Autori: Brahim Ramli & Emanuel Pietrobon – 14/06/2022
La guerra in Ucraina ci dice che il campo di battaglia definitivo è la mente. E lo sarà anche negli anni a venire – per sempre. Perché il mondo sta entrando in una nuova era: l’era delle guerre cognitive.
Verso l’era delle guerre mentali
Dalla notte del 24 febbraio 2022 il mondo ha cessato di essere ciò che era fino a quel momento, dirigendosi a passo spedito verso una nuova era che premette e promette di essere molto più conflittuale, instabile e imprevedibile di quella che l’ha preceduta. Vladimir Putin, decidendo di invadere l’Ucraina, ha aperto un nuovo capitolo della cosiddetta terza guerra mondiale a pezzi e dato impulso ad alcune tendenze pre-esistenti, dalla rimodulazione della globalizzazione alla catalisi della transizione multipolare, ma ne ha anche inconsapevolmente-ma-colpevolmente frenate altre, tra le quali il percorso dell’Unione Europea verso l’autonomia strategica.
L’Ucraina sarà, dunque, la prima fermata di alcuni fenomeni ed il capolinea di altri. Il principio e la fine di eventi e tendenze. Essa è, peraltro, anche una fermata-chiave, la più importante sino a questo momento, dell’ultimo stadio della competizione tra grandi potenze, incardinato sulla centralità delle periferie, ed è più che lecito attendersi l’accendersi di nuovi fuochi negli altri quartieri-dormitorio che giacciono ai margini di imperi e potenze di varia taglia, dallo spazio postsovietico all’Indo-Pacifico, passando per l’America Latina. L’Europa stessa, che di periferie ne ha parecchie – tra Stati fantoccio (Transnistria, Donetsk, Lugansk), Stati a riconoscimento limitato (Kosovo), Stati lacerati (Macedonia del Nord, Bosnia ed Erzegovina) e regioni autonomiste (in casa e nel cortile Oltreoceanico) –, sarà chiamata a prestare maggiore attenzione e a trovare soluzioni che siano tali, cioè risolutive e definitive.
L’Ucraina, geopolitica a parte, è stata anche una fermata-chiave per le arti belliche, avendo sancito il passaggio dalla propaganda classica, psico-cognitiva ed informativa, ad un nuovo tipo di guerra, quella mentale. Gli psico-strateghi non si accontentano più di manipolare l’informazione, di condizionare l’opinione pubblica, perché ambiscono ad un obiettivo molto più elevato: il controllo totale della mente degli individui, cioè la loro trasformazione da esseri senzienti e autonomi ad automi. A differenza delle guerre psicologiche e informative tradizionali, anelanti quando all’ingegnerizzazione del consenso e quando alla diffusione di dissonanza cognitiva, le guerre mentali saranno l’ultima frontiera dell’applicazione bellica delle neuroscienze: un controllo sui voleri, sui bisogni e sulle percezioni dei singoli di natura quasi irreversibile, perché continuamente alimentato, ed esteso, attraverso l’informazione, l’intrattenimento e nuovi alleati, come gli influencer, la musica e le piattaforme sociali.
Controllo mentale duro o controllo mentale morbido
Nel nuovo ordine che emergerà dalle ceneri dell’Ucraina, che è stato eloquentemente anticipato dalla radicalizzazione del dibattito pubblico in materia di vaccini e certificati verdi durante la pandemia di COVID19, si dovrà lottare per l’autonomia del pensiero, per la costruzione di un “pensiero sovrano”, ma sarà incredibilmente arduo: la medesima narrativa, a seconda dell’argomento del momento, verrà introdotta con la forza e da una pluralità di canali nella mente del singolo, che a sua volta dovrà scontrarsi con una massa-gregge intrattabile e nemica.
Russi e ucraini, in maniera simile ma diversa, hanno indicato la via a due corsie verso l’epoca delle guerre mentali. I russi hanno imboccato la corsia del controllo mentale duro, cioè basato sull’imposizione coercitiva del pensiero unico, ad esempio veicolando l’associazione Ucraina/nazismo e ricorrendo ad una censura totale verso ogni voce dissenziente. Gli ucraini hanno preferito la corsia, meno insidiosa e più efficace, del controllo mentale morbido; perciò i tour virtuali nei parlamenti occidentali di Volodymyr Zelenskij, le “bufale emotive” a cadenza giornaliera e i video propagandistici con sfondo musicale e dallo stile simil-pubblicitario. Il risultato complessivo, in entrambi i casi, è stato il medesimo: Vladimir Putin ha ricompattato l’opinione pubblica, anche se resta da vedere quanto – poiché i sondaggi sono falsificabili –, Zelenskij è diventato il primo e-leader in tempo di guerra, ha dotato gli ucraini di un’identità nazionale e ha convinto un riluttante Occidente ad aderire entusiasticamente ad una guerra a lungo temuta. E tutto ciò è accaduto, è stato possibile, grazie all’ultima evoluzione delle guerre informative, psicologiche e cognitive: la guerra mentale.
Iraq 1990, una guerra venduta da un’agenzia di marketing
2 settembre 1990. Una data impossibile da dimenticare: è il principio della Prima guerra del Golfo. Tutto ha inizio quando l’esercito di Saddam Hussein entra in Kuwait, riuscendo in poche ore a sottometterne lo strumento militare e a costringerne il leader, lo sceicco Jaber Al-Ahmed Al Sabah, a rifugiarsi in Arabia Saudita. Saddam avrebbe pagato a caro prezzo quella scelta, preludio di una primavera di stravolgimenti geopolitici in Medio Oriente e della sua futura caduta. Ma non è questo il motivo per cui è fondamentale rammentarsi del primo conflitto del dopo-guerra fredda.
La prima guerra del golfo, così come la guerra in Ucraina, fu caratterizzata da un massiccio ricorso alla propaganda da parte dell’Occidente avente quale fine il condizionamento dell’opinione pubblica mondiale. Fu durante la prima guerra del golfo che nacquero le prime forme di gestione delle notizie (news management). Fu la prima guerra dell’umanità condotta in mondovisione. Fu una guerra sui generis, o meglio la prima del suo genere, perché combattuta più con l’informazione e la propaganda che con le armi convenzionali. Le bufale, o fake news, investirono l’intero pianeta, specialmente l’Occidente, grazie alla “stampa globalizzata” e al neonato Internet. Le televisioni e i giornali dell’Europa furono condizionati dagli Stati Uniti in modo impressionante e sistematico. Fu l’inizio dell’utilizzo di tecniche propagandistiche che sarebbero state ulteriormente raffinate e messe in pratica negli anni successivi, sul campo, cioè in altri teatri di guerra.
L’invasione irachena del Kuwait viene considerata “il primo conflitto del villaggio globale” per l’inedita copertura televisiva che ricevette. Il governo statunitense mise le briglie al mondo dell’informazione come mai aveva osato prima al fine di evitare che l’opinione pubblica potesse subire un nuovo “effetto Vietnam” se esposta a servizi dal fronte di produzione non-occidentale. L’opinione pubblica americana era fortemente contraria all’invio di soldati in Kuwait e ci volle un “machiavello” senza precedenti per mobilitarla. A questo scopo, lo scopo di creare un consenso mancante, fu cruciale la testimonianza davanti al Congresso di una ragazzina di quindici anni, Nayirah, presentata il 10 ottobre dello stesso anno a deputati, senatori e ai telespettatori da casa come una profuga proveniente da Kuwait City e testimone dei primi giorni di assedio iracheno.
Nayirah parlò per quattro minuti, interrompendo la testimonianza frequentemente per via del singhiozzo e del pianto. La testimonianza di Nayirah fu registrata e inviata a settecento stazioni televisive, raggiungendo – si stima – un pubblico di oltre 53 milioni di persone nei soli Stati Uniti.
Ho fatto la volontaria all’ospedale al-Addan con altre dodici donne. Io ero la volontaria più giovane. Le altre donne avevano tra i venti e i trent’anni. Mentre ero lì ho visto i soldati iracheni entrare armati nell’ospedale. Hanno tirato fuori i bambini dalle incubatrici, hannno preso le incubatrici e lasciato i bambini a morire sul pavimento. È stato orribile.
La testimonianza di Nayirah fu trasmessa in tutto l’Occidente, venendo proiettata nei principali canali televisivi europei. Ma fu negli Stati Uniti che, per ovvie ragioni, l’impatto della testimonianza a livello di opinione pubblica fu più profondo che altrove. L’allora presidente George H. W. Bush ripercorse la testimonianza di Nayirah più di dieci volte nell’arco di un mese, ritrovandosi nottetempo dotato del consenso necessario a preparare l’operazione Desert Storm, la più grande manovra militare americana dalla Seconda guerra mondiale, che fu approvata dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite il mese seguente e dal Congresso il 3 gennaio 1991. Desert Storm poté avere luogo, anche se quasi nessuno sembra ricordarlo, grazie alla struggente testimonianza di Nayirah. E questo fu il problema: le autorità competenti avrebbero dovuto verificarla, perché era falsa.
Terminata l’operazione Desert Storm, e rientrate le truppe iraqene in patria, i primi giornalisti occidentali riuscirono ad entrare a Kuwait City. Tutti erano ansiosi di fare luce sugli orrendi crimini commessi dai soldati di Saddam, di indagare la testimonianza di Nayirah. Ma non trovarono nulla. Amnesty International fu la prima entità ad ammettere la mancanza di prove: il 13 giugno 1991, dopo aver ispezionato gli ospedali kuwaitiani, l’organizzazione nongovernative dichiarò di non aver trovato evidenze a supporto della testimonianza dell’adolescente che aveva commosso il mondo.
La terribile verità, però, sarebbe emersa completamente soltanto l’anno seguente: Nayirah non era una profuga, bensì la figlia dell’allora ambasciatore kuwaitiano negli Stati Uniti, Saud Nasir al-Sabah. L’intera testimonianza, dallo stile recitativo alla parlata – un inglese abilmente ritoccato, condito di piccoli errori e un marcato accento mediorientale –, fu confezionata da un’agenzia pubblicitaria. La prima guerra del golfo fu, letteralmente, venduta al pubblico americano (e non solo) da degli esperti di marketing.