Autore: Pietro Minei – 14 / 12/2019
La pesca è un’attività primaria che nel Mar Mediterraneoaffonda le sue radici dagli albori della civiltà. Ad essa sono legate tradizioni culturali, sociali e gastronomiche che hanno caratterizzato in gran parte la storia del Paesi che lo circondano. L’economia ittica ancora oggi continua a giocare un ruolo socioeconomico fondamentale per lo sviluppo ed il benessere di ogni Paese. Il Canale di Sicilia rappresenta senz’altro una delle aree più importanti per il settore della pesca, data la moltitudine di specie ad alto valore economico. La suddetta area è contesa da due stati limitrofi (Italia e Tunisia). La Sicilia vanta una vocazione naturale per le attività legate al mare con la sua storia e le sue tradizioni. In particolare l’area del Canale di Sicilia rappresenta un settore importante e vitale della pesca nazionale. Il territorio si caratterizza per una complessa morfobatimetria dei fondali e rappresenta la sede di importanti processi idrodinamici legati agli scambi d’acqua tra il bacino occidentale e quello orientale del Mediterraneo. Sebbene nell’area non sfocino corsi d’acqua rilevanti, lo stretto di Sicilia è caratterizzato dall’alta produttività delle risorse di pesca, in particolare quelle demersali. A favorire questa condizione concorrono molteplici fattori, tra i quali vanno annoverati:
- L’estensione della piattaforma continentale su entrambi i versanti dello Stretto di Sicilia e la presenza di numerosi banchi del largo;
- La trasparenza delle acque che consente attività foto sintetica, anche nel comparto bentonico, fino a discrete profondità;
- La presenza stabile di processi di arricchimento di nutrienti (vortici e upwellings e di concentrazione degli organismi marini (fronti);
- L’elevata biodiversità è dovuta alla natura di confine biogeografico tra il bacino di ponente e di levante del Mediterraneo.
Il settore produttivo dell’area si presenta in tutta la sua complessità nei vari segmenti produttivi di cui si compone la flotta. E’ possibile pertanto distinguere tra battelli di maggiori dimensioni, dediti alla pesca di risorse di profondità o di grandi pelagici e battelli più piccoli, che rappresentano un segmento fortemente eterogeneo in quanto in esso sono presenti natanti che svolgono attività di pesca molto differenziate: dagli attrezzi passivi alla piccola circuizione, dallo strascico costiero ai palangari, mestieri questi che vengono praticati dallo stesso natante in diversi periodi dell’anno.
La flotta a strascico alturiera iscritta nei compartimenti marittimi della GSA 16 (Sicilia) con lunghezza superiore ai 18 metri fuori tutto, è costituita da 232 battelli la cui stazza totale sfiora i 26 mila gross tonnage (Gt) e la potenza motore è di poco superiore ai 76 mila KW. Le dimensioni medie delle unità produttive sono pari rispettivamente a 112 Gt di stazza e a 328 KW di potenza motore. Inseriti in un contesto regionale, questa tipologia di battelli rappresenta il 10% della numerosità, oltre la metà del tonnellaggio di 1/3 della potenza motore utilizzata in totale dai battelli che operano lungo l’intero litorale siciliano. Nel corso del 2015 la flotta da pesca nazionale operante nel Mediterraneo ha registrato un volume di sbarco pari a circa 189 mila tonnellate ed il corrispondente valore economico si attesta a 890 mln di euro. Tra il 2004 ed il 2015 il livello delle catture è passato da 288 mila a 190 mila tonnellate, pari ad una riduzione del 34%, con una flessione complessiva dei ricavi di 35 punti e con una perdita annuale media di 50 milioni di euro. Considerando la copertura assunta dal tonnellaggio di stazza lorda e della potenza motore, si registra l’importanza assunta dalle marinerie del Canale di Sicilia (Sicilia meridionale), dove si concentra anche il 18,8% del GT ed il 12,8% del kW a fronte di una quota nel numero di motopesca del 9,3%.
La struttura produttiva, sia in termini di numerosità che di tonnellaggio complessivo, risulta fortemente concentrata nel Compartimento di Mazara del Vallo dove è operativo il maggior numero di battelli e circa i ¾ della capacità della flotta. Il canale di Sicilia è unanimemente considerato il principale “punto caldo” della biodiversità mediterranea e dunque una della più importanti zone di pesca su scala mondiale. Tuttavia questa sua unicità lo ha trasformato nel teatro di quella che è notoriamente definita “la guerra del pesce”. Interessate al fenomeno sono le acque territoriali di tre stati stranieri: Libia, Tunisia, Algeria e le acque internazionali adiacenti nonché marginalmente le acque internazionali o antistanti Malta. Il principale contenzioso è quello relativo ad una particolare porzione di acque internazionali, cosiddetta “Mammellone”, tratto di mare molto pescoso e conteso dalle marinerie di tutto il Mediterraneo che gli africani considerano unilateralmente casa loro non riconoscendo il limite delle 12 miglia come acque territoriali. La disputa interessa prevalentemente l’Italia e il governo tunisino già dalla fine degli anni ’50. La questione è stata inizialmente regolata a livello politico con accordi bilaterali. Nel 1979, allo scadere dell’ultimo accordo bilaterale di pesca, che consentiva anche ai motopescherecci italiani di poter pescare nel mammellone dietro pagamento di un opportuno compenso stabilito dal citato accordo, le due nazioni hanno assunto un differente atteggiamento legale nei confronti della zona di pesca. La Tunisia ha continuato a pretendere che tale zona di mare fosse considerata come zona di pesca riservata ai propri motopescherecci, sulla scorta del Decreto Beylicale del 26 luglio 1951.
L’Italia pur contestando nelle opportune sedi diplomatiche tale pretesa tunisina, nel settembre 1979 ha emanato due decreti Ministeriali in cui dichiarava tale zona come una porzione di alto mare destinata al ripopolamento e pertanto ne inibiva la pesca sia ai cittadini italiani che alle navi battenti bandiera italiana, al fine di assicurare la tutela delle risorse biologiche. Geograficamente l’area in questione è posta nello stretto di Sicilia tra la Tunisia e le Isole Pelagie ed è delimitata da “ una linea che partendo dal punto di arrivo della linea delle 12 mn delle acque territoriali tunisine, si ricollega sul parallelo di Ras Kapoudia con l’isobata dei 50 metri e segue tale isobata fino al punto di incontro con la linea che parte da Ras Agadir in direzione Nord- Est ZV= 45’. Tale area è costantemente pattugliata dalle Unità Navali della Marina Militare Italaina impiegate in Operazione VI.PE ( vigilanza pesca e costant vigilant). Gli effetti di questa situazione di conflittualità sono gravissimi in un settore che già riversa in una condizione di forte disagio. Basti pensare che i pescherecci devono, il più delle volte, sottostare alle autorità africane con il pagamento di una multa abbastanza onerosa e la perdita del pescato. Tuttavia non pochi sono gli episodi di pescherecci che finiscono nelle “reti” delle motovedette tunisine o anche libiche. Ad oggi si registrano tre morti( quando negli anni Settanta gli attacchi si facevano sparando colpi di mitra contro le fiancate) e 150 motopescherecci sequestrati.
Il centro più colpito dalla cosiddetta “guerra del pesce” è quello di Mazara del Vallo con la sua flotta di 350 motopesca, 14.000 occupati del settore, 78 industrie di lavorazione e trasformazione del pesce e 6 cantieri navali.
Le continue aggressioni alla flotta oltre ad un forte danno economico, determinano il fallimento delle società armatrici e, a catena, dell’intera filiera, con gravi ripercussioni anche sul piano occupazionale. In particolare, per il rilascio dei motopesca sequestrati le autorità africane, dopo una sorta di “processo”, pretendono dagli armatori il pagamento di ammende che vanno dai 20 ai 60.000 euro ai quali spesso si aggiunge una cauzione per la liberazione dei marinai. E poi il danno alle attività: le cassette di pescato vengono sempre sequestrate, le reti e le sofisticate attrezzature delle barche d’altura vengono saccheggiate e gli equipaggi sono costretti a lunghi periodi di ferma.
Il bilancio nell’arco di trent’anni di “guerra del pesce”, solo nel compartimento di Mazara del Vallo, ha segnato danni per circa 90 milioni di euro. La condizione per un regolare svolgimento dell’attività di pesca dovrebbe essere senz’altro rappresentata dalla presenza di un contesto giuridico stabile, senza dubbi sulla delimitazione degli ambiti di sovranità degli Stati costieri. Tuttavia in questa particolare area del Mediterraneo tale seppur semplice condizione appare quasi un’utopia.
L’ultimo biennio è stato caratterizzato da un grandissimo affanno per la pesca siciliana ed i dati attualmente disponibili forniscono elementi di estrema preoccupazione per il futuro di questa attività. Le problematiche socio-economiche legate al settore della pesca potrebbero ricevere un nuovo impulso risolutivo grazie all’elaborazione di un modello economico di sviluppo responsabile e sostenibile, principalmente orientato all’innovazione: la c.d. blue economy. Quattro i principi guida: sostenibilità ambientale, compatibilità economica, mantenimento dei livelli occupazionali e di reddito degli operatori del mare, rafforzamento e consolidamento delle forme di cooperazione tra la Sicilia e i paesi rivieraschi.
La Blue Economy made in Sicily è destinata a propagarsi verso tutti i paesi costieri del pianeta mediante una logica di sviluppo sostenibile e avendo al centro la più importante risorsa: il mare.
Un passo in tal senso è stato fatto mediante l’elaborazione del c.d. Distretto Mediterraneo in grado di offrire degli strumenti che, ispirati al modello della Blue Economy, diano una risposta risolutiva alle problematiche tipiche della pesca nel Mediterraneo. l’Italia, e in particolare l’area siciliana, si caratterizza per tutta una serie di punti di forza quali l’elevata qualità di servizio e l’elevata qualità dei prodotti realizzati, l’elevato grado d’internazionalizzazione, il crescente orientamento ad operare all’estero, il patrimonio di manodopera qualificata disponibile, la capacità d’innovazione (specialmente nella cantieristica navale) e la pluralità di offerta dei servizi. Tuttavia lo stesso sistema presenta delle debolezze quali le dimensioni aziendali (troppo piccole soprattutto se confrontate con i competitor stranieri), un sistema di credito poco elastico e poco competitivo, il ridimensionamento del fatturato del settore dovuto al periodo di recessione economica, il livello contenuto della produttività. Inoltre l’elevato prezzo del gasolio, i sequestri dei natanti da parte di alcuni paesi frontalieri che hanno istituito unilateralmente “zone economiche esclusive” (ZEE) e la mancanza di regolamentazione nei paesi terzi del Mediterraneo, in netta contrapposizione con le normative europee, fanno crescere la concorrenza del versante orientale e meridionale del Mare Nostrum in particolare dell’Egitto, Libia, Tunisia e Turchia. Il modello della Blue Economy proposto dal Distretto di Mazara del Vallo risponde a tale esigenza e ne fa emergere il peso reale contribuendo alla costruzione di politiche solide e condivise che affermino il ruolo dell’Italia nei contesti internazionali e in particolare nell’area del Mediterraneo. L’avvio di una crescita sostenibile dei settori marino e marittimo in Sicilia guarda alle problematiche delle attività di pesca a mare non solo in un’ottica di protezione delle risorse ittiche, ma in un contesto complessivo di rilancio delle attività economiche ad esse collegate, quali la cantieristica, le industrie di trasformazione e commercializzazione, la meccanica, il turismo. L’Unione Europea dovrebbe attivarsi per affrontare, tra i vari problemi quello relativo ad una chiara definizione delle zone di pesca nell’area di confine tra l’Europa e l’Africa attraverso partenariati ed accordi specifici, offrendo un valido supporto ai pescatori siciliani che quotidianamente mettono a repentaglio la loro vite e le loro risorse per pescare nelle acque internazionali del Mediterraneo.
La Sicilia al di là di quelli che sono gli attesi aiuti comunitari, deve farsi promotrice di una proposta globale che sia in grado di rilanciare questo importante settore della propria economia. Non risulta semplice offrire delle considerazioni critiche, positive o negative che siano, riguardo alla sequela di interventi legislativi che nel corso del tempo hanno modificato la fisionomia e il modus operandi in un settore tanto antico quanto importante nell’attuale assetto economico nazionale. Il legislatore, sia esso comunitario o italiano per quanto si sforzi, difficilmente riuscirà a trovare il giusto punto di equilibrio tra le esigenze dei pescatori, sempre più soffocati dagli elevati costi dell’attività e la tutela dell’ambiente marino, devastato dall’eccessivo sfruttamento delle proprie risorse, senza sacrificarne una delle due. Tale considerazione calata in un contesto, quale quello del Canale di Sicilia, caratterizzato dalla cd. guerra del pesce, in cui sono coinvolti Paesi terzi sempre più determinati ad accaparrarsi il diritto di pesca nella zona denominata Mammellone, finisce per assumere connotati ben più complessi e farraginosi. Certo è che la presenza di un contesto giuridico stabile senza dubbi sulla delimitazione degli ambiti di sovranità degli Stati costieri è condicio sine qua non per un regolare svolgimento dell’attività di pesca. Tutto ciò corredato da un progetto comune di utilizzo razionale, sostenibile e condiviso delle risorse ittiche del Mediterraneo che vede coinvolti tutti i Paesi costieri.