Autore: Beatrice Parisi – 06/01/2025
“La NATO dopo la NATO: perché l’alleanza rischierà di implodere”. L’ordine euroatlantico in un mondo multipolare.
Il futuro dell’Alleanza Atlantica può essere considerato uno dei temi più controversi e dibattuti nel panorama geopolitico, Giuseppe Romeo all’interno del suo volume: “La NATO dopo la NATO: perché l’alleanza rischierà di implodere” (Diana editore, ISBN 978-8896221822, 2023), con un’analisi realista e pragmatica, evidenzia che la posizione e gli adattamenti dell’Alleanza sulla base delle evoluzioni storiche, culturali, sociali e geopolitiche rappresentano un complesso continuum che richiede un approccio interpretativo costante e non riducibile a categorie dicotomiche, le quali non evidenzierebbero gli irriducibili sforzi messi in atto dal 1991 affinché un organismo emblema di una logica bipolare potesse perdurare in un mondo ormai multipolare.
A cosa e a chi serve la NATO sono le domande più ricorrenti dopo lo scioglimento del Patto di Varsavia. La NATO nasce in qualità di organismo difensivo verso la minaccia comunista e delle sue forze militarmente organizzate, rivedere il ruolo dell’Alleanza una volta venuto meno il suo principale concorrente è stato un elemento cruciale per far perdurare l’esistenza stessa dell’Alleanza Atlantica. Durante la prima presidenza Clinton, nei primi anni ’90, il tema centrale delle relazioni internazionali è stato quello della cooperazione. In un contesto in cui si riteneva possibile la scomparsa della guerra, la presenza di un organismo difensivo come la NATO appariva in contrasto con l’idea di un mondo pacificato, ormai lontano dalla logica della pace armata e dalla costante minaccia nucleare che avevano caratterizzato la Guerra Fredda. In tale scenario, la NATO ha percepito come prioritaria la necessità di ridefinire il proprio ruolo, adattandosi a un panorama internazionale in evoluzione, non più dominato da un confronto bipolare. La complessa realtà geopolitica, nonché la trasversalità delle minacce hanno messo in luce un aspetto fondamentale: la sicurezza non può e non deve essere alla mercé di un’unica grande potenza, i nuovi conflitti asimmetrici rendono evidente che il bene della sicurezza non può ridursi ad una mera concessione basata su dogmi propagandistici volti ad esercitare un’azione pedagogica sugli Alleati. Sin dalla sua istituzione, la NATO ha identificato come suo principio fondante l’obiettivo di promuovere valori di democrazia e libertà, tuttavia il corso della storia ha evidenziato come la politica dell’Alleanza Atlantica non sia stata priva di contraddizioni al fine di perseguire la reale costante della politica atlantica: l’imposizione dell’egemonia benevolente a stelle e strisce nel continente europeo.
I valori liberal-democratici, proclamati come principi cardine dell’Alleanza, non erano incarnati da alcuni dei suoi Paesi fondatori, in particolare: il Portogallo e l’Italia. Entrambi i Paesi rappresentano un punto strategico di accesso al Mediterraneo e sono importanti basi strategiche per la difesa del fianco sud della NATO, ma il Portogallo, all’epoca, era sottoposto alla dittatura di António de Oliveira Salazar, mentre l’Italia stava transitando faticosamente ad un regime democratico dopo vent’anni di dittatura fascista. È evidente che entrambi i Paesi, almeno inizialmente, non potessero contribuire alla diffusione dei valori democratici, ma la loro adesione alla NATO ha favorito l’espansione del potere egemonico statunitense nell’area del bacino del Mediterraneo e il rafforzamento della presenza marittima statunitense nell’Atlantico. Tra gli episodi antidemocratici che hanno coinvolto i partner NATO c’è l’invasione turca dell’isola di Cipro risalente al 1974 che causò la violazione della sovranità di uno Stato membro della comunità internazionale, determinando tensioni politiche con un altro membro della NATO: la Grecia. Nonostante l’invasione non abbia rappresentato una diretta violazione del trattato istitutivo dell’Alleanza Atlantica ha rappresentato, tuttavia, un grave test per la NATO, che si è trovata ad affrontare un conflitto tra due dei suoi membri, rischiando di compromettere la coesione dell’Alleanza. Analizzando le innovazioni strategiche messe in atto dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica in poi, è evidente che la politica strategica dell’Alleanza sia stata adattata sulla base delle esigenze imperialiste americane. Dopo la crisi kosovara del 2008, per far rivivere la NATO, emerge in modo preponderante il carattere politico dell’Alleanza, dimostrando di assumere contorni non più solo e semplicemente militari. D’altro canto, il Kosovo è un ulteriore risultato della politica contraddittoria NATO, nonché un primo punto di svolta negativo nell’ambito della difficile cooperazione tra la Russia e la NATO, o meglio, gli Stati Uniti. La svolta è determinata dall’assunzione, da parte della NATO, di caratteri pienamente offensivi e non più solo difensivi. Le forze russe ritennero illegittima la guerra preventiva della NATO portata avanti con bombardamenti aerei per giustificare le atrocità compiute dai serbi nei riguardi del movimento indipendentista albanese nel Kosovo. Considerando l’assenza di un mandato internazionale, l’azione offensiva NATO fu condotta senza alcuna approvazione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Questo episodio determinò un grave raffreddamento dei rapporti tra USA e Russia, in quanto il presidente della Federazione El’cin ritenne che questa azione NATO rappresentasse la volontà statunitense di porsi nel panorama internazionale in qualità di poliziotto del mondo, lasciando trasparire la volontà di consolidare l’assetto unipolare.
Già alla fine degli anni 90, il ministro degli esteri russo Evgenij Maksimovič Primakov espresse la necessità di immaginare un sistema internazionale multipolare, ma questa vocazione strategica si scontrava con una realtà fatta di limiti strutturali. Dopo la dissoluzione del blocco sovietico, la Russia ne esce fortemente indebolita sia da un punto di vista economico che militare, quindi era dapprima necessario realizzare un consolidamento interno, affinché potesse nuovamente esercitare un controllo deciso sul proprio territorio. La Russia ha cercato di riaffermare il proprio peso geopolitico sfruttando le risorse energetiche petrolifere per ricostruire un’economia interna ormai debole e per finanziare il proprio ritorno sulla scena internazionale. Fu lo stesso Primakov ad essere firmatario del Founding Act on Mutual Relations, Cooperation and Security between NATO and the Russian Federation, concepito come atto fondatore di nuove relazioni che avrebbero potuto aprire la strada al multilateralismo, in modo da rimettere al centro del confronto l’interesse del continente al fine di promuovere un sistema di sicurezza credibile ed inclusivo, ma il corso degli eventi ha dimostrato che gli interessi particolari son prevalsi su quelli generali, considerando che la NATO non avrebbe sminuito la sua efficacia politica e militare a favore di un dialogo cooperativo paritario, quindi la Russia di El’cin si ritrovava in una posizione di minor potere contrattuale, nonostante questo partenariato venisse visto da El’cin come la speranza che la Russia potesse ripristinare un ruolo attivo nel mondo. Il primo a credere alla benevolenza e alle promesse della NATO fu Gorbachev, affinché le sue posizioni diventassero più malleabili al fine di favorire la riunificazione, e poi, l’annessione della Germania nell’Alleanza Atlantica, il segretario di Stato James Baker effettua delle promesse che potrebbero essere sintetizzate nella frase “not an inch eastward”, questa affermazione si riferiva alla promessa che la NATO non si sarebbe espansa verso est, promesse che però rimangono oggetto di dibattito storico e politico, in quanto non c’è mai stata alcuna formalizzazione in forma scritta. Per tale ragione, gli USA avevano compreso l’importanza strategica di temporeggiare sulla concessione effettiva della membership agli Stati dell’ex Patto di Varsavia, in quanto la reazione di Mosca avrebbe potuto essere imprevedibile, perché l’allargamento della NATO verso est avrebbe inevitabilmente portato all’estensione del perimetro di sicurezza russo verso Occidente. I Partnership For Peace (PFP) hanno rappresentato un giusto compromesso alla membership effettiva, permettendo infatti, l’instaurarsi di relazioni cooperative tra i Paesi NATO e Paesi terzi esterni all’Alleanza, evitando che si prendessero affrettate decisioni riguardanti l’effettiva espansione della NATO. Dunque, la formulazione dei partenariati, sostenuti da un’interpretazione estensiva dell’articolo 10, enunciava l’ambizione espansionistica unipolare della NATO. Questo articolo, infatti, sanciva, uno dei principi cardine della politica dell’Alleanza post-1991: la cosiddetta “politica della porta aperta”. Tale iniziativa strategica aveva l’obiettivo di promuovere gli standard dell’Alleanza tra i Paesi che stavano transitando verso l’instaurazione di un regime democratico; quindi, risulta controversa l’adesione delle Russia al Partenariato. Gli Stati membri della NATO concordarono di consultare la Russia su questioni di grande rilevanza, ma non concessero a Mosca un diritto di revisione sulle decisioni della NATO; quindi, il ruolo della Russia fu paragonato a quello di Paesi in piena fase di transizione, sminuendo la capacità decisionale russa in materia di sicurezza cooperativa. configurandola come strumento di proiezione dell’influenza statunitense nel contesto internazionale. In questo quadro, per ogni Stato è stato introdotto un programma di Partenariato individuale, in quanto un modello differenziato garantiva agli attori coinvolti di definire le proprie priorità strategiche e il grado di intensità della cooperazione con la NATO. Nonostante un’iniziale partecipazione e integrazione della Russia nell’iniziativa, era chiaro che mediante i PFP, gli Stati Uniti miravano ad annichilire l’aspettativa della Russia di rappresentare un interlocutore importante nel continente europeo. L’ambizione degli Stati Uniti di perpetuare la propria unipolarismo a livello globale, accompagnata dall’esportazione di valori democratici tipica dell’eccezionalismo americano, ha evidenziato una miopia strategica dell’Occidente. Tale approccio non è stato in grado di coinvolgere il Cremlino in un processo di difesa continentale, sebbene la Russia rappresenti un attore imprescindibile per gli equilibri geopolitici dell’area eurasiatica. Un vero dialogo non è mai stato perseguito, la ragione potrebbe risiedere nel timore di Washington di vedere lo stabilirsi di sinergie economiche e strategiche tra i Paesi dell’Europa e la Russia. Tale scenario potrebbe compromettere l’influenza statunitense su un’area considerata di primaria importanza strategica, ovvero il continente europeo.
Una sinergia tra Europa e Russia che riuscisse a coniugare tecnologia europea e risorse russe determinerebbe il crollo egemonico statunitense. L’assenza di un dialogo costruttivo con la Russia ha contribuito a un progressivo distanziamento di quest’ultima dalle democrazie europee e da Washington. La peculiarità della duplice identità russa, sospesa tra Oriente e Occidente, conferisce al Cremlino la possibilità di adottare strategie flessibili, orientandosi verso uno dei due poli in base alle contingenze geopolitiche.Da questa riflessione assume maggiore chiarezza il ruolo giocato dai BRICS, i cui membri pur presentando differenze economiche, politiche e culturali, condividono l’obiettivo di ridurre l’influenza occidentale. Dalla dichiarazione di Kazan risultante dall’ultimo summit BRICS, si evince la volontà di cooperazione finanziaria ed economica tra i membri, nonché la chiara indicazione che l’isolazionismo della Russia è portato avanti solo in Occidente. A dimostrare che la Russia abbia ancora un forte supporto internazionale, è stato anche l’invio da parte di Kim Jong-un di soldati nordcoreani nella regione russa del Kursk, più che nell’accezione di supporto militare, quest’invio potrebbe essere interpretato come chiaro messaggio politico che la Russia non è realmente isolata, considerando anche la manifestata volontà di Kim Jong-un di entrare a far parte dei BRICS. Come affermato da Kissinger nel suo Six Studies in World Strategy: a dover essere sconfitta è l’invasione in Ucraina ma non la Russia come Stato ed entità storica, Dopo quasi tre anni dallo scoppio dell’attuale conflitto russo-ucraino, si evince una volontà statunitense totalmente discordante dal pensiero di Kissinger, in quanto il supporto, le consulenze militari di intelligence statunitensi fornite all’Ucraina rappresentano strumenti di proxy war che gli USA perpetrano nei confronti della Russia. Trump avrà sicuramente il potere di modulare il conflitto diminuendo il supporto e i finanziamenti militari, perché per quanto il conflitto russo-ucraino possa essere definita la guerra indiretta degli Stati Uniti contro la Russia, sarà necessario comprendere a cosa siano disposti a rinunciare Putin e Zelens’kyj. È innegabile che gli Stati Uniti abbiano utilizzato la guerra preventiva come strumento per consolidare il proprio ruolo di potenza imperiale nelle cosiddette “aree calde”. Tuttavia, questa manifestazione dell’eccezionalismo americano non ha prodotto progetti di dominio globale realmente sostenibili o funzionali, rivelando i limiti intrinsechi di tale strategia che stanno portando al declino dell’imperialismo statunitense. Lo storico britannico Paul Kennedy ha coniato il termine “imperial ovestretch” per far riferimento all’insostenibilità delle ambizioni delle grandi potenze, nonché ad un dispendio superiore di risorse rispetto a quelle disposte. Questo principio appare particolarmente evidente nella politica estera degli Stati Uniti, i quali, hanno da sempre portato avanti un’ideologia, ma non hanno mai avuto obiettivi chiari e a dimostrarlo è l’assenza di una strategia coerente in Medio Oriente. Gli accordi di Doha (2020) rappresentano un punto di svolta nella politica estera di Washington per due motivi distinti, innanzitutto gli accordi con i talebani evidenziano il fallimento della politica di overstretching e la volontà di un rapido disimpegno dall’area. Inoltre, nonostante le truppe NATO siano state dispiegate su territorio afghano per due decenni, gli accordi di Doha sono stati negoziati e firmati esclusivamente tra Stati Uniti e talebani, dunque, il mancato coinvolgimento diretto evidenzia la volontà isolazionista del neo-eletto Donald Trump, che non riconosce il valore geopolitico della NATO, facendo venir meno il senso dell’Alleanza stesso. La nuova presidenza Trump rende certa la possibilità che gli USA non offriranno garanzie circa un intervento militare se non direttamente attaccati sul proprio territorio. Il team del presidente eletto Donald Trump ha comunicato ai funzionari europei che si aspetta che gli alleati della NATO aumentino la loro spesa per la difesa al 5% del PIL, questa richiesta rappresenta una significativa pressione degli Stati Uniti per maggiori contributi finanziari da parte dei suoi partner NATO. L’impegno richiesto da Trump mette in luce la volontà di svincolarsi da impegni militari complessi e controversi. Dunque, assume nuovamente urgenza la controversa questione dell’indipendenza europea nel campo della difesa. Durante la conferenza stampa in cui il segretario generale Jens Stoltenberg ha presentato il rapporto annuale della NATO per il 2023, ha chiarito che l’istituzione responsabile della definizione degli standard nella pianificazione e nell’ implementazione della difesa deve rimanere la NATO. Stoltenberg ha sottolineato che solo attraverso questa centralizzazione si può evitare la duplicazione di strutture e capacità militari, prevenendo il rischio di indebolire la prontezza operativa dell’Alleanza. Tale posizione si oppone in modo decisivo all’idea di sviluppare una difesa europea autonoma separata dagli Stati Uniti. È evidente che l’ipotesi di una politica di difesa europea pienamente autonoma dipenderà sempre e soltanto dal ruolo che la NATO continuerà ad esercitare sui Paesi europei, considerando che una concreta e autonoma difesa europea potrebbe pregiudicare l’esistenza stessa della NATO, o nel migliore dei casi, produrre un ridondante doppione con rischio di sovrapposizione di poteri e funzioni. Ma ciò che emerge è che la NATO sembra orientata a preservare la propria influenza globale, ma con la chiara volontà di svincolarsi da un coinvolgimento diretto in scenari di crisi che potrebbero comportare rischi significativi. La volontà di retrenchment della politica estera statunitense entra in contrasto col dispiegamento strategico di mezzi nucleari sul territorio europeo di cui ancora oggi se ne dibatte la legalità. La prima forma di nuclear sharing si configura con il trasferimento e lo stazionamento di armi nucleari statunitensi sul territorio europeo a partire dai primi anni 50 per dare “contenuto” al Patto Atlantico. Le autorità europee, preoccupate dall’aggressività sovietica, spingevano quelle statunitensi ad accelerare trasferimento di uomini e mezzi nel continente europeo. Nonostante il nuclear sharing sia una pratica controversa che ha sollevato dubbi interpretativi non costituisce violazione al diritto internazionale, perché la proibizione all’uso e al dispiegamento di mezzi nucleari è prevista esclusivamente da trattati, in particolar modo da Trattato Sulla Proibizione delle Armi Nucleari (TPNW). Il problema dei trattati è che producono un diritto di tipo contrattuale, quindi, giuridicamente vincolante solo per i firmatari e, fino ad ora, nessun partner NATO ha ratificato il trattato. Il nuclear sharing permette agli Stati Uniti di perpetuare un approccio di deterrenza più che di intervento diretto. La deterrenza nucleare giocherebbe un ruolo cruciale nel preservare la pax a livello globale, questo perché in caso di avviso credibile di attacco nucleare, è prevista una ritorsione nucleare immediata. Questo automatismo non è concepibile dalle strutture statali per le conseguenze catastrofiche intrinseche all’uso del nucleare. Per questo motivo, la NATO definisce sé stessa come un’organizzazione che promuove la non proliferazione del nucleare, in quanto le circostanze di utilizzo di armi nucleari sono considerate estremamente remote. Un elemento cruciale di discussione che contribuisce a rendere stagnante un processo integrato di difesa europeo riguarda proprio la questione del nucleare. Mentre alcuni Stati europei stanno considerando l’idea di rafforzare l’arsenale nucleare europeo, gli atlantisti rifiutano questo dibattito almeno fino a quando continuerà ad esistere l’ombrello nucleare statunitense. Dopo la Brexit, la Francia rimane l’unico Stato membro dell’Unione Europea in possesso di armi nucleari e piuttosto recentemente il presidente francese Emmanuel Macron ha proposto l’estensione dell’ombrello nucleare francese sul resto d’Europa. In conclusione, si può affermare che nel relativo crollo egemonico, gli Stati Uniti difficilmente rinunceranno al controllo strategico sul continente europeo, considerato la perla dell’impero americano. La NATO resta l’organismo privilegiato con cui Washington mantiene un accesso diretto al Mediterraneo, rafforzando il proprio impegno marittimo e commerciale, in un contesto segnato dalla crescente influenza della Cina. Quest’ultima, con il suo comportamento assertivo in ambito economico è percepito come una minaccia sistemica per le aree geograficamente significative per la sicurezza NATO. Allo stesso tempo, gli USA stanno favorendo politiche di retrenchment a quelle di ovestretching, come dimostrato dall’esplicita richiesta ai Paesi europei di aumentare gli investimenti nel campo della difesa. Tale approccio suggerisce un rifiuto di intervento diretto delle forze statunitensi in eventuali conflitti, a meno che non sia direttamente minacciata l’homeland. La deterrenza nucleare resta lo strumento privilegiato per garantire la pace, anche se c’è da chiedersi come la minaccia nucleare possa realmente favorire una cooperazione. La presenza di armi nucleari come principale strumento per il mantenimento della pace mondiale rende difficile instaurare rapporti di fiducia reciproca tra Stati, sapendo che minaccia dell’uso della forza nucleare è uno dei principali mezzi a cui si attinge per scongiurare conseguenze più gravi in situazioni politicamente conflittuali.
Il libro: Dalla conclusione dell’avventura degli Stati Uniti in Asia centrale ogni esperienza politico-militare che non guardi al mondo nuovo che si scorge all’orizzonte rischia di avvolgersi su sé stessa ed implodere. Con l’allargamento del gruppo dei Brics ad altri partner e la formazione di un non-Western World a guida sino-russa, i rapporti di forza sembrano mutare relegando l’occidente ai margini di una nuova storia. Nel 1948 John King Fairbank, storico di Harvard, ricordava che «La prospettiva storica non è un lusso ma una necessità» e che «la storia continua senza corsie preferenziali, senza scorciatoie». Negli ultimi tempi stiamo assistendo agli errori di una Nato troppo atlantica e poco europea, una Alleanza che perde di aderenza con il cambiamento dei rapporti di forza politici ed economici in corso, che si affida alle lusinghe geopolitiche del dominus d’oltreoceano a danno del Vecchio continente.
L’autore: Giuseppe Romeo (Benestare – RC, 1962) è un analista politico, pubblicista e accademico. Ha scritto e scrive diverse riviste e su argomenti di politica della difesa e di relazioni internazionali pubblicando negli anni più di 150 articoli e saggi. Tra i suoi volumi si ricordano in particolare: La Russia postimperiale. La tentazione di potenza (con Alessandro Vitale, 2009); Un solo Dio per tutti? Politica e fede nelle religioni del Libro (con Alessandro Meluzzi, 2017); Da Vienna a Parigi. Gli ultimi giri di valzer. La Grande Guerra, la Conferenza di pace e l’ordine mondiale. Storia di un’Europa sconfitta (2021); Guerre Ibride. I volti nuovi del conflitto (2021); Una nazione incompiuta. L’Italia: dal sistema dei partiti alla crisi della democrazia (2022).
Beatrice Parisi – Laurea triennale in ‘Studi Diplomatici, Internazionali e sulla sicurezza globale’ presso l’Università degli Studi di Salerno. Attualmente studente magistrale in ‘Investigazione, Criminalità e Sicurezza Internazionale’, presso l’Università degli Studi Internazionali di Roma. Collabora con Vision & Global Trends International Institute for Global Analyses, nell’ambito del progetto Società Italiana di Geopolitica.