Autore: Livio Zanotti – 16/10/2020
Nella surriscaldata congiuntura argentina, tra la persistenza del Covid e il previsto acutizzarsi della crisi finanziaria tuttavia sotto controllo, un anniversario tra i più simbolici del passato cade adesso a fare il punto sul reale e turbolento presente del conflitto neoliberismo-peronismo. Il confronto tra i due modelli è giunto al rosso vivo, senza presentare per la verità aspetti del tutto inediti. Salvo il lievitare delle tendenze fondamentaliste, come ovunque. Non senza ragione sul rio de la Plata viene percepito come il più virulento dell’ultimo decennio. Qualcuno gli attribuisce perfino intenzioni destituenti. Come se un pezzo di paese avesse dimenticato che il governo peronista è stato eletto ineccepibilmente e a larga maggioranza meno d’un anno fa.
Fiancheggiato dalla maggior parte dei seguaci (non tutti, ci sono espliciti e rilevanti distinguo), l’ex presidente Mauricio Macri, che nei quattro anni del mandato scaduto nel dicembre scorso ha triplicato disoccupazione e debito pubblico, accusa il governo di Alberto Fernández di attentare alle libertà individuali (reiterando in alcune province le quarantene anti-pandemia) e a quella d’impresa (accentuando entità e progressività del prelievo fiscale e tentando di nazionalizzare qualche azienda in bancarotta). Avviata in un Parlamento costretto dal Covid a dibattiti digitali, l’offensiva dei macristi passa per la Corte Suprema (che in parte influenza) e sfocia nelle piazze (senza mascherina).
I governativi controbattono con l’accusa di aver sbriciolato l’economia, distrutto la piccola e media impresa e attentato alla salute pubblica per pregiudizio ideologico e interessi personali. Accuse che al pari di quelle di corruzione tout court sono tanto reiterate quanto reciproche (e talvolta credibili). La delegittimazione è del resto un’arma sguainata che scintilla nuda e tagliente ben oltre le frontiere delle Pampas e del Latinoamerica, fino a caratterizzare la lotta politica in tutto l’Occidente (né fa eccezione l’Italia). Da tempo è infatti materia d’innumerevoli saggi politologici e di studio nelle facoltà giuridico-sociali delle università, non meno che nelle scuole di partito. Un innegabile comun denominatore tutto in negativo.
Il 17 ottobre di 75 anni fa, guidati da Evita Duarte e dall’avanguardia populista dei sindacati socialisti rivoluzionari e in minor misura anarchici, oltre 200mila lavoratori scesero in piazza ed ottennero la liberazione di Juan Domingo Perón, al quale un precedente golpe militar aveva affidato la vicepresidenza della Repubblica, il ministero della Guerra e quello del Lavoro. Ma un’ennesima congiura nelle forze armate, collegata nella circostanza ai maggiori partiti tradizionali (compreso quello comunista, spinto dall’alleanza antifascista USA-URSS nella guerra mondiale) e apertamente supervisionata dall’ambasciatore degli Stati Uniti a Buenos Aires, il repubblicano Spruille Braden, aveva destituito e incarcerato il Generale, inviso all’oligarchia tradizionale, alla gerarchia ecclesiastica e ai grandi oligopoli angloamericani.
Ancora oggi gli Stati Uniti proiettano la propria ombra sulla crisi argentina con l’attesa delle elezioni presidenziali del prossimo 3 novembre. Non è pesante come allora, ma influisce certamente sui comportamenti della Casa Rosada così come su quelli dell’opposizione. I sondaggi che presentano lo sfidante democratico Joe Biden in vantaggio su Donald Trump fanno fretta a quest’ultima, timorosa di perdere il favore di Washington goduto finora grazie all’affinità ideologica con Trump; senza liberare il primo dalla preoccupazione di non offrire al bellicoso inquilino della Casa Bianca pretesti che possano indurlo a ostacolare la trattativa in corso sul debito con il Fondo Monetario Internazionale (FMI).
Macri rinnega le ammissioni espresse subito dopo la sconfitta elettorale («Lo dicevo ai miei che se ci chiudevano il credito finivamo in un vicolo cieco…»). Ora dichiara che («come Deng Xiao Ping in Cina…»), il suo governo avrebbe favorito la concentrazione di ricchezza per fare impresa e quindi creare posti di lavoro (etc. etc.). Intendendo così richiamare l’immagine iconografica della teoria neoliberista secondo cui se continui a colmare la coppa del benessere, il benessere che tracima beneficerebbe tutti, assetati e affamati. A livello globale la sia pur circoscritta riduzione netta della miseria estrema parrebbe confermarla. La crisi altrettanto globale delle classi medie la contraddice. La teoria, com’è noto, resta a dir poco controversa.
Nella realtà Argentina appare di fatto insostenibile. Nel 2015, Macri ha ricevuto un paese appesantito da un’economia in parte rilevante sussidiata; con un debito pubblico consistente, ma governabile. Fiducioso nella mano invisibile del mercato, lui ha tagliato sussidi e imposte nella presunzione di richiamare in tal modo capitali interni ed esteri che avrebbero finanziato l’ammodernamento del sistema produttivo (infrastrutture e servizi). Per diverse ma tutt’altro che imprevedibili ragioni, non sono arrivati né gli uni né gli altri. (Analoghi presupposti avevano sostenuto l’ancor più avventuroso e opaco progetto liberista del peronista Carlos Menem a fine anni Ottanta, drammaticamente naufragato.)
La liquidità sui mercati finanziari è infatti enorme, però preferisce gli investimenti a carattere speculativo; capital golondrina, lo chiamano nel Cono Sur, perché come le rondini arriva con il tepore della primavera economica e subito emigra al primo freddo. Nessun governo lo predilige, molti finiscono per rassegnarvisi (necessitas virtute). Il capitale disponibile invece ad investimenti di medio-lungo periodo richiede garanzie di certezza giuridica e stabilità politica che non tutti riconoscono alle economie cosiddette emergenti. Se a queste tendenze congenite si somma la scelta autarchica e la competitività fiscale imposte da Donald Trump al colossale mercato degli Stati Uniti, ben si comprende la sorte toccata all’Argentina (e all’America Latina).
In questo quadro, il prossimo 17 ottobre non è più semplicemente una ricorrenza di parte a cui concedere maggiore o minor significato, diventa un riferimento centrale dello scontro in atto. Divampato allora e a tutt’oggi inconcluso, poiché irrisolti ne restano i termini (le cui implicazioni di principio vanno ben oltre le frontiere nazionali e dello stesso emisfero sudamericano); malgrado le numerose e troppo spesso tragiche vicissitudini cui ha dato luogo in oltre mezzo secolo. È possibile sviluppare un paese (passato intanto da 17 a 43 milioni di abitanti) essenzialmente agro-esportatore, rinunciando ad avere un’industria indirizzata al mercato di consumo interno, esposto ai contraccolpi delle mutevoli congiunture internazionali, senza un efficace controllo dei cambi, né un sistema di prelievo fiscale adeguatamente progressivo (come suggerisce perfino l’FMI)?
L’adesso rievocatissima crisi del 1929 aveva posto gli stessi quesiti (con le ovvie differenze dettate dai diversi livelli di sviluppo ne pose anche ai paesi centrali, che si divisero nella contrapposizione new-deal vs. fascismi fino alla seconda guerra mondiale). Gli Stati Uniti salvarono il proprio capitalismo grazie all’intervento pubblico in senso espansionista e sociale indicato da J. M. Keynes a F. D. Roosevelt. Con il colpo di stato del generale José Uriburu che rovesciò il presidente radicale Hipolito Hirigoyen, l’Argentina fece scelte contraddittorie in favore di una modernizzazione conservatrice, comunque finanziata dallo stato. Tesa più alla salvaguardia dei conti pubblici e degli interessi privati dell’export agro-alimentare e minerario che non al sostegno dei consumi interni.
Entrambi riformisti, la coppia Federico Pinedo-Raúl Prébisch (nella sua evoluzione industrialista quest’ultimo creerà per le Nazioni Unite la CEPAL, Comisión Económica para America Latina) favorì una politica anticiclica fino alla congiura di caserma degli ufficiali nazionalisti tra i quali si faceva largo Perón, nel 1943. L’intervento statale beneficò soprattutto i grandi latifondisti; ma sebbene in misura incomparabilmente minore e solo in un secondo periodo, già negli anni Quaranta, questo servì a lenire anche le difficoltà dei ceti medi urbani e i falcidiati salari operai. I milioni di pesos dell’erario pubblico (in un periodo in cui più o meno tenevano la parità con il dollaro) hanno finanziato l’economia nazionale ben prima delle politiche redistributive del peronismo.
Come raccomandavano con intenti equilibratori fin dai primi anni Trenta anche liberal-socialisti e cristiano-sociali, un esempio dei quali ultimi fu Alejandro Bunge, ingegnere ed economista, un erede nientemeno che della famiglia socia dei Born nella holding cerealicola fino a pochi anni fa più potente del Sudamerica e tutt’ora tra le prime nel mondo. Una personalità di particolare prestigio per le qualità intellettuali non meno che per i vincoli familiari, formata in Germania e in Inghilterra, così come parte della élite rioplatense, che allora aveva nell’Europa il suo principale punto di riferimento. La natura disincantata e la cultura autoritaria di Juan Domingo Perón soffocarono il fragile pluralismo che fermentava in quell’Argentina; ma inevitabilmente il peronismo non ne restò immune.
Condizionati da un’economia di esportazione, gli imprenditori argentini pretendono oggi come ieri e l’altro ieri una svalutazione della moneta nazionale che il governo gli nega in nome del rischio di collasso a cui esporrebbe l’intera popolazione. Il ritardo dei redditi (quelli fissi in primis) rispetto all’inflazione non sopporterebbe un ulteriore trauma. Il presidente Alberto Fernández e il ministro dell’Economia, Martin Guzman, intendono condurre la politica finanziaria con il massimo coordinamento, per evitare che il sistema dei prezzi interni gli esploda tra le mani e con questi la pace sociale. Per farlo hanno bisogno di tempo. Il mondo imprenditoriale e l’opposizione macrista non sembrano intenzionati a concederglielo, nel convincimento che indebolirebbe la loro capacità negoziale.
È quella che gli economisti keynesiani fin dalla metà del secolo scorso chiamano la maledizione dello sviluppo dipendente (da intendere in senso assoluto, poiché in diversi modi e misure tutti dipendono da tutti gli altri). Una dipendenza che a ogni fine ciclo e in termini massimamente esasperati nei prolungati passaggi d’epoca come questo che stiamo vivendo, comporta stati di stagnazione e recessione tanto più gravi quanto più le economie sono assoggettate, acutizza le disuguaglianze sociali e mette in tensione i sistemi istituzionali. Il Covid è vento sul fuoco. Ma l’Argentina ha superato i guadi più impervi.
Livio Zanotti è nato a Roma e risiede a Buenos Aires.
Nel 2014 riceve il Premio Fersen al Piccolo Teatro di Milano, con la piece “L’ Onda di Maometto” scritta con Alberto La Volpe. Da giovanissimo nel giornalismo al settimanale L’ Espresso, diretto da Arrigo Benedetti, Eugenio Scalfari, Gianni Corbi. Per oltre due decenni lavora poi a La Stampa, con Giulio De Benedetti, Alberto Ronchey, Arrigo Levi, Vittorio Gorresio, Michele Tito, inviato speciale, corrispondente dal Sudamerica e da Mosca, allora capitale dell’ Unione Sovietica. Lascia il grande giornale di Torino per collaborare come editorialista a Il Giorno di Milano e agli “Speciali” del TG1-Rai-TV, diretti da Alberto La Volpe, per i quali realizza numerosi documentari-inchiesta di carattere socio-economico negli Stati Uniti, in Estremo Oriente, nel Sud-Est asiatico. Corrispondente da Berlino alla caduta del Muro e dall’ America Latina dei colpi di stato e delle guerriglie per i TG e radiogiornali RAI, ha pubblicato libri d’ indagine storica e svolto conferenze in Italia e alll’ estero.
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