Autore: Filippo Fabbri – 0610/2024
Il volume “I Rapporti Cina-Santa Sede Frammenti di Ricerca a Cent’Anni dal Concilio di Shanghai” (Luigi Pellegrini Editore, Cosenza, 2024 – ISBN 9791220502993), curato dalla Prof.ssa Beatrice Serra, docente di Diritto Canonico ed Ecclesiastico presso l’Università di Roma Sapienza, risulta una introduzione al controverso tema della relazioni diacroniche Cina-Santa Sede, di sostanziale importanza alla luce degli eventi trasformativi succedutisi negli ultimi anni e delle implicazioni decisive sui principali dossier destinati a condizionare il movimento dello scenario geopolitico globale.
L’Accordo Provvisorio sulla nomina dei vescovi, siglato nel 2018 dal Mons. Antoine Camilleri – Sotto-Segretario per i Rapporti della Santa Sede con gli Stati – e Wang Chao – Viceministro degli Affari Esteri della Repubblica Popolare Cinese (RPC) – esuccessivamente confermato a seguito dei due bienni successivi, costituisce infatti un atto rivoluzionario alla luce di oltre sessantasette anni di temute lacerazioni scismatiche conseguite alla volontà del Partito Comunista Cinese (PCC) di applicare fermamente il principio delle Tre Autonomie (finanziaria, amministrativa e di apostolato), così da eliminare ogni velleità universalista della Chiesa di Roma, evitare ogni forma di ingerenza politica esterna e soggiogare capillarmente la struttura ecclesiastica al fine patriottico. Entrambe le parti, infatti, possono celebrare l’accordo come coerente ai principi fondativi di sovranità, delineati nei precedenti tentativi di dialogo. Da una parte, il PCC può rivendicare le “caratteristiche cinesi” del processo di nomina vescovile, dato il mantenimento del “processo democratico” istituito già dalla riunione fondativa della Associazione Patriottica dei Cattolici Cinesi (APCC) nel 1957, con il vescovo “eletto” da un consiglio di figure religiose e laiche a livello locale, e poi sottoposto al vaglio dell’APCC. Dall’altra, il Vaticano può riaffermare la necessità giuridica sine qua non della approvazione da parte della Santa Sede; elemento formalmente mancante prima dell’Accordo e legato alla spada di Damocle della scomunica ipso facto (latae sententiae) per chi amministra o accetta ordinazioni episcopali senza il consenso del Papa che – nonostante l’informale tentativo di ricucire la lacerazione da parte dei vescovi patriottici post-Riforma e Apertura, attraverso la volontà di ottenere la legittimazione papale ex-post – ancora causava uno dei principali ostacoli ad una definitiva riconciliazione delle due gerarchie.
Elemento di sostanziale importanza nell’analisi dello sviluppo diacronico delle relazioni Santa Sede-RPC, l’Accordo arriva sei anni dopo l’inizio dell’era Xi Jinping, contrassegnata da una forte riaffermazione della necessità di “sinizzare” gli elementi esogeni presenti fra i cinque culti ammessi dal Partito, adattandoli alle tradizioni di pensiero dominanti nella storia della “nazione cinese” e, soprattutto, eliminando ogni componente di politicizzazione degli stessi, nell’ottica di annullarne il potenziale come vettori di influenza da parte di potenze esterne ed estranee. Per quanto ciò possa sembrare un forte ostacolo al dialogo fra la Santa Sede e la comunità cattolica cinese, ravvivato dalla lettera indirizzata ad essa da Benedetto XVI – in cui era riaffermata la necessità giuridicamente vincolante del consenso papale sulle nomine – ma nuovamente lacerato dalle nuove nomine “illegittime” operate tra il 2010 e il 2011, tale movimento è da inquadrarsi alla luce della salita al soglio pontificio di Jorge Bergoglio.
Il primo papa gesuita, infatti, sin dall’inizio ha fondato la sua interpretazione sociale dell’opera missionaria su un marcato anti-colonialismo e anti-imperialismo occidentale, intersecati alla ferma nozione di operato transitorio, finalizzato alla creazione di una Chiesa autoctona, a sua volta basata su quel principio di “inculturazione” che il Papa argentino ha esplicitamente recuperato da Matteo Ricci, primo missionario gesuita alla corte imperiale di Pechino, ancor oggi altamente stimato nel mondo sinico. Non sono, dunque, da valutare come circostanziali le parole del Ministro degli Esteri cinese Wang Yi il quale, al primo incontro di alto-livello con rappresentanti della Santa Sede dalla rottura dei rapporti diplomatici nel 1951, ha rimarcato la stima verso le ripetute parole di affetto e benedizioni spese da Francesco verso la Cina e il popolo cinese[1].
Dal punto di vista del PCC, l’Accordo costituisce un tassello fondamentale verso il riconoscimento della RPC come un interlocutore dalla gravità determinante nel sistema internazionale ma, considerandone l’impatto su quadranti geopolitici decisivi nel presente e futuro prossimo, assume una denotazione specifica riguardo alle relazioni diplomatiche attualmente attive fra la Santa Sede e la Repubblica di Cina (ROC) con sede sull’isola di Taiwan. Il Vaticano, infatti, rimane uno dei 12 Stati a riconoscere ufficialmente la ROC. Nonostante l’impegno profuso da Francesco verso la semantizzazione dell’accordo come “non politico ma pastorale”, risulta difficile ignorare il possibile impatto che la scelta papale avrà sui governi e, soprattutto, sulle popolazioni degli altri attori internazionali con relazioni diplomatiche ufficiali attive con la ROC. A maggior ragione, prendendo in considerazione il fatto che almeno la metà di esse risulti ad ampia presenza cattolica.[2]
Assumendo il punto di vista della Santa Sede, l’accordo risulta di fondamentale importanza per la ricostruzione di una omogeneità canonica fra la gerarchia “patriottica” – alla luce delle recenti legittimazioni di vescovi precedentementi eletti senza consenso del Vaticano – e quella “clandestina” in Cina. Questa discrepanza ha certamente partecipato alla perdita di terreno del cattolicesimo in RPC, soppiantato da varie confessioni protestanti – facilitate da una struttura meno gerarchica – fino a comprendere il solo 10% dei cristiani cinesi.
Inoltre, come già introdotto, l’Accordo libera la Santa Sede dalla necessità di considerare giuridicamente una dimensione formalmente scismatica – come esplicitato per la prima volta da Papa Giovanni XXIII – l’apparato ecclesiastico “nominato” dalla APCC in aperta violazione della sovranità vaticana.[3]
Nel saggio introduttivo (I rapporti Cina-Santa Sede: una introduzione sul presente) la Prof.ssa Beatrice Serra, curatrice del testo, identifica due momenti cardinali nella storia delle relazioni fra Cina e Santa Sede: il Concilio di Shanghai del 15 Maggio 1924 e la scadenza, nell’Ottobre 2024, dell’Accordo provvisorio sulla nomina dei vescovi, con le due parti chiamate a scegliere se confermarlo, modificarlo o abbandonarlo dopo le due precedenti conferme. Proprio in questo mese, infatti, si decideranno le sorti del processo iniziato cent’anni fa, con il Concilio presieduto dal primo Delegato Apostolico in Cina mons. Costantini e guidato dalla volontà di promuovere lo sviluppo di una chiesa locale priva di legami imperialistici, sulla traccia della Lettera Apostolica Maximum Illud emanata da Benedetto XV nel 1919.
Serra identifica nell’Accordo del 2018 l’atto risolutivo e conciliatorio del processo di frattura dettato dalla volontà marxista e nazionalista di emancipare la pur presente comunità cattolica cinese da ingerenze estere, e avviato dal manifesto di Gongyuan del 1950 – atto di nascita del movimento di riforma delle tre autonomie dei gruppi confessionali – insieme alla fondazione dell’Associazione Patriottica dei Cattolici Cinesi del 1957.
Come motivazioni che hanno partecipato alla firma dell’Accordo, sono identificate la volontà pontificia di migliorare il dialogo con una comunità cattolica di crescente dimensione e importanza nel panorama attuale e, in particolare, il riconoscimento da parte della RPC della nomina vescovile come estranea ad un atto politico di ingerenza. Ciò è stato certamente facilitato dall’approccio politico e missionario di Papa Francesco, erede della tradizione gesuita, con cui il governo cinese ha avviato un dialogo affine alla parabola di risemantizzazione del ruolo dei gruppi confessionali ammessi all’interno della società cinese.
Infine, è presentato un bilancio della gestione delle nomine ad ora effettuate nel periodo dalla firma dell’Accordo: periodo non privo di ombre quali la nomina unilaterale di mons. Giovanni Peng Weizhao ad Ausiliario della diocesi di Jiangxi, non riconosciuta dalla Chiesa Cattolica, e del trasferimento a Shanghai del Vescovo di Haimen mons. Giuseppe Shen Bin senza informare o consultare la Santa Sede.
Il contributo del Prof. Giuseppe D’Angelo (La sovranità della Santa Sede nel nuovo contesto globalizzato) è volto a sostenere l’argomentazione secondo la quale la peculiare natura della sovranità della Santa Sede costituisce una esperienza giuridica doppiamente emblematica alla luce dei due fenomeni giuridici risultanti dalla globalizzazione: la crisi del modello westphaliano della sovranità nazionale, reso obsoleto da crescenti vettori d’influenza transnazionali, e le istanze revisioniste aventi come oggetto la forma occidentale di democrazia rappresentativa, dovute al crescente pluralismo sociale. L’autore, partendo da tali fenomeni, sancisce il fallimento della secolarizzazione giuridica e auspica una ricalibrazione dell’interazione fra sfera secolare e religiosa.
Infatti, a differenza di una tradizionale sovranità westphaliana, quella della Santa Sede è sì giustificata dal potere temporale sullo Stato Città del Vaticano – che la inquadra come soggetto giuridico in grado di sottoscrivere accordi internazionali e di mantenere relazioni diplomatiche – ma anche articolata in direzione transnazionale in quanto incaricata del governo della Chiesa Cattolica su scala globale. Va sottolineato che quest’ultima consiste in una sovranità sostanziata dai fini-valori, nello specifico nella missione salvifica dell’umanità intera, che l’Autore considera come necessaria ragione fondante della sovranità alla luce dell’arretramento del paradigma precedente. In particolare, D’Angelo sottolinea la crescente proiezione internazionalistica che si evince dagli interventi sul binomio diritto canonico e diritto vaticano, motivati dalla prospettiva di perseguimento dello sviluppo umano integrale.
Il contributo del prof. Luigi Barbieri (Geopolitica vaticana, istituzioni politiche e ordinazioni episcopali nella Repubblica Popolare Cinese. Riflessioni in tema di rapporti tra Stato e Chiesa) ricalca la natura illegittima, alla luce del diritto canonico, della modalità di elezione dei vescovi in atto nella RPC prima dell’accordo del 2018. Infatti, secondo le norme giuridiche poste dal Vaticano, i vescovi nominati dalla filogovernativa Associazione patriottica cattolica cinese al fine di mantenere ingerenze imperialiste antirivoluzionarie all’esterno delle dottrine religiose formalmente ammesse nella Costituzione del 1954 – seppur con la condizionale dell’astensione dalla devianza politica – sarebbero stati penalmente destinati alla scomunica latae sententiae in quanto privi di mandato pontificio.
Con l’accordo del 2018, non ancora reso pubblico nel contenuto, è lecito aspettarsi una risoluzione della precedente coesistenza contraddittoria di vescovi “patrioti”, nominati dall’Associazione filogovernative, e vescovi clandestini, nominati in pectore dalla Santa Sede. Viene riconosciuta la prerogativa della Santa Sede di nomina vescovile con quest’ultima che si impegna a recepire l’indicazione e il placet del Governo cinese sulle nomine. Nonostante le due proroghe di due anni, l’andamento delle relazioni risulta comunque altalenante, con vari incidenti per scelte unilateriali di nomina da parte del Governo cinese.
Dopo la considerazione di due precedenti storici eminenti nel contesto della contesa Stato-Chiesa sulla prerogativa di nomina vescovile, ovvero l’evento alla genesi della lotta per le investiture e la relazione fra Stato napoleonico e Papato dopo l’invasione francese della penisola italica del 1796, il contributo si conclude con una previsione di irrisolvibile instabilità nella manifestazione sinica del fenomeno e con la presa di coscienza di un progressivo spostamento del baricentro d’attenzione della Santa Sede alle emergenti aree extra-europee.
Il contributo del Prof. Alessandro Guerra (La missione dell’Ordine. I gesuiti e la Cina nella modernità) pone al centro della propria analisi la strategia di espansione missionaria dell’ordine gesuita a partire dalle aree caratterizzate da ignoranza ed eresia nell’Europa della controriforma, ma caratterizzata da una naturale pulsione verso la lotta per l’egemonia cattolica nel mondo, attraverso l’indottrinamento di popolazioni ancora prive della novella evangelica, l’unica via per la di esse salvezza e per l’espressione della totalità della fede gesuita nella massima manifestazione del martirio.
Se questa strategia si era indirizzata verso lo scontro frontale, supportato e strumentalizzato dalle autorità civili tanto in Europa quanto nelle Americhe, a partire dallo sbarco del gesuita Francesco Saverio a Goa nel 1542 e attraverso la sua esperienza in Giappone – centrale per la costituzione della prima missione cinese a Zhaoqing nel Guangdong dopo la partenza dalla piazzaforte portoghese di Macao – la strategia per l’Oriente si costituirà attraverso una ripresa teologica e non del concetto ignaziano dell’accomodatio. Si valutò, infatti, la necessità di entrare profondamente nella comprensione del tessuto politico e culturale locale, innanzitutto con l’apprendimento della lingua, l’adattamento ai costumi e la declinazione del catechismo alle sensibilità locali.
Se ciò era già chiaro a Michele Ruggieri, primo gesuita protagonista del viaggio da Macao a Zhaoqing, tale strategia fu ulteriormente sviluppata da Matteo Ricci: il primo a comprendere la necessità di incunerarsi nella struttura elitaria dei mandarini per la definitiva espansione cattolica in Cina. Considerando la Cina imperiale una peculiare sorta di Repubblica dominata da una classe di letterati confuciani, l’approccio sincretico di Ricci, insieme al grande impegno nello studio delle tre tradizioni di pensiero principali in terra cinese, gli permisero di produrre un fertile sodalizio con i mandarini. Ciò permise al gesuita di mettere in atto i due momenti centrali della sua esperienza missionaria: la pubblicazione del Tianshi zhiyi, il “Vero significato del Signore del Cielo“ (Tianzhu), strutturato come incontro dialettico e sintetico della tradizione confuciana con la teologia elementare del Cattolicesimo, oltre che la permanenza a Pechino presso la corte dei Ming.
La morte di Ricci sancì la fine dell’età dell’oro della missione gesuita in Cina e la rinascita dello scetticismo imperiale, legato alla possibile presenza di ingerenze politiche da parte di Stati europei dietro la missione ecumenica. In chiosa, l’Autore mette in risalto il ruolo che la strategia di Ricci ha avuto nella Maximum Illud – emanata da Benedetto XV in riferimento alla dimensione orientale della strategia geopolitica vaticana al termine della Prima Guerra Mondiale – ma soprattutto nel magistero di Bergoglio: primo papa gesuita, che ha tracciato esplicitamente la derivazione ricciana del risvolto civile dello stato permanente di missione concentrato – tuttavia – sulla salvaguardia e l’arricchimento delle culture locali.
Il contributo del Prof. Ulrich Rhode (Il diritto missionario emanato per la Cina come specchio della situazione dei cattoloci nel Paese), dopo aver tracciato il dominio del diritto missionario preso in oggetto – ovvero il campo degli interventi normativi da parte della Santa Sede o di Sinodi locali specificatamente riferiti alla Cina – indaga tredici documenti di diritto missionario con la volontà di mettere in luce lo sviluppo diacronico della condizione dei cattolici cinesi, che da essi si evince.
Di conseguenza, emergono tanto elementi di continuità sottesa dall’inizio dell’attività missionaria in Cina fra il 16° e il 17° secolo, quanto indicazioni specifiche volte a trattare necessità specifiche emerse con il decorso storico. Nel primo insieme va inserita la particolare attenzione alla inculturazione dottrinale e non all’interno del tessuto tradizionale cinese, risultata in norme quali la straordinaria possibilità di celebrare messa in cinese decretata dalla Santa Sede nel 1615 – di importanza capitale alla luce del singolo secolo che frapponeva la Chiesa di Roma dalla frattura protestante – e nel costante impegno alla creazione di una Chiesa indigena.
Nell’alveo degli specifici mutamenti diacronici, con le relative indicazioni riguardo alla condizione della comunità cattolica cinese, è evidente la crescente volontà di svincolare la missione evangelizzatrice dal processo di colonizzazione che ha nel periodo post-Prima Guerra dell’Oppio la sua fase eminente di sviluppo. Si evincono, inoltre, caratteristiche specifiche del tessuto sociale da decreti volti a mantenere un processo selettivo per il battesimo, evitando individui dipendenti dall’oppio o praticanti la poligamia. Infine, risulta particolarmente indicativa della condizione di persecuzione della comunità cattolica cinese, nel periodo successivo alla proclamazione della Repubblica Popolare, la drastica facilitazione dei riti predisposta dalla Santa Sede. Tali interventi erano volti alla completa rinuncia a norme di diritto meramente ecclesiastico mantenendo – tuttavia – elementi del solo diritto divino, ed ebbero la maggior estensione nel periodo immediatamente successivo alla fine della Rivoluzione Culturale.
Il contributo del dott. William De Carlo (Tra Missione Diplomazia: la posizione della Santa Sede nel processo di decolonizzazione cinese (1926-1946) analizza la politica della Santa Sede verso la comunità cattolica in Cina, con particolare attenzione alla dialettica con il Protettorato Francese, che ostacolò lo sviluppo diretto delle relazioni diplomatiche tra Cina e Santa Sede fino ai primi decenni del XX secolo. Il Protettorato, istituito attraverso i Trattati Ineguali tra la Dinastia Qing e le Potenze occidentali dopo la Prima guerra dell’oppio, inizialmente favorì la ripresa delle attività missionarie in Cina, fornendo protezione alle organizzazioni cattoliche. Tuttavia, esso monopolizzò la missione evangelica a favore degli interessi francesi, trasformandola in uno strumento di propaganda coloniale.
Questa strumentalizzazione imperialista portò i movimenti nazionalisti cinesi a identificare la missione cattolica con l’ingerenza straniera, generando violenti conflitti, come la Rivolta dei Boxer.
Il movimento per rivendicare la sovranità della Santa Sede sulla missione in Cina si sviluppò promuovendo la creazione di una chiesa locale indipendente. Momenti chiave furono la Lettera Apostolica Maximum Illud di Benedetto XV, che stabilì questo principio, e la nomina di mons. Costantini come Delegato Apostolico in Cina da parte di Pio XI. Costantini, pur senza un ruolo diplomatico formale, contribuì a instaurare nuove relazioni tra la Santa Sede e il Kuomintang, sostenuto dal papato come forza unificatrice contro gli interessi coloniali.
Nonostante le difficoltà causate dall’invasione giapponese e dalla guerra civile, l’operato di Costantini tracciò il percorso seguito dai suoi successori per le relazioni tra la Santa Sede e la Cina.
Il contributo del Prof. Carlo Felice Casula (La Santa Sede e la Repubblica Popolare Cinese negli anni della Guerra fredda e del tardo pontificato di Pio XII. L’encilica Ad Sinarum Gentem del 1954) prosegue il percorso del precedente, ripercorrendo la rivendicazione dell’impegno per la creazione di una chiesa locale e per l’emancipazione da ogni tipo di strumentalizzazione politico-imperialistica dell’operato missionario in Cina, sfociato nella nomina di mons. Costantini come Delegato Apostolico. Prosegue la disamina presentando il periodo di occupazione giapponese, con il supposto – poi smentito – riconoscimento de jure dello Stato fantoccio del Manciukuo da parte della Santa Sede come ulteriore pomo della discordia fra il Partito Comunista Cinese (vittorioso nella conseguente guerra civile contro il Kuomintang) e la Chiesa di Roma fino al Accordo sulle nomine vescovili del 2018. Il resoconto prosegue con la sfortunata decisione del Santo Uffizio di procedere alla scomunica ai comunisti del 1949, atto che aggravò ulteriormente la posizione dei cattolici nella Repubblica Popolare Cinese, visti come parte di una iniziativa globale anticomunista di origine papale, e che venne seguito da una ovvia stagione di repressione e persecuzione della gerarchia ecclesiastica in Cina, fino alla formazione dell’Associazione Patriottica dei Cattolici Cinesi sulla base del principio delle Tre Autonomie (finanziaria, amministrativa e di apostolato).
La parte finale del contributo si concentra sulla enciclica Ad Sinarum Gentem, emanata nel 1954, prendendo in analisi soprattutto il quadro di richieste volte ad ottenere un intervento diretto del Papato sulla complessa condizione della comunità cattolica cinese, i criteri utilizzati dalla commisione atta alla stesura del testo e, infine, alla valutazione critica – con annesse proposte di correzione – effettuata da mons. Domenico Tardini e da padre Agostino Bea.
Il contributo del Dott. Gianni Valente (La questione delle ordinazioni episcopali cattoliche cinesi come punto nevralgico della complessa vicenda dei rapporti tra Santa Sede e Repubblica popolare cinese) esamina cronologicamente le tensioni tra la Santa Sede e il Partito Comunista Cinese, concentrate principalmente sulle ordinazioni episcopali dalla proclamazione della Repubblica Popolare Cinese. Dopo un breve riassunto storico, l’analisi si focalizza sulla creazione dell’Istituto per gli Affari Religiosi e, nel 1957, sulla fondazione dell’Associazione Patriottica dei Cattolici Cinesi (APCC). Quest’ultima rifletteva la volontà del PCC di creare una Chiesa cattolica cinese indipendente dalla Santa Sede, secondo il principio delle Tre Autonomie, per evitare ogni ingerenza straniera. La resistenza della gerarchia ecclesiastica cinese spinse il PCC a enfatizzare un’imperativa retorica patriottica.
Il principale punto di conflitto riguardava l’elezione di vescovi da parte dell’APCC senza il consenso della Santa Sede. Dopo la Rivoluzione Culturale, che colpì sia la Chiesa patriottica che quella canonica, l’APCC riacquistò legittimità sotto Deng Xiaoping, dando vita al “doppio binario” delle ordinazioni: patriottiche e clandestine. Quest’ultime erano effettuate da ecclesiastici autorizzati da Papa Giovanni Paolo II a procedere autonomamente, data la situazione di emergenza.
Negli anni seguenti, la gerarchia patriottica iniziò a cercare il riconoscimento postumo da parte della Santa Sede, avviando un graduale riavvicinamento. Nonostante momenti di tensione, in cui il PCC utilizzava nomine illegittime come strumento di pressione, il dialogo avanzò verso un accordo. Questo processo, iniziato sotto Benedetto XVI, culminò nel 2018 con un accordo provvisorio durante il papato di Francesco, valido per due anni.
Valente conclude respingendo le critiche sull’accordo, sottolineando due aspetti: il ristabilimento della coerenza tra la gerarchia cinese e la Santa Sede e il primo riconoscimento formale da parte della Repubblica Popolare Cinese del ruolo del Papa come guida spirituale e gerarchica della Chiesa.
Il contributo del Prof. Michele Madonna (La Cina è ‘lontana’ o ‘vicina’? Il ‘celeste impero’ (e i s suoi ‘eredi’) nella riflessione di una rivista cattolica (“Vita e Pensiero”) dalla Grande Guerra a Papa Francesco) esamina la presenza della comunità cattolica cinese nel periodico cattolico “Vita e Pensiero,” fondato nel 1914 da Padre Agostino Gemelli. Fino alla proclamazione della Repubblica Popolare Cinese (RPC), la Cina rimase un tema marginale, trattato soprattutto attraverso gli articoli del Delegato Apostolico in Cina, mons. Costantini, che sottolineava l’importanza della decolonizzazione della missione evangelica e la creazione di una Chiesa locale in risposta ai movimenti nazionalistici.
L’attenzione verso i cattolici cinesi aumentò con le persecuzioni e la creazione di una gerarchia patriottica controllata dal PCC dopo la nascita della RPC. Un articolo fondamentale in questo contesto fu quello del gesuita Emanuele Argentieri del 1960, che elogiava la fede dei cattolici cinesi perseguitati e proponeva una “legislazione delle catacombe” per permettere alla comunità di sopravvivere.
Con la fine della Rivoluzione Culturale e l’inizio delle Riforme di Deng Xiaoping, il tema cinese divenne centrale nella rivista, che sottolineò la necessità di dialogo con il governo cinese, ispirato dall’approccio di Giovanni XXIII verso i paesi dell’Europa Orientale, e promosse l’inculturazione del cattolicesimo nel contesto cinese, come proposto secoli prima da Matteo Ricci.
Negli anni successivi, l’attenzione si spostò sulla crescente importanza della Cina nel sistema internazionale e sul ruolo che la Chiesa cattolica poteva avere come strumento di riconciliazione sociale, considerando la sostituzione del marxismo con capitalismo e consumismo e la conseguente ricerca spirituale.
Infine, il contributo analizza i risultati del pontificato di Papa Francesco, in particolare l’Accordo provvisorio del 2018, visto come un passo promettente verso la risoluzione dei contrasti tra la Santa Sede e la Cina. L’accordo è considerato un successo per la coincidenza tra le gerarchie cinesi e vaticane, mantenendo i principi giuridici delineati da Benedetto XVI nella sua lettera ai cattolici cinesi, e segnando un progresso significativo rispetto ai settant’anni di conflitti precedenti.
Il contributo della Dott.ssa Martina Del Priore (La libertà religiosa in Cina: tra libertà di culto, xie jiao e detenzione) analizza le garanzie costituzionali della Repubblica Popolare Cinese in materia di libertà religiosa, presenti nella Costituzione del 1954 e nella versione attuale del 1982, nonostante varie modifiche. Sebbene la Costituzione offra garanzie contro la discriminazione religiosa e a favore della tutela del culto, lo Stato vieta le religioni che minacciano l’ordine sociale o rappresentano ingerenze straniere.
Il controllo del Partito Comunista Cinese si esercita su cinque religioni ufficiali attraverso organizzazioni governative: l’Associazione Buddhista di Cina, l’Associazione Taoista, l’Associazione Islamica, il Movimento Patriottico delle Tre Autonomie e l’Associazione Cattolica Patriottica Cinese. Le pratiche religiose al di fuori di queste istituzioni sono soggette a persecuzione, regolata in particolare dall’articolo 300 del Codice penale, che punisce i membri di culti non riconosciuti, detti “xie jiao” (culti maligni).
Il contributo conclude esaminando il sistema detentivo cinese, evidenziando l’indottrinamento verso le Chiese Patriottiche e la scarsa tutela della libertà religiosa in carcere. Viene inoltre sottolineato il riconoscimento delle persecuzioni religiose cinesi da parte della giurisprudenza italiana, che ha concesso lo status di rifugiato in diversi casi.
In conclusione, risulta importante mettere in luce la pluralità di voci emerse da entrambe le parti – sebbene con una netta superiorità della parte cattolica – in aperta opposizione dell’Accordo sulla nomina dei vescovi. Se vari esponenti del PCC hanno argomentato a favore della contraddittorietà dell’Accordo con l’articolo 36 della Costituzione della RPC, che riconosce il diritto statale di intervento contro organizzazioni religiose che promuovano interessi esteri o, in generale, l’alterazione dell’ordine sociale, le più importanti voci di protesta si sono alzate dalla gerarchia ecclesiastica. Vari esponenti, tra cui l’ex-vescovo di Hong Kong Joseph Zen, hanno definito l’Accordo una concessione di sovranità sulla nomina dei vescovi e, per giunta, ad uno Stato non-democratico.[4] Inoltre, la richiesta vaticana a vescovi precedentemente appartenenti alla gerarchia “clandestina” di declinare la propria posizione in favore di altri nominati con il sistema previsto dall’Accordo o per legittimazione ex-post di una nomina effettuata dalla sola APCC, è stata giudicata come un piegarsi, da parte pontificia, alla posizione di forza manifestata da Xi Jinping sulla Sinizzazione della Chiesa cinese.[5]
Nonostante ciò, alla luce dei contributi appena analizzati, formulare un giudizio univocamente negativo sull’Accordo siglato e per due volte confemato, risulta un errore tanto dal punto di vista diacronico, in quanto significherebbe dimenticare l’importanza storica del riconoscimento formale da parte della leadership della RPC del Papato come guida spirituale e gerarchica della Chiesa globale e di quella canonico-giuridica della risoluzione dello scisma formale creatosi con la formazione della APCC, quanto da quello sincronico e programmatico. Infatti, alla luce del sostanziale mantenimento degli impegni bilaterali presi nell’Accordo, la risoluzione di quello che più volte è stato denotato come il nodo primario e principale da sciogliere nelle relazioni sino-vaticane, può aprire ad una stagione di dialogo e ulteriore risoluzione di problematiche effettive, consentendo alla Santa Sede di creare basi solide per sopperire all’assenza di relazioni diplomatiche ufficiali con un attore destinato ad avere un ruolo primario nel presente e nel futuro prevedibile.dello scenario globale.
[1] L. Wang, China-Vatican Relations in the Xi Era. The Diplomat. Risorsa web disponibile all’URL: https://thediplomat.com/2022/05/china-vatican-relations-in-the-xi-era/.
[2] R. Oliver, The Vatican, Chinese Catholicism and the Diplomatic Isolation of Taiwan. The Jamestown Foundation. Risorsa web disponibile all’URL: https://jamestown.org/program/the-vatican-chinese-catholicism-and-the-diplomatic-isolation-of-taiwan/.
[3] F. Angiolillo, China-Vatican Talks: Covert Negotiations Aim to End Decades of Severed Relations. Istituto Affari Internazionali. Risorsa web disponibile all’URL: https://www.iai.it/en/pubblicazioni/china-vatican-talks-covert-negotiations-aim-end-decades-severed-relations.
[4] F. Angiolillo, China-Vatican Talks: Covert Negotiations Aim to End Decades of Severed Relations. Istituto Affari Internazionali. Risorsa web disponibile all’URL: https://www.iai.it/en/pubblicazioni/china-vatican-talks-covert-negotiations-aim-end-decades-severed-relations.
[5] L. Wang, China-Vatican Relations in the Xi Era. The Diplomat. Risorsa web disponibile all’URL: https://thediplomat.com/2022/05/china-vatican-relations-in-the-xi-era/.