Autore: Livio Zanotti – 20/10/2020
Dicono che ci sia sempre una prima volta. Per il Sudamerica la conferma viene dalla Bolivia, il paese più ricco di risorse minerarie del subcontinente. Le elezioni con voto elettronico di ieri domenica 18 hanno cancellato il colpo di stato del novembre scorso. Janine Añez, che poco meno d’un anno fa si era autoproclamata Presidentessa provvisoria con il tacito consenso delle Forze Armate, ha messo da parte le sospette ma inevitabili lentezze della verifica ufficiale e manuale, riconoscendo pubblicamente la vittoria del candidato del Movimento al Socialismo (MAS), Luis Arce, ex ministro dell’Economia del presidente costretto all’esilio, Evo Morales, vincitore simbolico della consultazione e destinato quanto prima a tornare un protagonista della politica nel paese andino.
L’esame approfondito del voto sarà possibile quando con la conferma formale si disporrà dei dati disaggregati, dei flussi e della distribuzione regionale. Ma l’esito che attribuisce alla formula del MAS – Luis Arce e David Choquehuanca (un meticcio e un indio aymara)- circa il 53 per cento dei suffragi di un’amplissima partecipazione, testimonia inconfutabilmente il radicamento popolare dell’azione politica di Evo Morales. Che malgrado il suo narcisismo autolesionista (che lo ha indotto a forzare la Costituzione per ottenere da un referendum il permesso a una terza candidatura), è stata perfino rafforzata dalla consultazione voluta per minarne credibilità e autorevolezza. Mostrando invece profonde debolezze e contraddizioni tra i suoi avversari, divisi dalle rivalità personali e regionaliste.
Carlos Mesa, un politico di centro-destra esperto e qualificato, ex capo di stato (2003-2005), dunque il concorrente più temibile per Arce, ha riconosciuto a sua volta la vittoria del MAS. Molti elementi lasciano intendere del resto che ad abbandonarlo al suo destino sia stata una parte dell’opposizione, forse la più radicale, storicamente espressione degli interessi localistici delle provincie legate all’export minerario, fino al punto di aver giocato in alcuni momenti anche la carta della secessione violenta. Se ne aveva avuto un ulteriore sospetto quando non molto prima delle elezioni Janine Añez, che si era candidata dopo aver promesso di non farlo, ha improvvisamente annunciato il proprio ritiro senza ragionevoli spiegazioni. Segno evidente e premonitore delle fratture interne al fronte che 10 mesi addietro aveva costretto Morales a rifugiarsi all’estero.
Il risultato in sé non costituisce una sorpresa. Era noto che Morales e il suo partito conservavano la maggioranza delle opinioni nel paese. I massimi e numerosi dirigenti rifugiati in Argentina, pur evitando ma senza negare critiche a certe decisioni di Morales e alla democrazia interna del Movimento, lo ribadivano con un’enfasi che se non necessariamente convincente suonava del tutto sincera. I timori erano tutti per la possibilità di questa maggioranza a esprimersi più o meno liberamente nelle urne. Suscitava perplessità che dopo aver cacciato Evo Morales dalla finestra i golpisti gli permettessero di rientrare dalla porta. Qualcosa non è stata ben ragionata prima e neppure dopo: qualcosa interna alla logica dei grandi interessi in Bolivia e qualche altra all’esterno, a Washington, tra l’Organizzazione degli Stati Americani (OSA) e il Dipartimento di Stato.
Salvo imprevisti a cui nessuno sembra pensare, Arce e il suo partito formeranno presto il nuovo governo di La Paz, che quanto a composizione e programmi tutti si aspettano non molto dissimile da quello rovesciato nel novembre scorso. Con maggior interesse che mai ci si domanda dunque quale sia stata la ratio del colpo di stato, che ha sfiorato la tragedia di massa senza comunque evitare né sangue né lutti, per ritrovarsi al punto di partenza. Forse più solido del previsto, baluardo dell’ordine repubblicano e democratico della Bolivia è stato fuor d’ogni dubbio il blocco popolare costruito dal MAS e da Morales. È stata la sua compattezza e determinazione a frenare quanti avrebbero voluto spingere l’aperta rottura costituzionale fino alle estreme conseguenze. Ma un peso non meno determinante è stato esercitato dalle Forze Armate, i cui equilibri interni non hanno permesso che andasse oltre il rischio di guerra civile.
Livio Zanotti è nato a Roma e risiede a Buenos Aires.
Nel 2014 riceve il Premio Fersen al Piccolo Teatro di Milano, con la piece “L’ Onda di Maometto” scritta con Alberto La Volpe. Da giovanissimo nel giornalismo al settimanale L’ Espresso, diretto da Arrigo Benedetti, Eugenio Scalfari, Gianni Corbi. Per oltre due decenni lavora poi a La Stampa, con Giulio De Benedetti, Alberto Ronchey, Arrigo Levi, Vittorio Gorresio, Michele Tito, inviato speciale, corrispondente dal Sudamerica e da Mosca, allora capitale dell’ Unione Sovietica. Lascia il grande giornale di Torino per collaborare come editorialista a Il Giorno di Milano e agli “Speciali” del TG1-Rai-TV, diretti da Alberto La Volpe, per i quali realizza numerosi documentari-inchiesta di carattere socio-economico negli Stati Uniti, in Estremo Oriente, nel Sud-Est asiatico. Corrispondente da Berlino alla caduta del Muro e dall’ America Latina dei colpi di stato e delle guerriglie per i TG e radiogiornali RAI, ha pubblicato libri d’ indagine storica e svolto conferenze in Italia e alll’ estero.