Autore: Filippo Fabbri – 02/12/2024
L’economia cinese nel pensiero di Alberto Gabriele – recensione a cura di Filippo Fabbri
La premessa paradigmatica e, allo stesso tempo, il filo rosso programmatico che percorre la totalità del testo “L’Economia Cinese Contemporanea. Imprese, industria e innovazione da Deng a Xi” (Diarkos, 2024 – ISBN 9788836163687) di Alberto Gabriele riguarda un rifiuto dell’approccio dicotomico e manicheo che ha sostanziato il dibattito intorno alla natura del sistema economico cinese a partire dall’inizio della fase di Riforma e Apertura, inaugurata da Deng Xiaoping ormai quattro decadi orsono.
La via ibrida, sincretica, fondata sulle caratteristiche storiche e sulla condizione delle forze produttive della Repubblica Popolare Cinese (RPC) nel periodo immediatamente successivo agli sconvolgimenti sociali, legali ed economici della Rivoluzione Culturale, è stata egregiamente delineata in modo induttivo da Gabriele, attraverso l’immagine diacronica offerta sulla natura delle imprese agrarie e industriali, nonché mediante la descrizione dei meccanismi coinvolti nel Sistema nazionale di innovazione (Sni). Tale prospettiva propone un approccio ermeneutico di cruciale rilevanza per lo studio delle prossime politiche di Pechino, soprattutto alla luce dell’involuzione jacksoniana riproposta dal presidente eletto degli Stati Uniti, Donald Trump Jr.
La distinzione polare tra capitalismo e socialismo di stampo marxista-leninista, infatti, risulta una delle dipodie interpretative emerse dalla tradizione di pensiero economico politico europeo, incastonate nelle categorie della politica internazionale dal gioco a somma zero della Guerra Fredda. La weltanshauung risultante da millenni di conflitti per il controllo dell’area geografica chiamata China proper è da considerarsi completamente autocefala e fondata su direttrici autoctone, prive di punti di contatto rilevanti con il percorso di sviluppo occidentale salvo le ferite indelebili risultanti dal fuoco anglo-europeo sulle città cinesi del 19° Secolo.
È estremamente importante riconoscere lo sforzo compiuto dagli stessi attori rilevanti provenienti dall’humus culturale sinofono, per rivendicare, in modo non-polemogeno, il potenziale innovativo frutto della funzione creativa poggiata sulla millenaria cultura cinese.
In questo filone è impossibile non citare il lavoro di Wang Hui, autore icastico della Nuova Sinistra nata nella Pechino post-Tiananmen, in critica al paradigma binario da cui sono affette le principali scuole di sinologia globali. Il vissuto storico della civiltà cinese, argomenta Hui, può essere interpretato solo seguendo la strada indicata dai pensatori precipui per la comprensione della visione del mondo cinese: interpretandola da una prospettiva e da un orizzonte interno (neizai shiye) in dialogo costante con le categorie della Cina contemporanea. I principali sistemi di pensiero all’interno del dominio storico, geografico e culturale cinese non coesistono polarmente in una logomachia costante ma sono interconnessi e compenetranti in modo che gli aspetti unipolari di ognuno siano indeboliti, nella formazione di una molteplicità di manifestazioni di un’unica unicità che è il pensiero cinese. Alla luce di questo sincretismo caratterizzante, Hui definisce quella cinese una “società transsistemica” (kuatixi shehui) in continuo movimento di sinizzazione (Zhongguohua), continuamente diventando la Cina attraverso il superamento dialettico delle contraddizioni fra i sistemi interconnessi.[1]
Inoltre, come per ogni altro sistema fortemente gerarchizzato e istituzionalmente opaco verso l’esterno, ai fini di interpretare le direzioni politiche del Partito Comunista Cinese (PCC), è ancora fondamentale analizzare pedissequamente le dichiarazioni della dirigenza politica. Nella fitta selva formulaica della produzione orale e scritta di Xi Jinping, infatti, è possibile leggere un’esplicita volontà informativa riguardo alle principali linee guida verso il “ringiovanimento della nazione cinese” che la popolazione, dai funzionari di Partito al 93% di non iscritti al PCC, è chiamata ad implementare.
Ciò che è possibile distillare, a fronte di una cogente attenzione alla forma, è la reiterata volontà di tracciare una distinzione fra il percorso economico e sociale della RPC e le varie manifestazioni storiche proto-marxiste cui la storia ha assistito. Il “Socialismo con caratteristiche cinesi per una nuova era” costituisce l’esito di un’analisi scientifica del livello di sviluppo raggiunto dalle forze di produzione cinesi, volto a portare la RPC alla realizzazione di quelli che, in base alle proprie caratteristiche inedite, ne costituiscono gli obiettivi di modernizzazione socialista.[2] Questi sono cristallizzati nella formula dei “due centenari”: la “costruzione di una società moderatamente prospera sotto ogni aspetto”, dichiarato raggiunto in occasione del centenario della fondazione del PCC nel 2021, e la realizzazione di un paese socialista “moderno, prospero, forte, democratico, culturalmente avanzato e armonioso”[3] entro quello della proclamazione della RPC nel 2049.
Nelle parole di Xi sono combinati, dunque, due punti che non possono essere dimenticati dagli analisti occidentali: la preponderanza delle caratteristiche storiche, geografiche, culturali e demografiche cinesi per la produzione tendente all’autocefalo del modello socioeconomico della RPC, e la volontà di rifiutare l’accusa di abbandono alle forze di mercato, con la riconferma lessicale del Marxismo come unico interlocutore ideologico del Partito.
Entrambi questi unica sono riconfermati dal lavoro di Gabriele sui funzionamenti concreti dell’interazione fra Stato e sfera economica nella RPC. D’altra parte, proprio il core leader dell’attuale generazione politica del PCC ha confermato che l’approccio corretto per l’applicazione del Marxismo alla realtà cinese consiste nel mantenere salda la strategia, denotata dal Partito sulla base del principio costituzionale di “mantenere salda la via socialista”. Tale strategia si fonda sulla relazione dialettica con le tattiche, mutevoli nel tempo e nello spazio, attuate per perseguirla[4]. Un meccanismo fondato sulla nozione di storia teleologica e materialista di stampo marxiano. Ciò è in continuità con il lessico e il modus operandi dimostrato da Deng Xiaoping, Jiang Zemin e Hu Jintao.
Ciò che distingue l’operato di Xi, come si evince dall’analisi di Gabriele, è una netta inversione di rotta rispetto alla briglia sciolta concessa in passato alla centralità del libero perseguimento dell’iniziativa privata, inaugurata con l’inserimento delle élite imprenditoriali fra le rappresentanze del Partito da parte di Jiang Zemin. L’attuale segretario generale ha, invece, ristabilito il primato della politica, tradotto in una simbiosi operativa tra lo Stato e le principali eccellenze industriali cinesi, costringendole ad allinearsi alle priorità stabilite dal Partito. La direzione programmatica diramata a chiusura del Terzo Plenum del XX° Comitato Centrale del PCC, stabilisce la necessità di disciplinare adeguatamente le “nuove forze di produzione di qualità”, come priorità per raggiungere l’obiettivo di una modernizzazione sostenibile, ma soprattutto autarchica.
La struttura economica e sociale della RPC
La parte introduttiva analizza alcune tendenze strutturali del periodo di Riforma e Apertura, evidenziando la straordinaria crescita economica della Cina dal 1977 a oggi. Questo sviluppo si è tradotto in un boom industriale, che ha portato la quota industriale al 40% del PIL, successivamente superata dai servizi, mentre l’agricoltura ha registrato un declino costante. Sul piano finanziario, nonostante un settore dominato da grandi banche pubbliche e un mercato azionario instabile, la Cina ha mostrato resilienza, grazie alla distribuzione di crediti a governi e imprese statali, e al consolidamento di industrie strategiche, senza escludere un settore privato dinamico e innovativo.
Le politiche di Riforma e Apertura hanno attratto capitale estero, favorito lo sviluppo di catene produttive sofisticate e consentito il trasferimento tecnologico imponendo joint ventures e investimenti esteri di tipo greenfield. Questo ha stimolato la competizione interna e incentivato le aziende domestiche a investire in ricerca e sviluppo. Tuttavia, l’espansione economica ha evidenziato problemi come l’accumulo di debito e una bolla immobiliare, aggravati negli ultimi anni da una crescente centralizzazione del potere politico in risposta a questioni di sicurezza.
Sul piano sociale, la crescita economica ha aumentato le disuguaglianze, soprattutto tra aree urbane e rurali, ma l’ultimo decennio ha visto una lieve riduzione del coefficiente di Gini, grazie alle iniziative per la “prosperità comune”. Tuttavia, riforme fiscali significative sono state evitate, e la priorità del governo è ora rivolta alla sicurezza.
Infine, il progresso umano è stato eccezionale: il tasso di crescita dell’Indice di Sviluppo Umano (HDI) cinese è stato il più alto tra i Paesi con HDI elevato, e l’aspettativa di vita in Cina ha superato quella degli Stati Uniti dopo il 2019, nonostante il PIL pro capite americano sia nettamente superiore.
Questo quadro complessivo evidenzia le straordinarie conquiste e le sfide ancora aperte del modello cinese. Propedeutica sulla strada per tali risultati, la realizzazione della leadership politica dei danni compiuti dagli eccessi mercantilisti nella sfera sociale e dal ripiegamento del settore pubblico ha portato a un rafforzamento della safety net di previdenza sociale, per quanto permanga una dottrina economica dominante contraria ad egalitarismo e “welfarism”.[5]
Le imprese non capitaliste orientate al mercato
Il primo capitolo è dedicato all’analisi della struttura dei diritti di proprietà relativi ai mezzi di produzione, elemento che, insieme a una molteplicità di fattori quali i meccanismi di pianificazione e il Sistema Nazionale di Innovazione, distingue il modello cinese da quello occidentale. In Cina, infatti, la dinamica economica si discosta dalla dottrina marxista che identifica una coincidenza tra le imprese “produttive” e quelle private, in cui il plusvalore è raccolto dai capitalisti.
Il cambiamento paradigmatico si è concretizzato nel passaggio da un sistema basato esclusivamente su imprese di proprietà statale o collettiva (le imprese statali, o IS) — caratterizzate da un minimo orientamento al mercato, una posizione quasi monopolistica in mercati regolamentati e una scarsa autonomia decisionale — alla creazione di una nuova categoria: le “imprese non capitaliste orientate al mercato” (INCOM). Questa categoria include sia le IS sia una nuova classe di imprese ibride, le “imprese a partecipazione statale” (IPS).
Le IS, tradizionalmente focalizzate sulla gestione di servizi infrastrutturali in mercati monopolistici o oligopolistici, condividono con le IPS l’assenza di una finalità strettamente lucrativa. Tuttavia, le IPS operano in mercati competitivi e perseguono una molteplicità di obiettivi strategici, tra cui la promozione della ricerca e sviluppo (R&S), il progresso tecnologico e il rafforzamento della sicurezza nazionale, obiettivi che rispondono alle recenti esigenze autarchiche in ambito tecnologico.
Nella prima fase post-riforma, molte IS furono convertite in INCOM, con una diffusione che abbracciava inizialmente il settore agricolo e successivamente quelli industriale e dei servizi. Queste imprese hanno rappresentato, senza dubbio, la spina dorsale della crescita economica senza precedenti della Repubblica Popolare Cinese. In seguito, la promozione del settore privato ha ridotto il peso delle INCOM, le quali sono tornate al centro delle strategie economiche del governo a partire dalla seconda metà del decennio scorso.
Le imprese rurali agricole e industriali
Il primo passo precipuo verso il “Socialismo con caratteristiche cinesi” fu la riforma della produzione agricola, essenziale sia per il peso demografico del settore – la maggioranza dei cinesi viveva in aree rurali – sia per l’avvio del ciclo di accumulazione necessario alle successive riforme industriali e urbane.
Le riforme smantellarono le comuni agricole, inefficienti per il mercato interno, sostituendole con “aziende agricole familiari”. Queste mantenevano i terreni di proprietà statale, concessi in locazione ai contadini, che potevano gestire direttamente la produzione, vendere l’eccedenza sul mercato o autoconsumarla, pur rispettando le quote obbligatorie destinate allo Stato. Sebbene normative più flessibili abbiano permesso l’ascesa di imprese agroindustriali private, la maggior parte della terra è ancora lavorata con questo sistema, mentre lo Stato controlla formalmente i terreni e investe in infrastrutture e innovazione.
Le riforme agricole alimentarono la crescita industriale grazie alla redistribuzione delle risorse, ma lo smantellamento delle comuni causò il crollo del sistema sanitario universale che garantivano. Nonostante il ritorno dello Stato nelle politiche sociali, il sistema sanitario rimane carente.
Un legame diretto con le riforme industriali si trova nelle “imprese municipali e di villaggio” (Imv), evoluzione industriale delle comuni. Favorita dall’accumulazione di capitale agricolo e dalla gestione locale, questa struttura cooperativa crebbe rapidamente grazie a una maggiore flessibilità rispetto alle imprese statali (Is) e all’uso efficiente della manodopera. Tuttavia, dalla metà degli anni ’90, le Imv vennero privatizzate o ristrutturate in imprese private a causa dell’attenzione crescente per gli investimenti privati e la riduzione di fattori contingenti che avevano favorito il loro successo iniziale.
Le riforme dell’industria statale: “Afferra il grande e lascia andare il piccolo”
Il problema improrogabile aperto dalla prima fase della stagione rivoluzionaria riguardò la debacle delle Is, incapaci di contrastare la spinta competitiva all’efficienza e all’innovazione generata dalle nuove aziende. Infatti, il numero di imprese industriali crebbe esponenzialmente a partire dai primi anni ’80. A fronte di ciò, le disfunzionali, centralizzate e pianificate Is – per quanto costanti in termini numerici – diminuirono il peso relativo sulla produzione lorda, a fronte di un aumento del ruolo dell’industria privata.
Il PCC tentò non tanto di eliminare definitivamente il ruolo dello Stato nella sfera economica, quanto di elidere le contraddizioni tra le dinamiche di mercato e un sistema socialista che era importante aggiornare, in conformazione alle necessità e alle caratteristiche della Repubblica Popolare.
Un primo tentativo nel percorso di trial and error fu il sistema contrattuale: “alcune Is cominciarono a emettere azioni, e molte delle più piccolo furono affittate o appaltate a collettivi e individui.” Per quanto vennero raggiunti risultati in termini di decentramento di decisioni imprenditoriali, il sistema dei contratti non risolse la mancanza di autonomia aziendale e rese molto meno in ambito industriale rispetto a quello agricolo.
La direzione presa fu quella della radicalizzazione delle precedenti indicazioni, cristallizzata nello slogan “Afferra il grande e lascia andare il piccolo” (zhuādà fàngxiǎo), originato – come molti altri meccanismi istituzionali – da governi locali. L’attuazione di questa massima ha portato ad una progressiva riduzione del numero di Is a fronte di una privatizzazione delle più piccole, a livello locale, e dell’aumento della dimensione e capitalizzazione delle restanti.
Apice di tale processo è stata la creazione della “Commissione per la vigilanza e l’amministrazione delle attività statali° nel 2003, volta a rendere più efficiente l’assetto istituzionale delle Is attraverso la gestione dei beni pubblici investiti in esse dal governo centrale. Si tratta di una rinuncia al micromanagement delle Is da parte del governo centrale.
Le tendenze recenti nella riforma delle imprese industriali
Le riforme del settore pubblico cinese mirano a migliorare efficienza e produttività delle imprese statali (Is) e a partecipazione statale (Incom), conosciute collettivamente come Isps. La tassonomia delle Isps distingue tra imprese “di interesse pubblico,” che privilegiano benefici sociali, e quelle “di interesse commerciale,” che operano in mercati competitivi perseguendo obiettivi strategici oltre al profitto.
Sotto Xi Jinping, la riforma della governance aziendale ha favorito una maggiore aziendalizzazione delle Isps, bilanciando l’autonomia manageriale con aperture al capitale privato. Le Incom restano centrali, controllando gran parte del capitale investito e della produzione industriale, nonostante il crescente ruolo del settore privato, protagonista di innovazione tecnologica e strategica.
A dispetto delle critiche occidentali, il sistema economico cinese si configura come un capitalismo di Stato coerente con l’orientamento socialista del PCC. Lo Stato mantiene un ruolo dominante, riaffermato nei Congressi XIX e XX del PCC, per garantire sicurezza nazionale, innovazione tecnologica e sostenibilità economica ed ecologica. Le SOE (imprese statali) svolgono ruoli strategici: infrastrutture a bassa redditività per sostenere lo sviluppo e oligopoli orientati a creare campioni nazionali competitivi.
Le Isps agiscono come stabilizzatori economici e investitori di ultima istanza, contribuendo alla crescita a lungo termine. Per massimizzare la ricchezza pubblica, è essenziale redistribuire i dividendi verso obiettivi sociali e di sviluppo, evitando concentrazioni di risorse in interessi personali o limitati.
Il Sistema Nazionale di Innovazione
Il secondo capitolo analizza i risultati straordinari raggiunti dal Sistema nazionale di innovazione (Sni) della Cina, unico tra le economie emergenti. Dal periodo delle riforme degli anni ’80, la Cina ha creato un ecosistema innovativo in grado di competere con gli Stati Uniti, soprattutto nell’ambito strategico della transizione energetica. Due fattori chiave hanno favorito questo successo: la vastità della popolazione, che sostiene un robusto ambiente di ricerca, e la direzione socialista di mercato guidata dal PCC, che ha concentrato capitale su obiettivi strategici per la produttività e la sicurezza nazionale.
Il progresso cinese va letto nel contesto del rallentamento dell’innovazione nei paesi occidentali, dove le grandi imprese privilegiano profitti a breve termine in settori maturi, spesso a scapito della capacità di adattarsi alle sfide geopolitiche e ambientali.
L’Sni cinese, ispirato ai modelli occidentali ma adattato alle “caratteristiche cinesi,” si è evoluto in due fasi principali. Negli anni ’80 e ’90, la priorità è stata data a università pubbliche e centri di ricerca (Upcr), sostenuti da programmi statali come gli 863 e Torch, con un approccio orientato alla pratica noto come forward engineering. In seguito, la leadership nell’innovazione si è spostata verso le imprese industriali, con le Isps che hanno sfruttato economie di scala e scopo per raggiungere nuovi traguardi tecnologici.
Tuttavia, il futuro dell’Sni cinese non è privo di sfide. Tra queste figurano l’isolamento tra segmenti produttivi destinati all’export e quelli orientati al mercato interno, la difficoltà ad attrarre talenti globali, e un livello di istruzione medio ancora migliorabile. Inoltre, il rischio di alienazione dalle reti globali dell’innovazione, dovuto a tensioni geopolitiche e timori securitari, rappresenta una minaccia per il suo ulteriore sviluppo.
Piani e imprese
Il Piano quindicennale per la scienza e la tecnologia (2006-2020) è stato una delle principali iniziative del governo cinese per ridurre la dipendenza dall’innovazione straniera. L’obiettivo era aumentare gli investimenti in ricerca e sviluppo (R&S) in rapporto al PIL, raggiungendo livelli paragonabili a Giappone e Stati Uniti entro il 2020, nonostante un PIL pro capite inferiore. La strategia prevedeva una guida politica del PCC per promuovere tecnologie avanzate in settori selezionati, utilizzando le forze di mercato come motore principale.
In questa fase, la Cina ha favorito l’ingresso di transnational corporations (TNC), sfruttando la frammentazione delle catene del valore globale e imponendo trasferimenti di know-how tramite joint ventures. Questo approccio ha portato a accuse di furto tecnologico, in particolare dagli Stati Uniti, ma ha permesso alla Cina di eccellere nell’innovazione incrementale e di processo. Tuttavia, la creazione autonoma di brevetti e la ricerca di base restavano indietro rispetto agli standard globali, eccetto in settori strategici come quelli legati alla transizione energetica.
Per colmare queste lacune, il governo cinese ha lanciato nel 2015 il piano Made in China 2025, mirato alla leadership globale in settori strategici high-tech. Questo piano mira a ridurre la dipendenza estera, assicurando un ruolo di primo piano alla Cina nelle dinamiche competitive internazionali. La sua attuazione prevede un equilibrio tra orientamento al mercato e guida governativa, con il governo che interviene per correggere eventuali squilibri monopolistici o distorsioni legate al profitto.
La gestione della R&S rimane fortemente centralizzata: mentre le imprese private contribuiscono a livelli inferiori, il governo conserva il controllo della ricerca di base attraverso università e centri pubblici d’élite. Il governo considera che l’innovazione radicale in settori strategici non possa essere generata esclusivamente dal mercato e quindi assegna risorse pubbliche per guidare questa fase cruciale dello sviluppo scientifico e tecnologico.
Funziona?
La competizione tecnologica tra Cina e Stati Uniti ha spinto la Repubblica Popolare Cinese (RPC) a intensificare gli investimenti in Ricerca e Sviluppo (R&S), concentrandosi sull’autosufficienza e riducendo la dipendenza esterna. Per garantire il successo, il Sistema nazionale di innovazione (SNI) è stato modellato su una strategia che bilancia centralizzazione e decentramento.
La gestione flessibile è uno dei tratti distintivi di questo approccio. Il governo centrale evita la microgestione trasversale, delegando la gestione di politiche di innovazione in settori non strategici ai livelli gerarchici inferiori, più vicini alle dinamiche di mercato e tecnologiche. Tuttavia, mantiene una gestione centralizzata e top-down in settori che richiedono grandi investimenti e economie di scala. Questo equilibrio ha portato la RPC a raggiungere l’eccellenza globale in aree come i pannelli solari e l’industria automobilistica, favorita dalla quasi monopolistica gestione delle terre rare, fondamentali per la filiera tecnologica.
Un aspetto cruciale del settore tecnologico cinese è il predominio di imprese a proprietà non completamente privata, una scelta strategica del Partito Comunista Cinese (PCC). Molte aziende, come Alibaba, Baidu e Tencent, hanno consolidato la loro posizione interna per poi quotarsi in borse estere, accedendo a capitali e competenze internazionali. Allo stesso tempo, aziende come Huawei, a proprietà collettiva, o Xiaomi, completamente privata ma aderente ai valori patriottici e socialisti, dimostrano che la conformità alle direttive strategiche nazionali rimane prioritaria, specialmente nel quadro del piano Made in China 2025.
La relazione tra il governo e l’emergente classe di tycoon privati rappresenta un ulteriore elemento di interesse. Questi imprenditori, pur avendo un ruolo cruciale nella creazione di strutture globali, operano entro limiti ben definiti dal PCC. La leadership politica si assicura che i loro successi economici non si traducano in un’influenza politica o sociale in grado di sfidare l’egemonia del Partito. Alberto Gabriele, adottando una prospettiva marxista, sostiene che l’assenza di una grande borghesia con dominio politico e militare differenzia il sistema cinese dal capitalismo classico. Questa configurazione unica è descritta come una forma di “socialismo imperfetto sui generis”, che riconosce il valore del privato nell’innovazione ma preserva il controllo statale sulle leve strategiche.
Il governo adotta una logica simbiotica con gli imprenditori: offre loro supporto per crescere e innovare, ma in cambio richiede che il loro sviluppo sia coerente con gli obiettivi nazionali. Solo dopo una selezione “darwiniana” interna, le imprese che si affermano sul mercato devono aderire a linee guida strategiche, contribuendo alla crescita nazionale senza sfidare la centralità politica del PCC.
Questo modello consente di sfruttare le dinamiche di mercato per aumentare l’efficienza, pur mantenendo il controllo statale sulle innovazioni di base e sui settori strategici. Il risultato è un sistema che combina pragmatismo economico e controllo politico, garantendo un equilibrio tra crescita e stabilità nel contesto di una competizione globale sempre più intensa.
Alberto Gabriele, in conclusione, adotta una prospettiva marxista per evidenziare la componente significativamente non marxiana della realizzazione cinese di un socialismo “imperfetto”. In questo modello, non è il detentore delle forze di produzione a plasmare lo Stato in modo da estendere, nella sfera politica, sociale e militare, il dominio esercitato nell’economia. Al contrario, è la leadership politica a perseguire una strategia di sviluppo complessiva che, pur consentendo a “lasciare prima che alcuni diventino ricchi”[6], affida agli strumenti economici più adeguati la guida di tale strategia. Questa è orientata da un interesse nazionale condiviso e supportata dalle leve del capitale pubblico, all’interno del quadro delle imprese statali (ISPs), per promuovere la ricerca di base e favorire innovazioni radicali che sarebbero altrimenti impossibili da raggiungere, date l’avversione al rischio e la prospettiva di profitto a breve o medio termine tipiche degli imprenditori privati.
In questo contesto, il successo imprenditoriale è separato fin dall’inizio da qualsiasi forma di influenza sulla direzione politica e sociale dello Stato, tanto meno sulla natura del progetto socioeconomico. Quest’ultimo, pur rimanendo orientato verso il socialismo, si caratterizza per le sue imperfezioni, come le disuguaglianze accettate dal Partito come prezzo per i vantaggi di efficienza offerti da un’innovazione parzialmente guidata da dinamiche di mercato, in particolare nei settori periferici di basso livello.
La citazione alla “Teoria di Deng Xiaoping” introduce in modo puntuale un ulteriore elemento chiave per il funzionamento del modello descritto. Per evitare un divario eccessivo tra l’élite associata allo Stato nell’impresa securitaria del Sistema nazionale di innovazione (SNI) e il resto della popolazione cinese, si rende necessario l’uso di un sistema fiscale adeguato a fini redistributivi. Questo sistema, solo teorizzato da Deng come fase successiva al principio del “lasciare prima che alcuni diventino ricchi”[7], dovrebbe andare oltre la mera massimizzazione dell’utilità sociale e nazionale del talento di questi pochi privilegiati, perseguendo una più equa redistribuzione delle risorse.
A conclusione del secondo capitolo, il testo esamina l’efficienza degli investimenti statali nel Sistema nazionale di innovazione (SNI) cinese, evidenziando come, pur non essendo i risultati pienamente soddisfacenti, la capacità innovativa della RPC sia significativamente migliorata rispetto ad altre economie in via di sviluppo. Dal 2018, la Cina ha superato l’Unione Europea in termini di spesa per R&S e ha ridotto il divario con gli Stati Uniti, grazie a una crescita economica più rapida. Nonostante le disparità nel PIL pro capite, il progresso della Cina riflette un netto miglioramento nel livello di innovazione rispetto a molte economie occidentali.
La scelta di Gabriele di presentare i tratti salienti dell’Sni come una manifestazione eminente dell’unicità del socialismo con caratteristiche cinesi, si conferma vincente analizzando alcune delle ultime dichiarazioni fatte da Xi sulla strategia economica nazionale, in uscita dal Terzo Plenum ritardato fino all’estate 2024. La strategia di sviluppo basata sull’innovazione è posta a fondamento della modernizzazione cinese. La condizione delle forze di produzione a livello globale è interpretata in una fase di cambiamento paragonabile a una rivoluzione scientifico-tecnologica e conseguenti cambiamenti epocali in ambito industriale. La diffusione di queste “nuove forze di produzione di qualità”, quelle in cui l’innovazione gioca un ruolo determinante, pone proprio nel campo della R&S il neo-identificato “nuovo campo di battaglia della competizione internazionale”. Sarà dovere del Partito, dunque, adeguare la pianificazione strategica a sostegno dell’innovazione, principalmente in termini di miglioramento delle strutture di incentivo per stimolare innovazioni cutting-edge in setting istituzionali avversi al rischio, rafforzamento della tutela della proprietà intellettuale e investimento in programmi di educazione volti alla creazione di talento autoctono. Tali misure, non limitate all’innovazione ma volte anche a rafforzare la manifattura di esportazione in settori ad alto livello tecnologico – primo tra tutti quello delle tecnologie per la transizione green – sono destinate a rinforzare l’accusa di sovraccapacità proveniente da Stati esteri, con conseguenti strategie di dumping in mercati stranieri. Questa dimensione non è attualmente considerata da Pechino come problematica, alla luce di priorità non legate a dinamiche di mercato quali l’autarchia geo-economica a fronte dei colli di bottiglia identificati in settori strategici per la sicurezza nazionale, e il livello di occupazione interno[8]. Infatti, la transizione verso un’economica trainata da settori produttivi ad alto livello tecnologico è stata identificata dal Partito come via d’uscita dalla cosiddetta “trappola del reddito medio”. Questo fenomeno è specificatamente attribuito a economie emergenti che subiscono una drastica riduzione delle stime di crescita una volta raggiunta una determinata quota di sviluppo. In particolare, per la RPC si segnala un calo del ritorno su investimenti infrastrutturali e in settori produttivi finalizzati all’esportazione di qualità medio/bassa a seguito di una politica di sovrainvestimento in un apparato dominato da SOE a basso livello di produttività.[9] Appare chiaro, tuttavia, che alla luce di consistenti fluttuazioni di domanda internazionale, il modello auspicato da Pechino richiederebbe un rinforzo considerevole della sempre più titubante domanda interna – la famosa seconda circolazione nella strategia presentata di Xi – per emanciparsi dall’effetto di potenziali crisi naturali, finanziarie o securitarie a livello globale. A fronte di dati sul consumo interno sempre più preoccupanti e di una disoccupazione giovanile rampante, tuttavia, le attenzioni della leadership politica sembrano essere unicamente concentrate su innovazione, politiche di esportazione e soccorso al settore immobiliare in difficoltà. Questo è confermato dall’ultimo piano di stimolo svelato dal governo cinese, finalizzato a supportare i governi locali estendendo i limiti di debito e emettendo quattro trilioni di yuan in bond. Proprio i governi locali sono maggiormente colpiti dalla crisi dell’immobiliare, minacciati da un calo delle entrate attraverso tassazione e affitti di terreno[10] a seguito di crisi di liquidità degli enormi imprenditori edili dopo anni di speculazione immobiliare, segnalata icasticamente dai default di Evergrande e Country Garden negli ultimi anni. Ultima di una serie di misure messe in moto dal settembre scorso, fra cui un taglio dei tassi di interesse e misure di sollievo al mercato immobiliare, lo stimolo dimostra l’esitazione della leadership a promuovere un aumento diretto del potere d’acquisto delle famiglie cinesi, per quanto per il 79% del reddito di quelle urbane e il 61% di quelle cinesi sia legato alle loro case[11], mostrando una innegabile relazione tra l’andamento del mercato immobiliare e la fiducia al consumo della popolazione cinese. Tuttavia, come sottolineato dalla campagna ideologica sulla “prosperità comune”, la costruzione di una forte domanda interna e il rafforzamento della classe media urbana sembrano passi cogenti per l’aumento della resilienza del sistema di crescita cinese. A tale pro, non va sottovalutata l’importanza che la stabilità sociopolitica del sistema, incoraggiata dal rispetto dello Stato di diritto promesso in Costituzione, ha per l’aumento della percezione di fiducia e sicurezza della popolazione – principalmente quella giovanile – con la conseguente adozione di una posizione proattiva in termini di consumo e investimento.
Questa analisi sembra confermata dal fenomeno detto “svantaggio del latecomer” formulato dall’economista Yang Xiaokai: quando un’economia emergente copia tecnologie e tecnica al posto del sistema che le ha originate, è destinate ad una fase di stagnazione.[12]
Nella sezione conclusiva, Gabriele propone una riflessione critica sul “socialismo con caratteristiche cinesi”. Partendo dalla premessa che confrontare un’astrazione epistemologica – cosa il socialismo sia in sé – con una manifestazione storicamente, culturalmente e istituzionalmente situata risulta “ontologicamente incommensurabile”, Gabriele valuta la coerenza tra le dichiarazioni ideologiche del PCC e la realtà socioeconomica della RPC contemporanea. Egli riconosce che la Cina è ben posizionata sul piano pratico nell’implementazione del “socialismo con caratteristiche cinesi”, interpretato come espressione spazio-temporale del marxismo-leninismo, adattato alla storia e alle specificità cinesi. Questa sintesi ha dato vita a un’economia socialista di mercato, dove l’uso dei meccanismi di mercato non contraddice la prospettiva socialista come finalità orientativa. Xi Jinping stesso, nel centenario della fondazione del PCC (2021), ha dichiarato raggiunto il primo obiettivo programmatico del socialismo con caratteristiche cinesi: trasformare la RPC in una “società moderatamente prospera sotto ogni aspetto”, citando come prove la crescita del PIL e l’eliminazione della povertà assoluta.[13]
Tuttavia, Giordano sottolinea che i risultati raggiunti dall’economia socialista di mercato appaiono insufficienti sul piano normativo, considerando la definizione della RPC come Stato socialista, sancita dal primo articolo della Costituzione del 1982. Persistono infatti disuguaglianze nella distribuzione del reddito, sia demografiche che geografiche, e criticità nel rapporto con l’ambiente. La Cina, pur leader nelle tecnologie per la transizione energetica e nella riduzione dei costi lungo le catene del valore dell’energia pulita, resta il principale emettitore globale[14], un dato che contrasta con il rinnovato orientamento ideologico verso la sostenibilità.
La tensione tra dimensione positiva e normativa emerge anche nei sette criteri elaborati da Giordano per valutare il sistema cinese. In conclusione, l’autore definisce la RPC “piuttosto socialistica in senso positivo”, utilizzando un aggettivo comparativo per misurare la coerenza con il concetto astratto di socialismo. Il testo si chiude con una riflessione sul capitalismo di Stato, percepito negativamente in Occidente come dominio autoritario di una burocrazia, ma rivalutato da Giordano in termini leninisti, come tappa programmatica verso la società socialista. Tuttavia, lo stadio “primario-primitivo” raggiunto dalla Cina non giustifica le inadempienze normative riguardo a principi fondativi del Marxismo classivo, come la negazione del diritto di associazione sindacale – limitato all’All-China Federation of Trade Unions, emanazione del PCC[15] – e le condizioni dei lavoratori, spesso sacrificate a favore di una crescita economica indiscriminata. Questo approccio, inaugurato da Deng Xiaoping durante il celebre Southern Tour del 1992, privilegia la velocità dello sviluppo rispetto a prudenza e tutela.
Una rinnovata attenzione alle condizioni dello sviluppo, con riferimento all’impatto sulla qualità di vita della popolazione dal punto di vista umano, ecologico e materiale, è stata sottolineata nel contesto della campagna di “prosperità comune”. Tale obiettivo strategico è stato elevato a livello strutturale mediante l’inserimento nella Costituzione del PCC durante il XX° Congresso, e specificatamente definito come tentativo di “ridurre il divario fra poveri e ricchi, risolvere la disparità regionale e industriale e migliorare sia la condizione materiale che quella etico-culturale del popolo, ottenendo così lo sviluppo bilanciato e l’eguaglianza sociale”.[16]
Inoltre, negli ultimi anni si è fatto spazio fra le principali direzionalità politiche e lessicali del Partito lo sforzo verso il versante ecologico dello sviluppo sostenibile. Questo impegno si concentra principalmente sul miglioramento delle condizioni materiali del popolo, in particolare sulla qualità dell’aria, del terreno e delle acque della RPC, e sul sostegno ideologico al predominio cinese nelle catene del valore strategiche per la transizione energetica.
L’auspicio che il trionfo di Xi Jinping e la proclamazione dell’inizio della “nuova era” a conclusione del XVIII° Congresso del 2012, potessero costituire una rottura con la crescita ad ogni costo della fase di Riforma e Apertura, in vista di una rivendicazione marxista della priorità dello Stato e delle esigenze del popolo, ha avuto riscontro nella realtà solo sul versante ideologico-lessicale. Infatti, come confermato dalle analisi di Alberto Gabriele, il percepito abbandono di una prospettiva marxista alla luce dell’apertura all’orientamento di mercato, si è rivelato un errore ermeneutico degli analisti occidentali. Il paradigma comunicato dal nuovo core leader alla popolazione cinese, come dimostrato dalle politiche di governance d’impresa e dalla gestione dell’Sni, nonché dalla precisa direzione di analisi marxista offerta da Xi nei suoi numerosi interventi scritti e orali, assicura la continuità ben più che meramente ideologica del Partito rispetto all’interpretazione cinese del Marxismo-Leninismo.
Tuttavia, la strategia definita dalla dirigenza si è mossa, in piena direzione anti-marxiana e al netto della retorica del Partito, lontano dagli auspici della “prosperità comune”, orientandosi verso la nozione olistica di sicurezza nazionale sviluppata dallo stesso Xi Jinping.
Gli elementi induttivi che supportano tali tesi sono molteplici. Tra essi, si evidenzia la rinuncia ad attuare una riforma strutturale del sistema fiscale funzionale a una più equa distribuzione della ricchezza, e la relazione con i “grandi capitalisti”, non finalizzata alla riduzione della forbice di reddito, ma piuttosto orientata verso una “nazionalizzazione” dell’eccellenza imprenditoriale privata. Come già sottolineato, la leadership politica si è dimostrata disponibile ad accettare la nascita di un’élite economia – con annessa colossale disparità di reddito – in cambio dell’aumento dell’efficienza della porzione di Sni appaltabile all’iniziativa privata, e di una forzata simbiosi con lo Stato in termini di perseguimento dei piani di sicurezza nazionale. I drammatici risvolti sociali della sfrenata privatizzazione dei primi decenni di Riforma e Apertura, infatti, sono stati affrontati solo marginalmente. Gli unici interventi coercitivi dello Stato contro l’élite imprenditoriale hanno avuto come obiettivo il blocco di qualsiasi loro velleità di emancipazione politica e strategica, come dimostrato dalla condanna di Alibaba da parte dell’antitrust cinese nel 2021 e dalla scomparsa dalla sfera pubblica del suo fondatore Jack Ma.
L’adozione di questo ossimorico “marxismo nazionalista” da parte dell’attuale dirigenza politica si può rilevare anche attraverso una delle poche metodologie d’analisi applicabile alla altrimenti imperscrutabile logica dei decisori cinesi: l’analisi del linguaggio politico adottato nelle comunicazioni ufficiali di Partito. Non è casuale, infatti, il riferimento al termine marxista-leninista “lotta”, presente per 22 volte nel report finale del XX° Congresso, come unica modalità di risoluzione delle “contraddizioni” emerse non solo all’interno della società cinese, ma anche quelle presenti nella relazione fra la RPC e il resto del mondo.[17]
Inoltre, nel report si registra una riduzione della frequenza della formula “moderatamente prospera” (-84%), legata alla “prosperità comune” e ormai considerata raggiunta alla luce della mera eliminazione della povertà assoluta. A ciò si contrappone un aumento dell’uso del lemma “autarchia” e, soprattutto, della formula “sicurezza nazionale”, la più ripetuta nel discorso finale di Xi.
In sostanza, sembra possibile concludere che, alla luce di un netto rifiuto del binarismo categoriale tipico dello sguardo occidentale, il paradigma storico con cui Xi Jinping interpreta il movimento verso l’obiettivo storico del “grande ringiovanimento della nazione cinese” rimane saldamente marxista. Il buon esito dell’operato istituzionale e culturale del Partito Comunista Cinese per la riaffermazione della Cina come potenza leader dell’ordine internazionale si configura necessariamente come conclusione del percorso dialettico delineato dal materialismo storico.
Il compito del Partito sarà quello di guidare la nazione cinese verso la risoluzione delle contraddizioni insite nello sviluppo cinese, sia sul piano domestico sia su quello internazionale, coerentemente alla implementazione della nozione comprensiva di sicurezza nazionale.[18]
In conclusione, tali argomentazioni si propongono di offrire una struttura trasversale che corrobori, su piani ulteriori rispetto a quello economico, la proposta di Alberto Gabriele, favorendo una ricerca rispettosa della complessità e della unicità derivanti dalle caratteristiche storiche, materiali e culturali della RPC.
[1] B.V.E Hyde, The rise of modern Chinese thought by Wang Hui. Intellectual hisroty Review, 2023, 34(2), p. 486.
[2] Xi Jinping’s Thought on Economy: A Scientific Theory for Guiding Construction of a Modern Socialist Country. National Development and Reform Commission of the PRC. Risorsa web reperibile all’URL: https://www.ndrc.gov.cn/xwdt/ztzl/NEW_srxxgcjjpjjsx/yjcg/yw/202401/t20240123_1363634.html.
[3] Achieving Rejuvenation Is the Dream of the Chinese People. The National People’s Congress of the People’s Republic of China. 2012. Risorsa web reperibile all’URL: https://www.neac.gov.cn/seac/c103372/202201/1156514.shtml.
[4] Xi Jinping, Adapt Marxism to China’s Realities and Keep It Up-to-Date. Qiushi. Risorsa web disponibile all’URL: http://en.qstheory.cn/2023-03/31/c_873680.htm.
[5] S. Ren, Xi’s Live-to-Work Ideology Is So 1960s. Bloomberg. Risorsa web disponibile all’URL: https://www.bloomberg.com/opinion/articles/2023-08-30/china-xi-jinping-s-live-to-work-ideology-alienates-youth.
[6]M. Chang, The thought of Deng Xiaoping, in “Communist and Post-Communist Studies”, (1996), vol. 29, no. 4, p. 389.
[7] Ibidem.
[8] N. Thomas, J. Qian. Politics First: The Key to Understanding China’s Third Plenum. Asia Society Policy Institute. Risorsa web disponibile all’URL: https://asiasociety.org/policy-institute/politics-first-key-understanding-chinas-third-plenum.
[9] R. Wigglesworth. The implications of China’s mid-income trap. Financial Times. Risorsa web disponibile all’URL: https://www.ft.com/content/a998c1bc-7632-47c1-baba-6ccd6aaef96e.
[10] China’s Next Stimulus Package Is Unlikely to Put Market Fully at Ease. Bloomberg. Risorsa web disponibile all’URL: https://www.bloomberg.com/news/articles/2024-11-04/china-stimulus-questions-to-persist-long-after-meeting-this-week.
[11] Y. Xie, Y. Jin, Household Wealth in China. Chinese Sociological Review, 2015, vol. 47, no. 3, p. 8,9.
[12] M. Leonard. Sunset of the Economists. China Books Review. Risorsa web disponibile all’URL: https://chinabooksreview.com/2024/02/01/sunset-of-the-economists/.
[13] Xi declares China a moderately prosperous society in all respects. The State Council of the PRC. Risorsa web disponibile all’URL: https://english.www.gov.cn/news/topnews/202107/01/content_WS60ddd47ec6d0df57f98dc472.html.
[14] GHG emissions of all world countries – 2024 report. Emission Database for Global Atmospheric Research. Risorsa web disponibile all’URL: https://edgar.jrc.ec.europa.eu/report_2024.
[15] Workers’ rights and labour relations in China. China Labour Bulletin. Risorsa web disponibile all’URL: https://clb.org.hk/en/content/workers’-rights-and-labour-relations-china.
[16] Xi Jinping leads China on a new journey. The State Council of the People’s Republic of China. Risorsa web disponibile all’URL: https://english.www.gov.cn/news/topnews/202210/25/content_WS6357e5c6c6d0a757729e1c01.html.
[17] K. Rudd. The Return of Red China. Foreign Affairs. Risorsa web disponibile all’URL: https://www.foreignaffairs.com/china/return-red-china
[18] J. Blanchette. Is Xi Jinping a Marxist?. China Books Review. Risorsa web disponibile all’URL: https://chinabooksreview.com/2024/10/17/xi-thought/.