Autore: Marco Centaro – 30/10/2023
MANUALE DI POLITICA ESTERA ITALIANA
Il manuale di Diodato e Marchetti costituisce uno spartiacque nella letteratura sulla politica estera italiana. Infatti, rappresenta uno dei primi veri tentativi accademici in materia, e ciò per due motivi precisi: in primis si tratta del primo lavoro di stampo politologico che unisca gli approcci e le metodologie delle scienze politiche alle ricostruzioni storiografiche delle relazioni internazionali; secondo poi, viene pubblicato in un momento in cui le stesse relazioni internazionali, la diplomazia e i rapporti di potere vivono una particolare crisi (intesa nel suo senso etimologico di “cambiamento che genera instabilità”).
Tale Manuale di politica estera italiana tenta, dunque, di scavare fino alle radici più profonde della politica estera italiana, avendo il fine di comprenderla dal punto di vista storico, del processo decisionale e degli attori coinvolti. Non si esagera se oggi, in particolare, si parla di un urgente bisogno di ritrovare l’archè della presenza italiana nel contesto internazionale in modo da riorientarla nell’oceano di instabilità che circonda l’arcipelago delle relazioni internazionali.
Per raggiungere l’obiettivo gli autori si rivolgono ad una fitta bibliografia, perché, come detto, le basi teoriche esistono, ma nessuno fino ad ora ha sviluppato un approccio incrociato.
Marchetti e Diodato non lasciano dubbi fin da subito, dichiarando che il loro lavoro risponde a criteri scientifici di ricerca che si rifanno alle teorie e ai modelli teorici delle relazioni internazionali, in particolare la FPA (Foreign Policy Analysis). Tale premessa serve per gettare le fondamenta del discorso, perché durante la trattazione non mancheranno i riferimenti alle tradizioni del pensiero internazionalista (le teorie realiste, liberali e costruttiviste).
Infatti, il primo capitolo ha il preciso scopo di far capire al lettore quanto sia complesso il panorama delle relazioni internazionali e che logicamente queste non possono non intrecciarsi con la politica estera.
Essa si manifesta come l’insieme dei comportamenti che gli attori (principalmente governativi) adottano nei confronti di altri agenti al di fuori dei propri confini, ossia in uno spazio estraneo al proprio controllo.
La problematica, però, che più è evidente quando si studia la politica estera deriva dalla domanda sul come e dove nasce. Si tratta di capire come una tale politica venga influenzata e quali variabili coinvolga, ma è proprio questo ciò che dovranno ricostruire gli autori lungo la trattazione. La politica estera subisce influenza che si stratifica su almeno tre livelli: uno esterno (l’environment internazionale in cui si inserisce lo Stato), uno interno (il contesto domestico) e un ultimo individuale (il ruolo degli individui in termini di leadership).
Se questo è il punto di partenza, Marchetti e Diodato rincarano la dose, poiché la stessa problematica può essere estesa anche alla domanda su chi sia il soggetto che attua la politica estera.
Una risposta non può essere data su due piedi, e lo dimostra l’esaustiva ricostruzione storica della diplomazia, la quale inevitabilmente finisce affermando che globalizzazione e digitalizzazione hanno reso gli ambasciatori e i Ministeri degli Esteri attori non più rilevanti e di primo piano come un tempo. Costoro, al giorno d’oggi, si vedrebbero affiancati non solo da stakeholders esperti in ambiti diversissimi (da quello ambientale, tecnologico, dei diritti umani o del consumatore per esempio), ma anche da organizzazioni internazionali e attori non governativi con una rilevanza tale da pareggiare o superare la potenza di alcuni Stati. È perciò indubbio che la politica estera riguardi un comportamento statale e istituzionale, ma non si può essere così semplicistici e riduttivi nell’affermarlo.
Il secondo capitolo diviene centrale proprio per spiegare come una tale complessità teorica sia coerente con la nebbia che aleggia attorno al processo di formazione della politica estera italiana. Un punto fermo viene, però, fissato: la politica estera vuole essere intesa come una politica pubblica, ossia un atto normativo (quindi di natura statale) che produce effetti nei comportamenti di coloro a cui essa si rivolge.
Fatta tale precisazione, Marchetti e Diodato passano a descrivere come si formuli e chi siano i protagonisti della politica estera italiana, lasciando intendere come già la divisione costituzionale dei ruoli determini spaccature tra i poli decisionali. L’art 80 della Costituzione, infatti, non aiuta a cogliere le responsabilità e le materie oggetto di supervisione parlamentare, e allo stesso modo il Governo e il Presidente della Repubblica palesano un’ampia capacità di influenza sulla presa di decisioni aventi rilievo internazionale.
Da non dimenticare il ruolo degli attori non governativi, provenienti in particolare dal settore economico, e portatori di rilevanti interessi strategici all’estero: trattasi di imprese attivissime sul campo dell’approvvigionamento energetico e della produzione di armamenti in grado di attribuirsi uno spazio privilegiato nella politica estera.
Il numero di attori coinvolti e la confusione nelle rispettive competenze attribuisce un peculiare carattere allo Stato italiano: questo sarebbe debole, poiché vedrebbe numerosissimi frammenti della società civile e istituzionale intervenire nel circuito di formazione delle politiche pubbliche (non solo quella estera), rendendole suscettibili a repentini e improvvisi cambiamenti. Ciò ha la diretta conseguenza non solo di rendere l’Italia spesso inaffidabile agli occhi stranieri, ma anche di ridurre la capacità di controllo e di intervento sulla popolazione da parte delle istituzioni. Lobby economiche o gruppi di interesse, spesso in partnership coi partiti, sono una variabile estremamente ingerente rispetto alla vita istituzionale.
Per finire il capitolo dedicato agli attori e ai processi, gli autori passano a descrivere la cultura politica che sottende alle decisioni sugli affari esteri italiani. La cultura tipica della Penisola non è invulnerabile rispetto a cambiamenti interni o internazionali, e viene in generale costruita sulle opinioni e conoscenze che si sedimentano nella comunità in un determinato momento storico. Pertanto, se all’epoca dell’unificazione la cultura prevalente voleva perseguire gli interessi nazionali e modernizzare in autonomia il Paese (rendendolo una potenza al pari degli altri Stati europei), a partire dall’armistizio di settembre 1943 l’approccio nazionalistico muta, volendo sì, come prima, perseguire gli interessi nazionali, ma farlo adattandosi il più possibile ad un ordine che garantisca stabilità e sviluppo, rinunciando a iniziative internazionali aventi un eccessivo protagonismo.
A questo punto, e siamo al terzo capitolo, l’approccio politologico viene combinato alla ricostruzione storica dello Stato italiano nelle sue relazioni con il mondo esterno. Il risultato che forniscono gli autori è la curiosa spiegazione culturale e motivazionale che sottende a decisioni di politica estera risalenti a prima del 1861, ma che restano in parte costanti e visibili tutt’oggi.
L’esatto momento in cui l’Italia “fu fatta” lascia trasparire molto sul destino che essa avrebbe avuto in futuro. Cavour stesso non poteva unificare il Paese senza l’appoggio straniero (in particolare di Gran Bretagna e Francia), e come ovvia conseguenza l’affidamento all’influenza straniera fu l’unica soluzione. Ma poiché l’Italia dell’epoca non poteva costruirsi dei propri modelli di sviluppo, dovette affiancare a tale influenza anche un ancoraggio ai modelli stranieri più funzionali per la modernizzazione e la crescita.
La classe dirigente, a quel punto, dovette porsi una precisa domanda: a chi affidare le sorti di un paese il cui popolo non poteva ancora neanche definirsi “italiano”?
Il quesito non ha mai ricevuto una risposta coerente, e ciò per due motivi che ancora oggi sopravvivono e avvelenano il circuito di formazione della politica estera italiana: l’assenza di un dibattito pubblico in materia di affari esteri adeguato a coinvolgere e informare la popolazione; la mancanza di un processo di razionalizzazione della postura strategica italiana, avente l’obiettivo di garantire continuità alle decisioni. L’ovvia conseguenza? La politica estera è rimasta, da allora, relegata a ristretti circoli elitari governativi (ad oggi estesi ad alcuni stakeholders del mondo civile) che vedevano privilegiati ora i rapporti con una potenza, ora con un’altra, poiché le classi dirigenti stesse si trovavano (e si trovano) divise e diverse tra loro.
Il tema di fondo sottolineato dagli autori è che tale divisione interna diventa un fattore destabilizzante sempre in agguato nell’ambito domestico, tale per cui va sempre ricercata una stabilità all’estero in grado di garantire e assicurare gli interessi nazionali. La prioritizzazione della stabilità interna sarebbe la responsabile per eccellenza del “sacro egoismo” (espressione tanto cara all’ex Presidente del Consiglio Antonio Salandra) che in diversi momenti portò l’Italia a compiere pesanti voltafaccia nei confronti dei propri alleati: il primo caso risale al tradimento nei confronti dell’alleato francese durante la guerra franco-prussiana del 1870/71, sfruttato egoisticamente per completare l’unificazione d’Italia conquistando la Roma vaticana. Altrettanto importanti sono, però, i casi della rottura della Triplice Alleanza nel 1915 (entrando in guerra con l’alleato austro-ungarico), e l’alleanza stretta con gli Alleati nel 1943, percepita dal popolo tedesco come alto tradimento.
Avendo ora capito quali sono le complessità e le problematiche nella costruzione della politica estera italiana, agli autori spetta delineare quelle costanti che si possono rinvenire nella storia dei rapporti tra Italia e comunità internazionale.
Analizzando quattro giunture critiche (momenti storici in grado di stravolgere l’ordine nazionale e internazionale) si può notare come l’Italia cerchi, imperterrita, di trovare la soluzione ad un dilemma perenne e radicato profondamente nel contesto internazionale che l’ha vista nascere: indipendenti sempre, isolati mai. Questa formula venne usata dall’ex Ministro degli Esteri Emilio Venosta, nella prima metà del XX secolo, per descrivere l’atteggiamento italiano verso la comunità internazionale. Il dilemma lega la politica estera ad un’ossimorica dicotomia di indipendenza-ancoraggio, la quale diviene, appunto, evidente in quattro momenti storici fondamentali per l’evoluzione della politica estera italiana: il processo di unificazione nazionale, l’epoca fascista, l’avvento della democrazia e la seconda fase repubblicana.
L’Italia, da un lato, non è mai stata in grado di ricoprire un ruolo egemone, ma ha sempre sentito il bisogno di ancorarsi a modelli che le dessero sicurezza e garantissero modernizzazione. Questi potevano assumere la forma della Germania nella seconda metà del XIX secolo, oppure quella del sistema occidentale al giorno d’oggi. Lo schema è lo stesso.
Una costante che, però, rilevano i nostri autori è che prima o poi questi sistemi di alleanze si inceppano, provocando timori di instabilità interna che a loro volta generano stravolgimenti nella politica estera.
Dall’altro lato, un certo animo mediterraneo e nazionalista è sempre vivo nelle classi dirigenti di volta in volta al potere, e questo può indurre l’Italia ad assumere toni assertivi, sovranisti e contrari ai vincoli dell’ingerenza straniera. Se da un lato questo era evidente durante il ventennio fascista, ad oggi ciò è rinvenibile nell’euroscetticismo o nel sovranismo del centrodestra.
Dunque, il sentimento “isolati mai” è legato attualmente alla forte integrazione europea, nonché all’Alleanza Atlantica, ma dall’altro lato l’essere “indipendenti sempre” si ritrova nel ricercare una più spiccata libertà d’azione verso determinate aree appartenenti al concetto del cosiddetto “Mediterraneo Allargato” (Nord Africa, Medio e Vicino Oriente, Golfo Persico e Mar Nero).
Ne sono un esempio il Memorandum of Understanding Italia-Libia del 2017 per esempio, o quello relativo alla Via della Seta siglato con la Cina nel 2019.
La discontinuità della proiezione italiana all’estero, sotto molti punti di vista, è da far risalire proprio a questa dicotomia tra indipendenza-ancoraggio.
Il profilo della politica estera italiana tracciato fino a questo punto dai nostri due autori non promuove una buona immagine del Paese all’estero. Infatti, risulta evidente come il comportamento dell’Italia al di fuori dei propri confini sia tendenzialmente disorientato e ricco di contraddizioni, generando sfiducia e scarsa credibilità.
Nonostante la grande incoerenza e confusione dell’azione italiana nel contesto internazionale, grazie all’analisi storica Diodato e Marchetti riescono a sintetizzare i suoi movimenti tra XIX, XX e XXI secolo. Si delineano quindi tre immagini che delimitano la politica estera dell’Italia: la prima è costituita da tre anelli concentrici, dove il più radicato e solido è rappresentato dal blocco politico-culturale occidentale e atlantico: una guida a cui l’Italia si sarebbe affidata nel secondo dopoguerra per ricostruirsi; il secondo anello vedrebbe invece la Penisola fortemente legata al consesso sempre più integrato dell’Unione Europea, un altro modello-guida a cui affidarsi per tutelare i propri bisogni di sviluppo e modernizzazione; il terzo e ultimo anello si rivolge al più ampio contesto dell’ordine internazionale incarnato dall’ONU, in cui l’Italia sembrerebbe voler giocare un ruolo cardine al fine di partecipare alla revisione di tale organismo (evidentemente disfunzionale sotto molti aspetti).
La seconda immagine vede nell’Italia, come detto sopra, una medaglia avente due facce opposte unite dallo stesso sacro egoismo. La prima tende all’ancoraggio verso modelli stranieri che fungano da esempio per modernizzare il paese, tenendo in primis l’Europa e gli Stati Uniti come faro; l’altra faccia vorrebbe, al contrario, maggiore indipendenza e autonomia nel perseguimento degli interessi nazionali, lasciando trasparire un animo più nazionalista e mediterraneo, quindi meno vincolato alle logiche euro-continentali.
La terza e ultima immagine completa il quadro del perimetro dell’azione italiana all’estero, poiché sintetizza il suo raggio d’azione circoscrivendolo entro tre aree geografiche, ciascuna con i propri attori di riferimento. Queste costituiscono un triangolo, i cui vertici sono riassumibili nell’ attore americano, quello europeo, e un ultimo relativo alla diversità di vettori racchiusi nel concetto geopolitico di “Mediterraneo Allargato”
Finora gli autori si sono dedicati a ricostruire le costanti storiche e culturali che hanno imposto all’Italia un certo ruolo dal punto di vista internazionale. Nulla, però, è stato detto in merito agli elementi, le variabili e i fattori che, dal basso, si sommano per dare vita alle decisioni di politica estera. L’obiettivo dell’intero quarto capitolo, infatti, è proprio ricercare quei modelli e quelle teorie che spiegherebbero come mai l’Italia assuma una precisa posizione nel sistema internazionale, come si costruiscono le decisioni e come esse vanno interpretate. Nel secondo capitolo si parlava dei processi istituzionali, ma qui ci interessano i meccanismi di fondo.
Le variabili – affermano Diodato e Marchetti – sono tantissime e spesso si mescolano tra fattori esterni ed interni, non rendendo possibile una loro ricostruzione scientifica. Eppure, tra queste, l’unica effettivamente rilevante, tanto da costituire un punto di partenza, sarebbe l’identità nazionale.
Questa è, in parole povere, una costruzione sociale, risultato dell’incrocio di variabili permanenti (storia e geografia di una comunità) con altre di tipo molto più contingente. Secondo la ricostruzione degli autori l’identità nazionale italiana sarebbe estremamente debole e confusa, tanto da non riuscire a generare una postura strategica internazionale stabile e coerente.
Il fatto che la Penisola sia stata storicamente il campo di battaglia per risolvere dispute e conflitti sulla spartizione del potere euro-mediterraneo ha impedito il sedimentarsi di veri sentimenti “italiani”, tanto che i riferimenti storico-culturali a cui ci si può appellare partono dalla gloria dell’Impero Romano, passano per i valori cristiano-cattolici della Chiesa, e arrivano alla potenza marittima della Serenissima Repubblica di Venezia. Se la variabile storica si interseca con quella geografica si comprende ancora meglio l’inesistenza di una solida base identitaria: la posizione centrale dell’Italia nel contesto mediterraneo ha fatto sì che essa fosse un punto di approdo, di passaggio o di conquista per comunità che di base già esistevano ed erano radicate in altre aree del bacino mediterraneo: si può parlare di greci, arabi, spagnoli, francesi, austriaci ecc. che epoca dopo epoca hanno demolito, costruito e influenzato a modo loro la vita sulla Penisola.
Sarebbe, però, possibile ricostruire dei modelli che spieghino la politica estera italiana tenendo conto della miriade di fattori e determinanti di cui abbiamo parlato finora?
La risposta è sì, ma, affermano Diodato e Marchetti, non potrà essere unitaria, perché se la politica estera è sicuramente un insieme di fattori esterni e domestici, non si può dire che il punto di intersezione tra questi sia tanto evidente quanto rigido e fisso.
A questo proposito essi riportano tre teorie in grado di interpretare i comportamenti tenuti dalle classi dirigenti italiane nel corso della storia: teoria del “sistema penetrato”, teoria del “gioco a due livelli” e l’ultima relativa al “vincolo esterno”. Non potendo in questa sede ricostruirle, ci basti trovare i punti in comune: in assenza di una solida identità nazionale, l’Italia vedrebbe la propria politica estera influenzata dalla divisione politica interna e dall’ingerenza delle forze straniere. Come, e su quali livelli ciò avvenga, ciascuna teoria lo spiega a modo proprio, ma è importante notare che nessuna di queste è più vera dell’altra. Ciascuna offre la propria interpretazione.
Il risultato è un ruolo internazionale destinato ad essere poco credibile soprattutto sul piano istituzionale nei grandi consessi internazionali. Esiste ancora oggi una certa diffidenza verso il “politico italiano”, poiché è ancora tutto sommato facile attendersi che l’Italia, prima o poi, si discosti dalle posizioni precedentemente prese. Nel sistema internazionale attuale, vincolato dall’Unione Europea, dall’Alleanza Atlantica, e dalle Nazioni Unite non si possono prospettare grossi voltafaccia, per cui è improbabile che l’Italia si trovi ad allontanarsi di colpo da questi consessi. Più plausibile, invece, che Roma si muova come una mina vagante all’interno del perimetro delineato sopra, poiché esso racchiude una varietà di attori tale che la politica estera italiana avrebbe comunque una maglia piuttosto larga entro cui muoversi a seconda di come interagiscono le determinanti interne ed esterne.
Ancora, se gli autori mostrano una spiccata precisione nel delineare le pecche del sistema istituzionale italiano, dall’altro lato manifestano grande lucidità nel trattare la questione delle risorse strategiche.
Postura strategica e politica estera dipendono moltissimo dalle risorse e dalla capacità di sfruttarle. L’Italia è priva di risorse naturali ed energetiche (gas naturale, petrolio, carbone o uranio), ma si dimostra piuttosto competitiva nel settore della manifattura e della lavorazione, contribuendo con un peso rilevante al mercato internazionale. I numeri ci dicono che la Penisola rappresenta una potenza economica molto più che politica, dal momento che l’influenza sarebbe più evidente nei settori economici piuttosto che diplomatici. Un altro aspetto, invece, rimarcato molto bene dagli autori, riguarda il soft power italiano. La rilevanza dei patrimoni culturali, storici, linguistici, culinari ed artistici rende l’Italia un magnete per i flussi provenienti dall’estero. Se, quindi, la credibilità istituzionale è mutilata, a fare da contraltare ci pensa l’immenso potere attrattivo rappresentato da ciò che il territorio ha da offrire sotto punti di vista turistici, culturali ed artistici. Si tratta di una risorsa (per certi versi) immateriale e difficile da regolare in maniera unitaria, ma idonea ad attribuire un’immagine positiva e credibile all’Italia nel contesto internazionale.
La stessa posizione nel Mar Mediterraneo garantisce un’evidente centralità, favorendo un magnetismo forte per i flussi di persone, ma da sfruttare ugualmente anche per quelli di capitale e di risorse. La credibilità italiana sotto la lente del soft power è dimostrata anche dall’abilità comunicativa tipica dell’”italiano”, calorosa ed empatica, in grado di stabilire un contatto umano anche nell’ambito militare. Al di là delle missioni di peace keeping, un settore in cui l’Italia ha manifestato sincero interesse, quelle addestrative mettono in mostra l’abilità italiana nel costruire un dialogo positivo e affidabile, ampliando il perimetro del soft power.
Le risorse, insomma, non mancano all’Italia. Ciò di cui essa abbisogna, al contrario, è di riscoprire la propria vera identità, in modo da trovare una postura ed un carattere solidi e stabili agli occhi degli attori internazionali. Si tratta, tuttavia, di uno sforzo gigantesco e tendenzialmente utopico.
Gli autori, infine, dedicano l’ultimo capitolo ad una rassegna dei principali attori con i quali la politica estera italiana è solita rapportarsi o con cui condivide un’importante trascorso storico. Costoro sono nove, tra cui sette Stati e due organizzazioni internazionali: Unione Europea, NATO, Francia, Germania, Regno Unito, Stati Uniti, Santa Sede, Cina e Russia.
Per ciascuno di questi viene riportato un breve excursus storico, l’andamento della condizione economica, e la situazione relativa all’attualità e alla sicurezza.
Questi rappresentano, dunque, i partner, gli alleati o i competitors italiani più rilevanti dal punto di vista della politica estera, i cui rapporti con l’Italia, se approfonditi, permettono di comprendere ancora meglio le modalità attraverso cui Roma si relaziona con ciascuno di questi, e come le conseguenze di tali interazioni possano riverberarsi sul sistema internazionale.
Il vitale contributo di Marchetti e Diodato, dunque, si realizza nell’aver prodotto un innovativo esperimento di ricerca politologica e storica.
Basandosi su una cospicua bibliografia, essi stessi affermano che non esistono tentativi simili nella nostra letteratura, invitando a seguire le orme da loro segnate al fine di approfondire ulteriormente le questioni legate alla politica estera italiana. Nonostante sia da inquadrarsi come un primo tentativo accademico, questo lavoro getta delle solidissime fondamenta per chiunque voglia addentrarsi nel complessissimo mondo della politica estera italiana.
Considerata la fluidità e l’imprevedibilità delle relazioni internazionali contemporanee, il punto di partenza per eccellenza è capire sé stessi prima di capire gli altri. A questo proposito, il manuale di politica estera qui proposto coglie nel segno la problematica e lancia un segnale d’allarme chiaro: l’Italia ha un urgente bisogno di ri-trovarsi e ri-scoprirsi.
Solo dopo aver costruito una propria identità Roma potrà pensare di buttarsi nel mare di squali delle relazioni internazionali e ritagliarsi una posizione che sia veramente sua.
Se rinunciasse, o fallisse, si troverebbe nuovamente succube delle decisioni altrui, volgendosi da una parte o dall’altra a seconda di chi è in grado di esercitare maggiore influenza: Ma in una scacchiera internazionale ove i rapporti di forza sono in costante mutamento non si può avere l’assoluta certezza di aver scelto lo schieramento migliore.
Manuale di politica estera italiana – Il Mulino, 2023 – ISBN 978-88-15-29916-1 – pp 256
Indice del volume: Premessa. – Sigle. – I. Introduzione all’analisi della politica estera. – II. Attori e processi. – III. Giunture critiche. – IV. Interpretazioni teoriche. – V. Scelte e risorse strategiche della politica estera italiana. – VI. Schede paese. – Riferimenti bibliografici. – Indici.
Emidio Diodato è professore ordinario di Scienza politica presso l’Università per Stranieri di Perugia, dove insegna Politica comparata e Politica internazionale. È chair dello Standing Group Relazioni internazionali (SGRI) della SISP. Sul tema della politica estera dell’Italia ha pubblicato «Il vincolo esterno» (Mimesis, 2014), «L’Italia e la politica internazionale» (Carocci, 2020), per l’editore Palgrave: «Italy in International Relations. The foreign policy conundrum» (2017) e «Berlusconi ‘The Diplomat’. Populism and foreign policy in Italy» (2019).
Raffaele Marchetti è professore ordinario di Scienza politica presso la Luiss Guido Carli, dove insegna Relazioni internazionali. È membro del comitato scientifico del NATO Defence College e del Finnish Institute of International Affairs. È editor della serie Routledge Innovations in International Affairs; ha pubblicato con editori italiani (Luiss UP, Mondadori, Egea) e stranieri (Cambridge UP, University of Michigan Press, Routledge, United Nations UP, Palgrave). Sul tema della politica estera italiana si ricorda il suo «La diplomazia ibrida italiana» (Mondadori, 2017).
L’autore della recensione – Marco Centaro – Laurea Triennale in Scienze per l’Investigazione e la Sicurezza con tesi su Travel Security, conseguita presso Università degli Studi di Perugia. Attualmente studente magistrale in Investigazione, Criminalità e Sicurezza Internazionale, presso l’Università degli Studi Internazionali di Roma., collabora con Vision & Global Trends International Institute for Global Analyses, nell’ambito del progetto Società Italiana di Geopolitica.