Autore: Marco Giaconi – 06/06/2019
Il volume a cura di Giuseppe Gagliano, “Guerra economica, cognitiva, dell’informazione, lo stato dell’arte”, edito da GoWare, Firenze, nel 2019, è un testo utilissimo per studiare e definire tutte le questioni relative alla guerra economica e all’insieme delle altre forme di quella che, non molti anni fa, si definiva ancora “guerra non-ortodossa”.
Il tema primario, per molti dei collaboratori del volume, e per lo stesso Gagliano, è l’effetto strategico e la vera natura della cosiddetta “globalizzazione”.
Per molti analisti che hanno partecipato alla stesura del volume, la globalizzazione è stata il tentativo nordamericano di unificare il mondo dopo la fine del Patto di Varsavia, con l’imposizione morbida, ma rapida, di un modello Usa in cui la liberalizzazione degli scambi era alla base del “mondo nuovo” della democrazia globale e dello sviluppo economico universale.
Tutto un automatismo, quindi: mondializzazione economica, liberalizzazione degli scambi, democrazia universale e diritti umani ovunque. Troppe “mani invisibili”, il mondo non funziona così.
Certo, la Russia, con la fine del regime del PCUS, era caduta nell’inferno di una crisi economica e sociale degna di una guerra perduta (che infatti tale era) e gli Usa avrebbero gestito la sua nuova dimensione di potenza regionale, come per i Paesi che avevano perduto la Seconda Guerra Mondiale, ma l’eccesso di estensione, alla base della fine dell’Impero Romano, era dietro l’angolo.
E’ evidente che la americanizzazione totale non è accaduta, né poteva mai accadere.
Il perché si basa, appunto, su una questione di guerra economica: alcune aree del mondo hanno reagito alla americanizzazione-mondializzazione con il mercantilismo. Un mercantilismo selettivo, raggiunto manipolando la moneta oppure facendo dumping salariale, o spostando le loro lavorazioni secondarie alle periferie dei loro piccoli imperi.
Oppure, la stessa unificazione macroeconomica dei fattori produttivi in tutto il mercato-mondo ha creato presto un ulteriore squilibrio, che le forze globalizzanti aumentavano, invece di smorzare.
Nessuno produce agli stessi prezzi, le stesse cose in ogni angolo del mondo. Certo, c’erano i quattrini delle banche Usa, ma, come è accaduto con le “tigri del Sud-est asiatico” o, ripetutamente, con l’Argentina, il dollaro se ne va proprio quando dovrebbe iniziare a fruttare in loco.
Certo, anche gli Usa sono mercantilisti, ma almeno non lo dicono. Certo, anche per sostenere il mito della globalizzazione, ma non solo.
Era questa, peraltro, proprio la linea letterale di Adam Smith nella sua Ricchezza delle Nazioni: si impone il libero mercato ai Paesi che si debbono sconfiggere, ma ci si regola con un sistema mercantile chiuso quando si debbono utilizzare nel proprio Paese i vantaggi del commercio mondiale.
Gli Usa sono aperti quando a loro serve, ma del tutto chiusi al free trade quando non gli occorra o quando il libero commercio favorisce un concorrente. Che oggi è la Cina, ma in futuro sarà l’Europa e, se si risveglieranno sul serio, anche certi Paesi sudamericani o africani.
Altro tema, analizzato da alcuni collaboratori del volume a cura di Gagliano, è quello del doppio deficit Usa, ovvero quello delle partite correnti e quello di bilancio.
E’ ancora la applicazione, questa, di una vecchia battuta di un governatore della FED ai suoi colleghi europei: “il dollaro è la nostra moneta e il vostro problema”.
Un ribasso artificiale del dollaro, quindi, attuato fuori dai criteri soliti e quindi inattaccabile, che modifica tutti i valori del commercio mondiale, favorendo in modo anomalo Washington e danneggiando, di converso, proprio gli alleati tradizionali degli Stati Uniti. Che non si sono risvegliati perché non c’è ancora in vista un sostituto degli Usa che sia meno pericoloso di Washington.
Un problema similare è quello della Germania, con un surplus delle partite correnti che è oggi dell’8,5%, il maggiore del mondo per volume, e probabilmente ancora di più.
E’ questa, infatti, la chiave della sopravvivenza dell’Euro, che durerà tanto quanto la Germania non deciderà di farne a meno, per destabilizzare definitivamente le economie del resto della UE.
Ma non esistono monete senza eserciti, quindi non esiste, per parafrasare un fondamentale testo di Marcello de Cecco, una moneta “senza impero”.
E’ evidente, da tutto quello che ci spiegano i collaboratori del volume curato da Gagliano, che uno dei piani fondamentali per la guerra economica è quello della manipolazione della propria moneta, o dell’obbligazione ad usarla fuori dai confini nazionali.
Ma la reazione alla globalizzazione è stata, come dicevamo, il neo-mercantilismo periferico, ovvero la chiusura selettiva di alcuni Paesi al mercato-mondo. Chiusura che, comunque, permette anche le loro attività di attacco sui mercati.
E’ qui che si distende tutta la panoplia delle operazioni di guerra economica, uno dei termini-chiave di tutto il testo.
Che non è mai, come sostiene giustamente Gagliano, solo la guerra indiretta che utilizza strumenti economici, ma è sempre anche guerra dell’informazione, guerra psicologica, guerra culturale.
La tradizione a cui si rifà Giuseppe Gagliano è infatti quella della École de Guerre Économique, l’istituzione nata in Francia alla fine degli anni ’90, quelli appunto del mito della globalizzazione, dopo che il governo di Parigi aveva percepito esattamente l’asimmetria del processo di americanizzazione e la progressiva perdita di potere delle economie nazionali europee. E il fatto, poi, che Washington, oggi, gioca da sola.
Una cultura operativa, quella di Christian Harbulot e dei suoi colleghi, che privilegia la distribuzione del potere nel tempo, il potere, dice Harbulot, “c’est de la piussance qui prend son temps”.
Non è quindi il potere solo una contro-potenza, esso non si definisce solo in rapporto all’altro, e cambia anche di natura in rapporto al livello tecnico di un Paese.
L’intelligence, in questo senso, è il campo elettivo di applicazione della guerra economica, ma anche della guerra dell’informazione, cognitiva e, aggiungeremmo ancora noi, culturale.
Senza Hollywood il potere americano sarebbe molto meno efficace, senza un certo paradigma dei consumi l’Occidente sarebbe molto meno attraente per le popolazioni migranti del Terzo Mondo. Senza la cultura pop l’egemonia anglosassone oggi non esisterebbe, senza il residuo prestigio delle sue opere d’arte l’Italia sarebbe ancora meno importante di quanto oggi non sia.
Quello che colpisce, però, è che questa globalizzazione non ha un più modello culturale “alto”.
Tutto è finito, come dicono alcuni analisti nel Volume, con Francis Fukuyama e la sua “fine della Storia”.
Ma c‘è stata anche l’analisi, meno ingenua e propagandistica, di Anthony Giddens o di Friedman.
Dopo, la globalizzazione è diventata o pura tecnica finanziaria, oppure ciarpame pop.
In termini più tecnici, la finanza globale ha diffuso nel globo i suoi prodotti derivati, elaborati da algoritmi che sono infinitamente più veloci del totale delle transazioni reali, oppure ha creato crisi politiche, più o meno artificiali, in funzione dei programmi di alcune grandi potenze.
Si pensi, qui, all’aumento globale dei prezzi delle granaglie, proprio prima della elaborazione statunitense delle “primavere arabe”.
Che sono, in effetti, un bell’esempio di guerra economica, dell’informazione e culturale insieme.
Un vice-direttore della CIA, in un suo volume di memorie, ha detto, infatti, che le “primavere” erano state elaborate “per fare in modo che le rivolte popolari emarginassero Al Qa’eda”.
Ma, proprio in quel momento, la Fratellanza Musulmana ebbe pieno accesso a quelle tecniche di destabilizzazione pacifica che i ragazzi serbi di OTPOR avevano già imparato nei sotterranei della missione diplomatica Usa di Budapest, con la sorella dell’allora (e oggi) capo di Al Qa’eda Ayman al Zawahiri che manifesta “per la democrazia” in Piazza Tahrir al Cairo, e anche la guardia armata della Fratellanza che protegge i manifestanti, tra i quali spicca il capo di Google in Egitto.
Poi, a seguire, dopo il “bagno” finanziario per i Paesi del Maghreb, arriva la mitologia culturale della lotta contro il “Tiranno”, un concetto estraneo alla cultura politica islamica, ma che è ben noto agli occidentali.
Alberto Savinio diceva che il Tyrannos era, nella prima antichità greca, “il custode dei formaggi”.
Ma tutto ciò funziona, poco comunque, come elemento pubblicitario presso la popolazione occidentale. Già addestrata a definire ogni cosa secondo il meccanismo oppositivo democrazia-Male.
E, poi, così come esiste una “mano invisibile” nei mercati, esiste, oggi, una mano invisibile nella comunicazione e nella politica estera.
E così, immediatamente dopo aver ucciso il “tiranno”, i popoli egiziani, tunisini, libici rimangono completamente soli. Ma con il jihad della spada in casa, che è quello strumento geopolitico che chiude le aree instabili del pianeta: la Cina, il nesso Afghanistan-Iran, lo Yemen, l’Africa non ancora presa dalla Cina o da altri.
Altro problema, che pure ha un effetto in politica internazionale e in intelligence, è quello delle sempre più numerose economie export-led.
Con le monete ideali e multinazionali, come l’Euro, le economie tese all’esportazione funzionano sempre male, a meno che non riescano a gestire il “doppio deficit” come gli Usa: l’Euro è poco più, infatti, di una moneta di conto, non essendo lender of last resort, e favorisce oggi solo la Germania, che intanto ha il suo surplus commerciale illegale, che nessuno denuncia nelle sedi appropriate.
La Cina, altra economia export led, tiene bassissimo, artificialmente, il suo yuan, come fa anche il detentore del primo debito pubblico al mondo, il Giappone, con l’assonante yen.
E questo seziona, progressivamente, tutto il mercato-mondo: la Francia mantiene e, anzi, rafforza la sua mano sull’Africa, con la proprietà di molti dei principali porti sulle coste del Continente Nero, il che la spinge contro gli Usa ma anche contro la Cina, che è penetrata in gran parte dell’Africa orientale e centrale e anche nella Federazione Sudafricana.
Gli Usa stanno abbandonando l’UE, vista come concorrente globale e monetario, nella speranza che salti in aria insieme al suo Euro, ma che salti anche la NATO, verso la quale il Presidente Trump non nutre particolare interesse.
Ma basterà l’area della vecchia Dottrina Monroe, nata nel 1823, a sostituire, per gli Usa, una Europa che sarà sempre più lontana da loro ma alla quale, comunque, sarà proibito di unirsi allo Hearthland russo-cinese?
Ecco una domanda possibile per il prossimo futuro.
E basterà la Rete, il World Wide Web, a trasformare la diffusione dei propri dati, che oggi è per lo più propagandistica e di massa, in azione seria di intelligence culturale e dell’informazione valida anche per la ruling class? Altra domanda.
E, quando la Cina smetterà di essere una economia solo export-led, come già sembra che accada oggi, come utilizzerà il suo potenziale economico?
Certo, per eguagliare gli Usa, che uniscono una forte spesa militare ad un pesante sostegno alle proprie imprese, ma reggerà poi il mondo a un potere globale conteso tra soli due Paesi? Sarà una “concorrenza pacifica”?
Ecco una ulteriore domanda.
E infine, cosa ne sarà dell’Europa? Senza di essa, i Paesi più deboli, come il nostro, rischiano un futuro da Andorra, ma con una UE a guida franco-tedesca (o solo germanica) l’Italia rischia lo stesso un futuro da Slovenia o, peggio, da Paese del Maghreb.
Un volume, quello curato da Giuseppe Gagliano, non solo da studiare attentamente ma da utilizzare a piene mani per ogni scelta geopolitica razionale.
L’Autore della recensione: Marco Giaconi è stato allievo della Scuola Normale Superiore e ricercatore nel Dipartimento di Political and Social Sciences dell’Istituto Universitario Europeo di San Domenico di Fiesole. Ha insegnato all’Università di Zurigo e presso varie Università italiane; ha tenuto corsi presso l’Istituto di Guerra Marittima di Livorno. Ha diretto ricerche presso il Centro Militare di Studi Strategici di Roma e collabora con il Ministero della Difesa. È membro del Comitato Scientifico del CESDIS di Torino, collaboratore dell’International Center for Intelligence Studies di Parigi, è stato membro dell’Istrid e consulente, per la strategia globale, di importanti aziende italiane. È stato collaboratore come docente presso il Master sull’area mediterranea organizzato dall’Università San Pio V di Roma .È attualmente docente allo Iaasp di Milano. Tra i suoi testi: Le Organizzazioni Criminali Internazionali, Aspetti geostrategici e economici, Roma, Franco Angeli Editore, collana CeMiSS, 2001; Maghreb AlAqsa, L’Estremo Occidente, Roma, CeMiSS Papers, 2001; Israele, dottrine e strategie, Firenze ISPEI 1999; Questioni di strategia, Firenze, ISPEI 2000.
Marco Giaconi è stato allievo della Scuola Normale Superiore e ricercatore nel Dipartimento di Political and Social Sciences dell’Istituto Universitario Europeo di San Domenico di Fiesole. Ha insegnato all’Università di Zurigo e presso varie Università italiane; ha tenuto corsi presso l’Istituto di Guerra Marittima di Livorno. Ha diretto ricerche presso il Centro Militare di Studi Strategici di Roma e collabora con il Ministero della Difesa. È membro del Comitato Scientifico del CESDIS di Torino, collaboratore dell’International Center for Intelligence Studies di Parigi, è stato membro dell’Istrid e consulente, per la strategia globale, di importanti aziende italiane. È stato collaboratore come docente presso il Master sull’area mediterranea organizzato dall’Università San Pio V di Roma .È attualmente docente allo Iaasp di Milano. Tra i suoi testi: Le Organizzazioni Criminali Internazionali, Aspetti geostrategici e economici, Roma, Franco Angeli Editore, collana CeMiSS, 2001; Maghreb AlAqsa, L’Estremo Occidente, Roma, CeMiSS Papers, 2001; Israele, dottrine e strategie, Firenze ISPEI 1999; Questioni di strategia, Firenze, ISPEI 2000.
Guerra economica, cognitiva, dell’informazione. Lo stato dell’arte, a cura di Giuseppe Gagliano Goware 2019 – Collana eBook, In evidenza, Politica e società
Giuseppe Gagliano si è laureato in Filosofia presso l’Università statale di Milano. Attualmente è presidente del Cestudec (Center for Strategic Studies Carlo De Cristoforis). Ha collaborato e collabora con periodici e riviste di tutto il mondo. Ha moltissime pubblicazioni al suo attivo. Con goWare ha pubblicato nel 2018 Guerra economica. Stato e impresa nei nuovi scenari internazionali; Simone Weil. Scritti sulla situazione in Germania e le origini del totalitarismo; Riscoprire la Scuola Austriaca di economia (con Guglielmo Piombini) e Guerra economica. Guerra della informazione.