Autore: Antonello Sacchetti -19/02/2019
La rivoluzione del 1979, oltre a segnare profondamente la storia contemporanea dell’Iran, rappresenta uno spartiacque nella narrazione dell’Iran. Tanto che forse non è esagerato parlare di due narrazioni completamente diverse, prima e dopo la rivoluzione. Possiamo anche affermare che dopo quarant’anni, questa cesura non è ancora ricomposta.
Cosa era l’Iran per gli italiani prima della Rivoluzione? Il fascino dell’antica Persia – materia di studiosi e intellettuali – era messo in secondo piano rispetto alle cronache mondane legate alla figura dello scià, almeno per il pubblico di massa. Era quindi una narrazione costruita soprattutto attraverso rotocalchi, con protagonista un sovrano colto, affascinante e amante delle belle donne e della bella vita.
Per gli studiosi e gli intellettuali, la Persia rimaneva una miniera inesauribile di Storia, di arte, di civiltà. Per noi italiani è impossibile non ricordare il contributo unico di Alessandro Bausani.
C’è comunque un momento di corto circuito tra questi due livelli di narrazione, quello alto e quello più pop: è il 15 ottobre 1971, giorno delle sfarzose e pacchiane celebrazioni dei 2.500 anni di monarchia dei Pahlavi. Ricordiamo la tendopoli di lusso allestita a Persepoli e i richiami dello scià al passato pre islamico. In quell’occasione, le cronache mondane furono costrette a fare riferimento alla Persia antica. Proprio Bausani vide in quell’evento il segnale dell’Inizio della crisi politica del regime Pahlavi, che di lì a meno di otto anni sarebbe stato cancellato dalla rivoluzione.
Non torno sugli antichissimi legami e le innumerevoli occasioni di confronto che dall’antichità all’era contemporanea hanno segnato la storia dei rapporti tra Italia e Iran. Vorrei piuttosto soffermarmi sul carattere che questa relazione ha assunto nel Novecento. Una importanza fondamentale l’ha avuta il cinema italiano, conosciuto e amatissimo dagli iraniani. Un’importanza infinitamente superiore a quella della letteratura, arrivata quasi sempre indirettamente e per traduzioni secondarie, dall’inglese o dal francese. Così, mentre il pubblico iraniano ha amato nostri maestri del cinema – da quelli del neorealismo, passando per Michelangelo Antonioni, fino ad arrivare ad autori più recenti – i classici della letteratura italiana non hanno avuto una traduzione degna e comunque non direttamente dall’italiano al persiano. Basti pensare che non esiste, ad oggi, un’edizione persiana della Divina Commedia degna di nota. Memorabili le osservazioni fatto a questo proposito dal professor Angelo Michele Piemontese. Autori contemporanei, quali Curzio Malaparte, hanno avuto una discreta diffusione in passato, ma soltanto grazie a traduzioni indirette.
Va poi detto che finora noi abbiamo interpretato lo scambio culturale con l’Iran in senso univoco: abbiamo cioè letto e studiato Marco Polo e Pietro Della Valle, ma raramente ci siamo soffermati su come la Persia ha conosciuto e interpretato l’Italia. In questo senso, mancano ancora oggi traduzioni – ad esempio – del Safarnameh, il diario di viaggio che lo Nasser al Din – Shah scrisse in occasione del suo viaggio in Europa nella seconda metà del XIX secolo. Ci sono brani che andrebbero ricordati, come quelli dedicati a Torino, da lui visitata nell’estate 1873.
D’altri canto, mancano in Italia traduzioni adeguate anche di classici come lo Shahnameh di Ferdowsi. È questa una lacuna enorme, così come lo è – per l’Iran – quella della Divina Commedia.
Ad ogni modo, dopo il 1979 inizia, da noi, come in tutto l’Occidente, una narrazione differente dell’Iran, spesso ostaggio di pregiudizi e preconcetti. Persino i termini equivalenti “Iran” e “Persia” hanno cominciato a essere usati in modo “politico”. Tutto ciò che è impossibile denigrare (quindi l’arte, la poesia classica, i tappeti e persino i gatti) sono definiti “persiani”, mentre sono “iraniani” tutti gli aspetti esecrabili o comunque “sospetti”, dalla politica alla cronaca. La nuova narrazione digitale ha sicuramente semplificato gli scambi tra le due culture, ma – per certi versi – ha anche banalizzato i contenuti. Nella semplificazione di certi messaggi social, il passato pre rivoluzionario viene facilmente rappresentato come un’epoca felice e moderna, in contrasto con le restrizioni di oggi, soprattutto per quanto riguarda l’abbigliamento femminile. È una banalizzazione che spesso crea disinformazione e non aiuta il dialogo.
L’Italia è comunque percepita come un Paese amico in Iran. Il mio essere italiano, nei viaggi in Iran negli ultimi 15 anni, ha costituito un vantaggio, una fortuna. Per fortuna, da almeno una ventina d’anni è iniziata una nuova stagione di scambi culturali, grazie alle generazioni più recenti di studenti universitari.
Case editrici italiane – come Ponte33 e Francesco Brioschi Editore – hanno il merito di aver scelto di tradurre autori contemporanei che vivono in Iran. Troppo spesso, l’Iran è letto soltanto attraverso romanzi e racconti degli iraniani della diaspora. Che forniscono, nella maggior parte dei casi, un ritratto ormai datato e comunque piuttosto didascalico del loro Paese d’origine.
La cultura ha da sempre svolto un lavoro prezioso nei rapporti tra i Paesi, soprattutto nelle pause della politica. I recenti sviluppi – o meglio passi indietro – della politica internazionale ci obbligano a lavorare ancora di più in questa direzione.
Concludo citando le parole che Giulio Tamagnini, ambasciatore italiano a Teheran nei giorni della rivoluzione, scrisse quasi quarant’anni fa: “Considerata la distanza culturale tra Iran e Stati Uniti, è ai Paesi europei, e in particolare all’Italia che compete un ruolo in difesa e nell’interesse dell’Occidente in un Paese come l’Iran”.
Sintesi della relazione di Antonello Sacchetti al Seminario “Iran Patrimonio dell’Umanità. Le relazioni culturali tra Italia e Iran“.
Sala Tatarella – Palazzo dei Gruppi Parlamentari – Camera dei Deputati. Roma, 12 febbraio 2019.
Antonello Sacchetti, saggista, esperto di Iran.