Autore: Lisa Caramanno – 17/05/2019
La finanza è uno strumento con potenzialità formidabili per il corretto funzionamento dei sistemi economici, eppure la finanza con cui abbiamo a che fare oggi è largamente sfuggita al nostro controllo. Ebbene in questo quadro ove la finanziarizzazione ha trasformato il risparmiatore tradizionale in speculatore che senso ha parlare di finanza etica? Vision & Global Trends ha ritenuto opportuno affrontare il tema intervistando l’economista Mario La Torre, Professore Ordinario di Economia degli Intermediari Finanziari presso la Facoltà di Economia dell’Università “La Sapienza” di Roma ed esperto di finanza etica che proprio ieri, 16 maggio 2019, ha presentato l’ultimo rapporto OCSE “La finanza di impatto: una via per la crescita sostenibile”) in un convegno alla Camera dei Deputati.
D. Professore, oggi che senso ha parlare di finanza etica?
R. Certamente ha senso. Non basta il comandamento ‘non rubare’. Prima di tutto per declinare l’eticità nella finanza è necessario capire che cos’è la finanza. Se la finanza è, principalmente, trasferimento di risorse da soggetti in surplus a soggetti in deficit, si deve capire cosa vuol dire svolgere questa attività in modo più o meno etico. Ci sono vari approcci. L’approccio più semplicistico che si sta diffondendo, oggi, è quello per cui la finanza sostenibile, la finanza etica è, per molti, la finanza che finanzia il sociale, l’ambiente, ma anche la finanza tradizionale investe sull’ambiente, sul sociale…
D. E quindi, cosa rende la finanza ‘etica’?
R. Ci sono diverse componenti che bisogna guardare. La prima è quella che deriva dalla letteratura della finanza di impatto che ha dei caratteri così particolari che, secondo me, sono imprescindibili per definire la finanza etica. In primo luogo, il tema dell’intenzionalità: tutta la finanza ha, in modo diretto o indiretto, consapevole o inconsapevole, un impatto sull’ambiente, un impatto sul sociale. Il tema è che la finanza etica lo ha in modo intenzionale! Quindi il primo punto è l’intenzionalità di generare un impatto ambientale positivo, di generare un impatto sociale positivo. Questo non è soltanto una speculazione dialettica o estetica, perché questa intenzionalità cambia, a cascata, quelle che sono le dinamiche finanziarie e le architetture finanziarie. Secondo punto: di solito, quando si pensa alla finanza etica, si pensa a qualcosa che è dissociata dal profitto, ma non è vero.
D. Professore ci può spiegare meglio quest’ultimo secondo punto relativo al profitto?
R. Non è vero che la finanza etica è dissociata dal profitto. Se si riprendono le caratteristiche essenziali della finanza di impatto, la finanza di impatto è una finanza che assume questa intenzionalità ma insieme al ritorno, quindi c’è un tema di redditività, di remunerazione di investimento, ma quest’ultima è combinata e succedanea all’intenzionalità dell’impatto. E c’è un terzo elemento che lega l’intenzionalità alla remunerazione, cioè che correla l’intenzionalità alla remunerazione, l’impatto alla remunerazione. Nella finanza etica, la remunerazione dell’investitore è correlata all’intensità dell’impatto che si raggiunge. Più impatto raggiungo, più remunerazione ho. In linea estrema, in quella che io chiamo la finanza sostenibile in purezza, se non raggiungo impatto, non ho remunerazione.
D. Lei parla di impatto, cosa si intende? Ci può fare un esempio?
R. Impatto sociale. Ad esempio se si finanzia un investimento ad impatto sociale finalizzato alla riduzione del tasso di recidiva degli ex detenuti: questo è un investimento ad impatto sociale perché si sta cercando di inglobare, nella società civile, persone che hanno commesso degli atti criminosi. Quando questo impatto si realizzerà, si remunererà l’investitore che ha finanziato il progetto di inclusione. L’investitore è un investitore orientato all’impatto che ama l’intenzionalità dell’impatto e che è consapevole che il suo rendimento (che c’è) è correlato alla misura dell’impatto che si raggiunge. È quindi, anche, preoccupato che quei progetti che si realizzino abbiano un impatto. Questo è l’impatto della finanza etica in purezza.
D. quindi possiamo dire che gli investimenti ad impatto sociale hanno, di sicuro, un ritorno finanziario…
R. Assolutamente. Questo è nella letteratura e nella prassi.
D. Ma i finanziamenti etici prevedono costi di intermediazione più alti di quelli di mercato…
R. Questo è un punto molto importante. Un tema omesso, un pò scabroso. Io, personalmente, sono convinto che se la finanza deve essere sostenibile, la finanza deve essere anche inclusiva. Quindi siccome il costo dell’intermediazione è un dato essenziale della finanza – in quanto la finanza è trasferimento di risorse – il costo di quel trasferimento di risorse per una finanza sostenibile deve essere un costo calmierato, ossia al di sotto del costo medio di mercato per operazioni corrispondenti ed equiparabili. Quanto al di sotto, e se al di sotto per tutti gli investitori questo è un altro tema. Nel senso che dipende ed è, a sua volta, influenzato, dall’architettura finanziaria. Nell’architettura della finanza di impatto non c’è un unico investitore, ma c’è un blend di investitori, ognuno con orientamento all’impatto differente e, quindi, con orientamento al profitto differente. Infatti, per avere un impatto più sistemico si cerca di creare un panel di investitori che hanno orientamenti diversi. Pertanto può verificarsi che, all’interno di uno stesso progetto di uno stesso fondo, si può avere: a) il donatore che ha in testa solo l’impatto e non vuole la remunerazione; b) gli investitori che hanno, molto a cuore, l’impatto; c) gli investitori che hanno, a cuore, l’impatto ma vogliono avere una remunerazione di mercato; d) infine gli investitori puri che vogliono una remunerazione al di sopra di quella di mercato perché ritengono che gli investimenti di impatto possono essere a più rischio. Di fatto il costo medio di questo funding risulta calmierato rispetto al costo medio di mercato. Quindi, si può dire che, in questo, l’architettura finanziaria impatta su quello che è il costo dell’intermediazione, il che vuol dire che convivono all’interno della finanza etica investitori, come si è già detto, che hanno natura e orientamenti diversi, ma per raggiungere il fine del costo dell’intermediazione calmierata.
D. Qual è lo stato dell’arte della legislazione in materia di finanza etica?
R. L’Italia è molto avanzata su questo aspetto a livello normativo, e il legislatore comunitario si sta molto dando da fare. Vi è l’Action Plan UE sulla finanza sostenibile che è una pietra miliare da questo punto di vista, anche se tutto lo sforzo legislativo, in questo momento, è concentrato sulla finanza di impatto ambientale. In questo momento, c’è un appiattimento concettuale, in quanto sembra che la finanza sostenibile sia solo quella che finanzia investimenti ad impatto ambientale i quali vengono definiti tali in ragione delle metriche oggettive e squisitamente scientifiche. In tutto ciò, occorre però dire che il legislatore di fatto non considera tutte le caratteristiche fondamentali per la finanza di impatto in purezza poiché il legislatore considera solo le metriche di misurazione, ossia se l’investimento fa impatto o meno senza verificare l’intenzionalità.
D. Quindi la normativa dovrebbe superare questo limite, ma a livello normativo, però, non è facile misurare l’intenzionalità…
R. E’ difficile per il legislatore, non è facile, ma l’intenzionalità si potrebbe catturare da altre variabili, per esempio andando a vedere sul costo del funding come il promotore ha lavorato sul blending degli investitori perché se si emettono dei green bond non preoccupandosi della compagine degli investitori e che hanno dei ritorni normali che finanziano dei progetti green, che differenza c’è rispetto ai bond normali? semplicemente che vanno a finanziare i progetti green. Questa la chiamo finanza selettiva, cioè la finanza che identifica, con maggiore trasparenza, settori specifici sui cui investire, ma non cambia nulla rispetto alla finanza tradizionale, questa non è finanza sostenibile, è solo un’anticamera della finanza etica.
D. Quale rapporto tra finanza etica e carità?
R. Al termine finanza è legato il profitto. Se si entra nel tema della carità si è nella sfera della filantropia e della donazione, io li terrei distinte in quanto nella filantropia il bene è un pò fine a se stesso, non c’è necessità di misurare l’impatto, non c’è un’azione di monitoraggio dei risultati. Invece, nel caso della finanza seppure etica – visto l’esistenza del profitto – si ha la misurazione dell’impatto, del risultato…
D. Venendo al ruolo delle banche etiche, nel suo studio dal titolo “Per un’ecologia del banchiere” lei tratta dei diversi modi di fare banca, e rifacendosi a un articolo “Una bussola per la scienza economica” del Premio Nobel James M. Buchanan, tratta della differenza tra banchieri scientisti e banchieri di immaginazione che “vivono la banca con l’entusiasmo tipico di un atelier e sperimentano, nel quotidiano, ciò che nelle scienze naturali è sperimentabile solo in occasioni di scoperte rilevanti: il proprio contributo al miglioramento sociale e della condizione umana.” La banca etica è, quindi, un banchiere di immaginazione?
R. Senz’altro è un banchiere di immaginazione. Poi il legislatore ha fatto del suo, in quanto, attraverso l’art. 111-bis del Testo Unico Bancario rubricato “Finanza etica e sostenibile”, ha definito delle variabili specifiche perché una banca possa definirsi come etica e sostenibile. Ad esempio ha inserito un vincolo di destinazione dei crediti verso soggetti no profit, dei vincoli e parametri precisi perché un intermediario possa essere definito etico e sostenibile. Ad oggi la sostenibilità, per una banca, è rappresentata da quel modello. È importante questa previsione del legislatore in quanto quello che c’è scritto nell’art. 111-bis può rappresentare un benchmark, e calcolando la distanza da quel benchmark si può misurare un’intensità di eticità.
D. Lei ha partecipato di recente al Festival dell’economia civile nell’ambito del panel “Un mondo senza povertà e disuguaglianze”, ove ha proposto diverse soluzioni pragmatiche per la lotta alla povertà: dal microcredito, al reddito di cittadinanza, dalla finanza di impatto ai social bond, dal migrant bankig alla microfinanza per immigrati. Quanto efficaci sono queste soluzioni per la lotta alla povertà nei paesi in via di sviluppo e non solo. La finanza etica può costituire una concreta possibilità di riscatto?
R. Il microcredito è uno strumento utilissimo, adesso abbiamo un progetto con il Ministero del lavoro e che riguarda proprio la finanza per migranti e, in questo caso, l’obiettivo è l’inclusione dei migranti regolari all’interno della società civile. Ma ci sono diversi progetti di microcredito per la cooperazione e lo sviluppo gestiti, invece, con il Ministero degli esteri. Questo è importante perché costituisce di fatto un’azione preventiva rispetto ai flussi migratori incontrollati, perché se si riesce, con i progetti di cooperazione e di sviluppo e con componenti di microcredito, a creare delle possibilità microimprenditoriali e lavorative nei paesi di origine, quei tassi migratori verso l’Italia si riducono fisiologicamente.
D. Dunque, ciò potrebbe rappresentare uno dei modi concreti per affrontare anche il fenomeno dell’immigrazione?
R. Certo. Adesso gli strumenti ce li abbiamo tutti, perché il microcredito, ad oggi, è uno strumento della legge di cooperazione.
D. Riguardo, invece, al nostro paese?
R. Oggi il microcredito è uno strumento utile anche per l’inclusione sociale dei residenti italiani. Una delle mie proposte era quella di agganciare il reddito di cittadinanza al microcredito perché sarebbe un fil rouge ideale, darebbe una certa concretezza di inclusività programmatica al reddito di cittadinanza.
D. Perchè? il reddito di cittadinanza, così com’è, è forse una misura di carattere assistenziale?
R. Io sono contrario al reddito di cittadinanza in senso concettuale, cioè al diritto al reddito perché si ha una cittadinanza. C’è il diritto all’inclusione perché si ha la cittadinanza, non al reddito. Se il reddito di cittadinanza è uno strumento per andare incontro a difficoltà contingenti o strutturali d’accordissimo. Anzi l’unico dato positivo, in questo momento, è quello per cui la politica si è presa sulle spalle questo obbligo morale di risolvere questo tema vista la crisi di tante persone, ma poi non possiamo concepirlo come strumento di assistenza sine die…perché si creerebbe così una generazione di cartoneros.
D. Per concludere, Professore quale cambiamento vede?
R. Il cambiamento grosso è quello di una maggiore consapevolezza negli interlocutori e negli organismi istituzionali che la finanza etica sia una chiave importante anche per promuovere la crescita economica.
Mario La Torre è professore Ordinario di Economia degli Intermediari Finanziari presso la Facoltà di Economia dell’Università “La Sapienza” di Roma, ed Editor della collana scientifica “Palgrave Studies in Impact Finance” (Palgrave MacMillan, London). Il prof. La Torre è membro del Cda dell’Ente Nazionale per il Microcredito, e membro dell’Audiovisual Working Party press il Consiglio d’Europa. In passato, è stato membro governativo della Taskforce dei Paesi G8 sugli Investimenti ad Impatto Sociale, Consigliere del Ministro per i Beni e le Attività Culturali e membro del Cda di Cinecittà Holding. Ha preso parte al gruppo consultivo per la definizione della legge sul microcredito ed è stato estensore della legge sul credito d’imposta per il settore cinematografico.