Autore: Vincenzo Maddaloni – 14/11/2019
Una premessa è d’obbligo. La risoluzione pacifica dell’ultima crisi berlinese a cui seguì l’abbattimento del Muro è dovuta a Michail Gorbaciov. Come pure, lo sganciamento progressivo e senza traumi degli Stati dell’Europa centro-orientale dal Patto di Varsavia, dal sistema politico-economico del socialismo reale.
In pochi se ne “ricordano”, dal momento che ogni ricorrenza della caduta del Muro diventa l’occasione per esaltare la lungimiranza della liberal-democrazia dell’Occidente, secondo il quale è impensabile ogni progetto di società alternativa, come lo era appunto quella del “socialismo realizzato” di cui si vantava l’Unione Sovietica.
Malauguratamente la realtà è ben diversa da quella immaginata un trentennio fa. Gli accordi di libero scambio, le sanzioni, l’export di capitali controllati dalle grandi multinazionali, che gestiscono gli interessi dei sempre più ricchi, hanno generato stravolgimenti dai quali dipende la sopravvivenza di decine di migliaia di persone, soggiogate dalle dure regole dei mercati che approfondiscono i divari sociali, come mai era accaduto prima.
Infatti, la Banca Mondiale già alla fine degli anni Novanta aveva dichiarato che, la povertà urbana sarebbe diventata il problema principale e politicamente il più esplosivo del secolo a venire. In effetti nelle grandi città del mondo, incluse queste occidentali, si sono allargate a dismisura le periferie; sono fiorite le bidonville; si sono moltiplicati i rifugi per la notte approntati negli edifici abbandonati e in disuso. A completare il quadro ci sono gli esodi biblici dalle regioni delle guerre, gli sconvolgimenti ambientali provocati dall’industria malsana, da sempre incoraggiata perché competitiva sui mercati.
È innegabile che negli ultimi tre decenni una nuova povertà di massa che ha raggiunto la classe media, si è radicata nell’Europa occidentale. Da qualche lustro a questa parte, gli squilibri sociali sono diventati più evidenti, com’è dimostrato dai movimenti di protesta, che – un esempio tra i tanti – hanno avuto il loro epicentro nella Berlino del dopo Muro dove i prezzi degli alloggi sono diventati sempre più insostenibili. C’è un buon numero di persone che deve riservare a tali costi una quota importante del proprio reddito, e di questo folle aumento non si vede la fine. In sostanza, sono moltissime le persone sono costrette a lasciare i propri appartamenti e a trasferirsi in alloggi più piccoli e ristrutturati, che sono ancora più cari di quelli vecchi non ancora ristrutturati.
Dal momento che il capitalismo si basa sul sacrificio umano, come usa dire, tutti coloro che cercano di sottrarsi al sacrificio d’obbligo occupando le case vuote, o ritornando negli appartamenti dai quali sono stati espulsi, sono arrestati e processati. Insomma, quale sia la conclusione non è un bel vivere. Sicché le celebrazioni berlinesi potevano essere una buona occasione per affrontare le evidenti assurdità del capitalismo negli ultimi trent’anni, in un territorio-simbolo per l’Europa.
Viceversa libri, giornali e televisioni mainstream si sono limitati a rievocare le dimissioni a catena dei governi dell’Est Europa e dell’intera Unione Sovietica dopo la caduta del Muro, commentando i fatti con parole non molto diverse di quelle pronunciate il 5 marzo 1946, al Westminster College di Fulton, da Churchill nel suo famoso discorso sugli effetti della «cortina di ferro», la quale disse, «era calata dal Baltico all’Adriatico attraverso il continente, imprigionando tutte le capitali dei vecchi Stati dell’Europa Centrale e Orientale, in quella che devo chiamare sfera sovietica, essendo esse soggette, in un modo o nell’altro, non solo all’influenza russa ma anche a un’altissima e in alcuni casi crescente forma di controllo da Mosca».
Non una parola o un’immagine, a quanto mi risulta, è stata spesa dal mainstream in queste giornate di celebrazioni, per ricordare le tante voci del dissenso di là del Muro. Quelle critiche al socialismo reale da parte di diversi intellettuali, tra i quali una delle personalità di maggior spicco era il Premio Lenin e Premio Stalin, Andrej Dmitrievič Sacharov, il “padre della bomba H sovietica”, che per la sua attività in favore dei diritti civili fu insignito del premio Nobel per la pace (1975), che comunque non gli evitò le prigioni sovietiche.
Fu poi Michail Gorbaciov nel 1986 a strapparlo da Gorkij, dalla Regione del Volga dove era stato confinato. Rientrato a Mosca, nel 1989 Sacharov fu eletto deputato. Morì un mese dopo la caduta del Muro, nel dicembre di quello stesso anno. Tra qualche giorno sono trent’anni anche dalle esequie di Andrej Dmitrievič Sacharov, ma finora nessuno pare se ne sia ricordato, né a quanto risulta ci sono cerimonie al riguardo. Come spesso accade nel mondo occidentale, tanto incapace di costruire il suo futuro quanto costituzionalmente portato a dimenticare il suo passato anche più prossimo.
Al contrario, sopravvive l’ansia di credibilità, quella che traspira in queste settimane dai media ogniqualvolta sostengono che la riunificazione delle due Germanie è figlia della benevolenza della Germania Federale, mentre tutto prova il contrario, poiché con essa si distrusse l’intera struttura economico-produttiva dell’ex DDR, furono liquidate le élites politiche ed intellettuali, si condannò l’ex Germania Est alla povertà. Il risultato più evidente – al netto della retorica dei media – è che a tutto il 2018, le disuguaglianze economiche tra i cittadini orientali e quelli occidentali restano ancora marcate. Come la differenza di reddito pro-capite che in Baviera è intorno ai 22 mila euro e in Sassonia a 16 mila euro, il 30 per cento in meno. Il tasso di disoccupazione che ad Ovest è su cifre fisiologiche (3-5 per cento), a Est si aggira attorno al 18 per cento.
Perché meravigliarsi? Se nelle ultime elezioni (domenica 27 ottobre) l’ultradestra tedesca dell’Afd – l’Alternative für Deutschland – è volata per la terza volta in meno di due mesi incassando un clamoroso raddoppio elettorale raggiungendo in Turingia, regione dell’est della Germania, il 24 per cento. Con un aumento di 13,1 punti rispetto a cinque anni fa.
I motivi dell’ascesa dell’Afd nella Germania orientale sono fin troppo chiari. La delusione di tanti per l’unificazione tedesca e per tutte le false speranze collegate a essa, la rabbia per il fatto che dopo trent’anni sono cittadini discriminati, considerati di seconda classe, con minori posti di lavoro, e salari inferiori rispetto ai tedeschi dell’Ovest. In aggiunta c’è l’emigrazione nella larga parte giovanile, che continua incessante e a senso unico da Est verso Ovest (rispetto al 1989 la ex DDR ha perso quasi il 14 per cento della sua popolazione).
C’è poco da stupirsi se della Berlino festante i giovani poco ne sanno di Sacharov, di Gorbaciov, di «Guerra Fredda», distratti come sono da una perenne precarietà, che diventa una sorta di sinistra parodia della vita avventurosa, e che li avvolge nelle “nuove malinconie”, come le definisce Massimo Recalcati, psicoanalista di spicco. Viste da questo versante, le enfatiche celebrazioni del trentennale del crollo hanno poco senso.
Vincenzo Maddaloni, Presidente del Centro Studi Berlin89