Autore: Giordana Bonacci – 29/04/2024
“Yemen. Dramma senza fine”
Il volume di Angelo Travaglini, Yemen. Dramma senza fine (Città del Sole, 2022), offre un’analisi approfondita e toccante di un confitto spesso trascurato dagli attori internazionali. Una narrazione che mette in luce la tragedia umanitaria che regna nel Paese, sottolineando l’indifferenza della comunità internazionale, dei media e dell’opinione pubblica occidentale nei confronti di quella che viene definita dalle Nazione Unite “la più grave catastrofe umanitaria dalla fine della seconda guerra mondiale”.
La situazione nel più povero Paese arabo è estremamente delicata, da qui la necessità di prendere atto del fatto che dalla soluzione della terribile crisi yemenita dipendono ormai in larghissima misura la pace e la stabilità dell’intera regione.
Ad arricchire il lavoro è sicuramente la vasta esperienza professionale dell’Autore; infatti, Angelo Travaglini intraprende la carriera diplomatica nel 1973, ricoprendo le relative funzioni presso varie sedi, andando dalle aree francofone ed anglofone dell’Africa fino all’Australia e all’Argentina.
Una volta terminata la carriera, l’Autore si è focalizzato sullo studio delle realtà arabo-islamiche, in particolare in merito agli scacchieri della Penisola arabica e del Levante.
La prospettiva storica fornita da Travaglini permette di contestualizzare gli eventi attuali all’interno di una cornice più ampia, evidenziando come le tensioni e le divisioni odierne nella società yemenita abbiano radici profonde. Un approccio storico essenziale, al fine di comprendere pienamente la situazione complessa e per individuare possibili vie per una soluzione sostenibile al conflitto.
Data la vasta popolazione, le significative risorse di petrolio e gas naturale e considerando la posizione strategica dei porti marittimi, lo Yemen ha tutte le carte in regola per diventare una potenza regionale, sottolinea Travaglini, ragione per cui gli yemeniti hanno sempre difeso con fermezza la propria identità e la propria terra, opponendosi con determinazione alle interferenze esterne e dimostrando una resilienza straordinaria.
È con Imam Yahya che ha inizio il periodo monarchico di uno Yemen come un’entità indipendente[1]: ci troviamo nel 1918 e il primo sovrano yemenita assume le redini del potere della parte settentrionale del Paese, mentre quella meridionale è ancora sotto tutela britannica.
Imam Yahya sa bilanciare abilmente le alleanze e sfruttare le opportunità disponibili e ciò ha giocato un ruolo significativo nel mantenimento della stabilità dello Yemen durante il mandato di un sovrano che verrà sempre ricordato per la sua astuta diplomazia.
A prendere il comando, successivamente all’assassinio del re nel 1948, vittima di un complotto elaborato dai servizi britannici, è il figlio Imam Ahmad, che guida il Paese in maniera più autoritaria e meno carismatica[2].
Un attaccamento ai valori nazionali approvato dai suoi sudditi, ma disprezzato dagli avversari della monarchia, appartenenti all’ala repubblicana e riformista, motivo per cui Imam Ahmad è obiettivo di numerosi attentati.
Un mandato la cui peculiarità è la ferma opposizione alla presenza britannica nel sud dello Yemen.
Imam Ahmad vede nel Rais egiziano Gamal Abdel Nasser un alleato nella sua policy anti-coloniale, ma è proprio l’aggressione ordita dal leader del Cairo a porre fine nel 1962 al mandato del sovrano yemenita e a creare le condizioni dello strutturale indebolimento del Paese.
Aggressione che, come ricorda l’Autore, trova ragioni nel fallimento del progetto di dar vita ad una “Repubblica Araba Unita” che includeva anche l’Egitto[3].
La guerra che ne deriva, protrattasi fino al 1970, porta alla fine della monarchia e favorisce l’instaurazione di un regime socialista nella parte meridionale dello Yemen, vedendo anche il sostegno dell’Unione Sovietica.
Inoltre, il conflitto rappresenta il preludio all’ascesa al potere del dittatore Ali Abdullah Saleh, uno dei grandi protagonisti della storia recente dello Yemen[4].
Se per la precedente monarchia la difesa di quei valori identitari e la resistenza alle pressioni esterne- principalmente Regno Unito e Stati Uniti- rappresentavano priorità assolute, con Saleh la politica yemenita vede una rottura con il passato: una leadership molto vicina agli Stati Uniti e ad Israele, potenze da cui le monarchie precedenti cercavano di tenersi lontane, previlegiando la complicità del loro alleato regionale, l’Arabia Saudita[5].
Definito come l’uomo forte yemenita, Saleh si è reso protagonista dell’unificazione del Paese negli anni Novanta, processo, difatti gestito dall’alto: senza tener conto delle differenze culturali ed economiche, il principale obiettivo era valorizzare le risorse nazionali a beneficio principalmente degli interessi esterni e delle élite dominanti interne e realizzando la tanto desiderata “integrazione dell’economia yemenita nel mercato mondiale”[6].
Travaglini mette in risalto quanto questa decisione possa essere stata fallimentare. Difatti, le politiche implementate da Saleh hanno contribuito a creare le condizioni per il sorgere degli Houthi, forza significativa nel panorama politico yemenita e uno dei principali attori nel conflitto attuale.
Gli Houthi, conosciuti anche come Ansar Allah, ovvero “seguaci di Allah”, si riconoscono in tale formazione rappresentativa dell’Islam sciita nella peculiare versione Zaydi[7].
Nei primi anni 2000 combattono ben sei guerre contro Saleh, con l’obiettivo di porre fine a quello stato di subordinazione ed emarginazione della tribù araba parte integrante dell’entità yemenita. Tale rivolta si rivela vincente, portando Saleh ad essere il primo ed unico autocrate della Penisola arabica spodestato dai movimenti di massa.
L’Autore enfatizza la complessità del conflitto in Yemen, andando incontro a quella ripetuta, riduttiva, ma soprattutto dominante interpretazione secondo cui nel Paese è in corso una “proxy war tra Arabia Saudita e Iran, guardando agli Houthi come una pedina per soddisfare i progetti espansionistici iraniani verso la Penisola arabica.
In tal modo viene svalutata la battaglia degli Houthi per porre fine a quell’emarginazione da cui sono oppressi alcuni paesi della Penisola arabica.
Non manca, da parte di Travaglini un’analisi dettagliata degli attori coinvolti direttamente sul campo come l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti, i quali applicano strategie differenti nel Paese.
L’interesse strategico da parte dell’Arabia Saudita consiste nel garantire una stabilità del governo yemenita e nel controllo della presenza degli Houthi, percepiti come una minaccia alla sicurezza del Regno saudita.
La preoccupazione di Riyadh risiede, inoltre, nell’influenza iraniana nella regione, un problema che accomuna anche gli Emirati Arabi Uniti.
I due attori giocano un ruolo significativo nel conflitto in Yemen e il loro coinvolgimento ha generato critiche per le violazioni dei diritti umani, aggravando la crisi umanitaria nello Yemen.
L’Autore tiene anche conto degli attori esterni come gli Stati Uniti, il Regno Unito e l’Iran, i quali contribuiscono a mutare l’attuale contesto in crisi.
Quale sarà il futuro della realtà poliedrica yemenita?
Attualmente, evidenzia Travaglini, nel contesto deturpato dello Yemen, la sofferenza continua a dilagare. Purtroppo, nonostante gli sforzi dell’ONU, non si sono ancora ottenuti risultati tangibili e un processo di pace, al memento, appare evidentemente impraticabile.
Ciò che appare chiaro e lampante è che la ricostruzione del Paese richiederà l’impegno di quegli stessi attori che hanno acquisito nel territorio yemenita interessi di strategica rilevanza[8], attuando politiche violente e contravvenendo alla legalità internazionale. Interessi che tali paesi non sembrano essere inclini ad abbandonare.
Lo Yemen continua a sprofondare nel caos, facendo svanire così la speranza di salvare una regione, una comunità dall’incessante sofferenza.
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