Autore: Emanuel Pietrobon – 28/10/2019
Di politica estera turca si scrive molto, ma si capisce poco. Spesso si riducono gli interessi nazionali di Ankara alla questione curda e alle aspirazioni neo-ottomane in Medio oriente e Balcani meridionali, ma questo significa semplificare grandemente le motivazioni che guidano uno principali giocatori dello scacchiere internazionale.
Con o senza Recep Tayyip Erdoğan , la Turchia avrebbe comunque riesumato i sogni di gloria provenienti dalla nostalgia per i fasti ottomani. L’insediamento alla presidenza del consiglio dei ministri di Necmettin Erbakan, il mentore dell’attuale presidente turco, poi costretto alle dimissioni dalle forze armate, è la prova di ciò. Tutto accadde fra il 1996 ed il 1997, quando sia Bruxelles che Ankara erano ancora fermamente convinti che il futuro della Sublima Porte fosse in Europa.
La Turchia del 2019 è molto diversa da quella del 1997. I processi di occidentalizzazione e secolarizzazione di valori, usi e costumi, sembrano essersi fermati, mentre l’agenda pan-islamica del Partito della Giustizia e dello Sviluppo ha consentito a Erdoğan di ricoprire la carica di primo ministro dal 2003 al 2014 e quella di presidente dal 2014 ad oggi.
È vero che la difesa della umma e dei valori islamici rappresenta uno degli elementi cardine della Turchia del nuovo secolo che, proprio come profetizzato dal defunto politologo Samuel Huntington, è fortemente intenzionata a porsi come paese-guida della civiltà islamica, anche se questo significasse scontrarsi con Arabia Saudita, Egitto, Marocco, Iran.
La questione palestinese ha cessato di essere una priorità nei paesi del mondo arabo, da Rabat a Riyad, diventandola invece per due potenze islamiche, ma non arabe, ossia Turchia e Iran.
Proprio come la lotta contro l’egemonia ascendente di Teheran ha spinto le petromonarchie del golfo e i paesi del Nord Africa a forgiare un partenariato, nascosto ma rumoroso, con Israele, l’insieme degli obiettivi di far rinascere il nazionalismo islamico, ridurre il raggio d’azione di Tel Aviv e accelerare la transizione verso il multipolarismo, ha convinto Ankara della necessità di ridurre la dipendenza dall’asse euroamericano e cercare nuovi orizzonti in Asia.
In questo contesto di ricerca di maggiore autonomia ed emancipazione si inquadrano l’apertura alla Russia, l’avvicinamento all’Iran, l’aumento della collaborazione con la Cina e del protagonismo nei Balcani, nell’Africa sub-sahariana, in America latina e nell’Asia centrale ex sovietica.
Si scrive quasi sempre di neo-ottomanesimo e panislamismo come vettori unici della politica estera turca, alimentando una narrativa che certamente poggia su fondamenta veritiere ma pecca di parzialità. La politica estera turca è molto più complessa ed elaborata, si tratta di una combinazione di ideologie e visioni del mondo che, per quanto divergenti su alcuni punti, sono complementari e concorrono a realizzare un disegno geopolitico perfettamente coerente, mescolante il nazionalismo laico di origine kemalista, il panturchismo, il revanscismo islamico di origini ottomane, ed il turanismo otto-novecentesco.
Il turanismo è probabilmente la componente ideologica più trascurata dagli analisti delle relazioni internazionali, pur essendo estremamente importante in quanto posta al di là egli elementi etno-religiosi che animano le ambizioni imperialistiche della Sublime Porta.
Si tratta di un movimento di pensiero emerso negli anni delle guerre di liberazione nazionale e per l’indipendenza che scossero il Vecchio Continente fra gli anni ’40 e ’80 del 1800, che nacque in funzione antigermanista e antislavista.
I turanisti credevano nella comunione spirituale dei popoli di origine mongolica e uralo-altaica stanziatisi fra Europa, Asia centrale ed Estremo oriente nel corso dei secoli: ungheresi, turchi, kazaki, tatari, finnici, ed anche giapponesi. Divisi dalla storia, ma uniti da un legame metafisico e destinati a riunirsi, un giorno, nel nome di una medesima identità, antica e profonda.
Il turanismo non prese mai piede e scomparve dallo scenario ideologico europeo molto presto, ma è stato riesumato negli anni recenti dal Fidesz di Viktor Mihály Orbán e dal Partito della Giustizia e dello Sviluppo di Erdoğan.
Oggi, nelle università turche e ungheresi si studia una storia molto simile: i due popoli hanno origini comuni, risalenti all’epoca dell’espansione mongola, e la divisione religiosa è messa in secondo piano, dietro all’identità turanica. Non è una coincidenza che l’Ungheria sia stato il primo paese europeo a benedire l’operazione Primavera di Pace, insieme alla Bulgaria (ma lì, ci sono fattori diversi in gioco: economia dipendente da Ankara, presenza di minoranza turca rilevante – 10/15% della popolazione totale), e che Orbán veda in Erdoğan un riferimento politico e culturale.
Degno di nota, ma passato sotto silenzio mediatico, è che a Budapest ha recentemente aperto il primo ufficio di rappresentenza nell’Ue del Consiglio turco – un’organizzazione internazionale finanziata da Ankara che promuovere l’agenda panturchista nel mondo attraverso una serie di enti collegati, fra cui la potente Organizzazione Internazionale della Cultura Turca (OICT).
Ma non è tutto: l’Ungheria intende entrare nel Consiglio in qualità di membro a tutti gli effetti – oggi gode dello status di osservatore. Un successo per Orbán, che troverà in Asia centrale nuovi sbocchi di investimento e opportunità per ritagliarsi piccole sfere d’influenze, e per Erdoğan, che continurà ad avere sponde utili all’interno dell’Ue con le quali difendere i propri interessi.
Ma occorre tornare sull’OICT, perché noi di Vision & Global Trends ne avevamo già scritto. Si tratta di un ente di natura controversa, perché implicato in attività di “radicalizzazione culturale” potenzialmente pericolose. L’organizzazione è infatti sotto stretto monitoraggio da parte delle autorità russe dopo la scoperta del suo coinvolgimento nel “risveglio” del nazionalismo tataro nel Tatarstan.