti UNINT che si avvale del finanziamento dell’Università degli Studi Internazionali di Roma.
FONTI
https://www.cesi-italia.org/it/articoli/israele-hamas-un-conflitto-inedito-che-fara-la-storia
https://www.geopolitica.info/hamas-israele-alleanze-globali-equilibri-regionali/
https://www.geopolitica.info/hamas-guerra-sorpresa-israele/
https://www.internazionale.it/magazine/chaim-levinson/2023/10/12/un-fallimento-senza-precedenti
https://www.washingtonpost.com/world/2023/10/14/gaza-evacuation-israel-hamas-war/