Autore: Sandro Furlan – 18/06/2021
Da questa mattina, si vota in tutto l’Iran per l’elezione dell’ottavo Presidente della Repubblica Islamica che sostituirà l’attuale Presidente Rohani. Sembra scontata un’affluenza molto bassa, frutto della crisi pandemica associata ad una sfiducia sempre più diffusa di ampi strati della popolazione. L’esito appare scontato: vincerà il candidato conservatore supportato dal regime, l’Ayatollah Ebrahim Raisi. Raisi, quasi sconosciuto all’estero, è ben noto nel paese. Capo del sistema giudiziario iraniano dal 2019, nonché Vicepresidente dell’assemblea degli Esperti” [1]
Meno scontate appaiono le conseguenze di questa nuova Presidenza. Il sistema politico istituzionale iraniano assegna al Presidente un ruolo paragonabile ad un “Chief Executive Minister” mentre il potere reale rimane nelle mani della Guida Suprema, successore del fondatore della Repubblica Islamica, l’Ayatollah Ruhollah Khomeini. Tuttavia, il profilo del Presidente rivela l’indirizzo voluto dal Regime sia per quanto riguarda la politica interna, sia quanto interessa il tema dei negoziati internazionali, ed in primis con gli USA, sul nucleare.
Tutta la nomenklatura iraniana sostiene Raisi: dal clero più conservatore ai Guardiani della Rivoluzione il segnale è chiaro: Certamente, bisogna uscire dal regime sanzionatorio ma senza cedere un millimetro dai fondamenti della Repubblica Islamica. Del resto, intrinseco nello spirito conservatore, rimane la convinzione che cedere di un millimetro significa favorire il disfacimento dell’intero sistema. Inoltre, l’accerchiamento regionale ed internazionale sofferto dall’Iran fin dalla sua nascita, favorisce l’irrigidimento del regime.
Per meglio comprendere le ragioni che favoriscono la vittoria dell’ala conservatrice del regime, dobbiamo volgere lo sguardo al percorso storico intrapreso dalla rivoluzione in più di quattro decenni di vita. Percorso sofferto che trova nella ricchezza culturale persiana le ragioni della complessità del sistema politico ed istituzionale iraniano.
Background
Per meglio comprendere la traiettoria percorsa dall’Iran e quali potrebbero essere le conseguenze di queste elezioni, dobbiamo richiamare alcune evidenze del doloroso cammino intrapreso dalla rivoluzione iraniana in più di quattro decenni di storia.
Dopo decenni di sudditanza nei confronti del mondo occidentale, per la prima volta nella storia, nasce una Repubblica Islamica frutto di una vera rivoluzione. Una rivoluzione che sancisce la vittoria di una concezione teocratica dello Stato. Come nel caso di altre rivoluzioni anticapitaliste (sovietica, cinese), non furono pochi gli intellettuali occidentali che salutarono con entusiasmo tale vittoria. Nella “laicissima” Francia, un intellettuale del calibro di Michel Foucault celebrò l’evento ed il suo «spirito religioso» come «un’avvincente ribellione intellettuale al laicismo del pensiero moderno»[2].
Malgrado le enormi differenze di natura storica, culturale ed ideologica, potremmo annoverare la rivoluzione iraniana tra le grandi rivoluzioni della storia. In particolare, la rivoluzione sovietica e quella iraniana, in effetti, presentano alcuni caratteri comparabili. Rivoluzioni che videro popolo ed intellettuali combattere monarchie deboli (lo Czar Nicola, e lo Shah Mohammad Reza Palavi si trovavano in situazione di grande debolezza politica e personale), con eserciti incapaci di sostenere la monarchia o, addirittura, pronti a schierarsi con il nuovo regime. Rivoluzioni che offrirono un apparente spazio di libertà ma, che nello spazio di settimane, rivelarono il loro vero volto totalitario. Rivoluzioni che dovettero affrontare l’attacco concentrico di paesi stranieri (occidentali) terrorizzati dall’idea di doversi confrontare con il dilagare di rivoluzioni pronte a spazzare via le vecchie monarchie del Continente europeo o, nel caso iraniano di leadership mediorientali (in primis, Arabia Saudita e monarchie del Golfo, Iraq). Guerre subite (Russi Bianchi e coalizione arabo occidentale contro l’Iran) che contribuirono a consolidare le rivoluzioni grazie alla mobilitazione nazionalista dei rispettivi leader, più che all’ideologia dei regimi. Rivoluzioni che si sono caratterizzate per periodi di terrore prolungato (purghe staliniane, assassinio di oppositori e ogni forma di opposizione in nome della “salvezza della rivoluzione”) fino alla scomparsa di ogni forma di opposizione.
Ci sono voluti settant’ anni per assistere alla caduta del sistema sovietico, mentre più complesse potrebbero essere le dinamiche iraniane, in quanto la cultura persiana si caratterizza per un maggior pragmatismo e complessità rispetto a quella che fu la nomenclatura sovietica e la cultura russa caratterizzata da una certa rigidità nei suoi comportamenti sociali. Certamente, il sistema mediatico internazionale e l’avvento di Internet rappresentano strumenti molto più potenti di quelli esistenti all’epoca sovietica[3].
Lo Status Attuale
La rivoluzione iraniana ha celebrato il quarantennale della vittoria l’11 febbraio 2019. Nel 2017, John Bolton, partecipando a Parigi ad una riunione dell’organizzazione anti regime islamico “Mujaheddin del Popolo”, dichiarò che la Repubblica degli Ayatollah non sarebbe arrivata a festeggiare il quarantennale della rivoluzione[4], profezia non avveratasi anche se la celebrazione ha palesato la stanchezza di un sistema profondamente malato, seppur lungi dall’essere in fin di vita.
Certo, il consenso nei confronti del regime si è sensibilmente ridotto negli anni. Le manifestazioni di protesta e rivolta del 2017 e del 2018 hanno rappresentato un messaggio di forte dissenso che si è ampliato a larghi strati della società, uscendo dai tradizionali riferimenti sociali (ceto medio-alto residente a Teheran nord), per toccare ampie fasce della società anche in città mai toccate prima da manifestazioni di protesta.
Le sanzioni volute dal Presidente USA Trump alle quali è ancora sottoposto l’Iran sono state sempre evocate dal regime per giustificare ogni forma di inefficienza del sistema. È pur vero che tale isolamento economico e politico affligge parti sempre più rilevanti della società. Tuttavia, le ragioni della crisi sono molteplici:
• Nei decenni, il rilevante flusso migratorio di giovani laureati e professionisti verso l’Occidente (solo nello stato della California sono residenti circa 3 milioni di Iraniani) ha “impoverito” il paese che, dopo aver investito molto nel sistema educativo nazionale, assiste impotente ad una massiva fuga di cervelli
• Ovunque, e quindi anche in Iran, l’inefficienza dell’amministrazione pubblica che controlla una parte preponderante dell’economia nazionale vede proliferare la corruzione a tutti i livelli. Da molti anni, fin dall’elezione a Presidente di Mahmoud Ahmadinejad[5] uno dei punti principali della campagna elettorale è stata la “guerra alla corruzione”. Il fallimento su questo versante è patente, proprio perché intrinseco a sistemi con forte presenza statale nell’economia, fondati sulla rendita di prodotti soggetti al controllo diretto da parte del regime.
Nel corso dei decenni, il ruolo delle forze armate di élite (Pasdaran, il corpo dei Guardiani della Rivoluzione) [6] è accresciuto enormemente, diventando uno “Stato nello Stato” ed una potenza economica con interessi nei gangli vitali dell’economia iraniana. Dopo aver salvato la rivoluzione dall’attacco iracheno (supportato da Usa e monarchie del Golfo) i Pasdaran sono divenuti la spina dorsale del regime, raggiungendo l’apice del potere grazie ai successi militari in Siria contro ISIS-DAESH. Simbolo di questi successi fu il generale Qasem Soleimani, capo delle forze militari all’estero (unità Niru-ye Qods). Soleimani fu l’uomo forte del regime in quanto, senza il sostegno delle forze militari d’élite, difficilmente il regime degli Ayatollah potrebbe sostenersi a lungo. L’uccisione di Soleimani il 3 gennaio del 2020 ha rappresentato il colpo più duro subito dalla Repubblica islamica in tutti questi decenni. L’assassinio del generale ha rivelato un indebolimento significativo dei servizi d’intelligence iraniani. Un’operazione di tale importanza non sarebbe stata possibile senza profonde infiltrazioni o tradimenti dei livelli più elevati della security iraniana. Del resto, l’assassinio di Soleimani è il punto più alto di una serie di attacchi contro punti nevralgici del sistema militare e del programma nucleare dell’Iran:
- Nave militare misteriosamente affondata
- Attentato all’impianto chimico di Tovaledon
- Assassinio del capo del programma nucleare iraniano
- Incendio al centro di arricchimento uranio di Natanz
- Incidente alla struttura nucleare di Parchin
Si tratta di una serie di attacchi “probabilmente” perpetrati dal Mossad israeliano con l’avvallo dell’amministrazione Trump. La reazione iraniana è stata debole [7] e, per il momento, può contare soltanto su possibili ritorsioni degli Hezbollah libanesi profondamente indeboliti a loro volta dal disastro socio-economico nel quale si trova il Libano.
Oggi, quindi il regime iraniano si trova profondamente indebolito:
- economicamente (inflazione intorno al 40%, disoccupazione elevata, crisi pandemica perdurante), anche per gli alti costi delle azioni militari intraprese in Siria;
- socialmente, con ampie fasce della popolazione stanche di un regime incapace di assicurare una prospettiva di crescita per migliorare le condizioni di vita;
- dalle falle evidenti nella security del regime appare evidente il rischio di implosione
Rievocando la complessità della società iraniana, sarebbe un grave errore considerare moribonda la Repubblica Islamica. Persino Trump, comprese che un intervento armato per abbattere il regime sarebbe votato ad un disastroso fallimento. Pochi in Iran lo avrebbero auspicato e, una volta tanto, l’amministrazione americana fece tesoro degli errori passati (invasione irachena). La popolazione, nel suo complesso, è stanca ma, in nessun caso, accetterebbe un’occupazione straniera per abbattere il regime. Molti in Iran hanno perduto ogni illusione e sperano in un appeasement con gli USA affinché venga posto fine al regime sanzionatorio e migliorino le condizioni economiche. Inoltre, come per ogni regime autoritario, esiste ancora, tra le fasce più povere della società che vivono grazie ai sussidi governativi, un certo consenso. Il sistema, del resto, da sempre ha avuto il sostegno di milioni di persone che beneficiano di piccoli privilegi aderendo a forze di vigilanza (i cosiddetti Basiji) [8] incaricate della vigilanza sulla morale islamica ed in qualità di milizia per il mantenimento dell’ordine pubblico. La consistenza di questa organizzazione è ignota, ma l’agenzia stampa IRNA, organo ufficiale governativo, parla di 12,5 milioni di persone (!) tra le quali militano 5 milioni di donne (!). È evidente che una buona parte dei Basiji mantiene, gioco forza, un certo consenso al regime dal quale riceve qualche beneficio.
Per quanto indebolite, le forze militari di élite non sono disponibili ad abbandonare il regime in quanto sono parte integrante del sistema. La storia ci ricorda che nessuna rivoluzione o controrivoluzione è possibile senza il sostegno o la neutralità delle forze armate, specie se si tratta delle più efficienti. Del resto, vediamo, ad esempio, anche nel caso del Venezuela, regnare lo status quo di un regime che si sostiene grazie ad un consenso di una parte della popolazione e delle forze armate, parte integrante del sistema.
Quali Prospettive?
Cosa possiamo quindi attenderci dalla Presidenza Raisi con il controllo di Ali Khamenei, Guida Suprema dell’Iran [9], 82 anni, successore diretto del padre della rivoluzione, Ruhollah Khomeini. La politica iraniana, ricca di connotati propagandistici (dei quali non possiede certo il monopolio) si è sempre rivelata pragmatica. Basti ricordare che, il primo Presidente afghano, Hamid Karzai, fu scelto in accordo con gli USA in chiave anti-talebana.
La questione del nucleare è al centro delle accuse (paesi del Golfo e potenze occidentali) di mire egemoniche iraniane nella regione: Dal Libano alla questione palestinese, dal sostegno alla minoranza Houthi in Yemen alla permanenza di truppe iraniane in Siria. L’Iran ha sempre negato di puntare all’arma atomica, ma allo stesso tempo afferma che non esistono ragioni per impedire all’Iran di dotarsi di armi nucleari delle quali Israele è già in possesso. Inoltre, il sostegno a forze sciite dallo Yemen al Libano rientra nel concetto di rampe di lancio dalle quali proiettare attacchi contro Israele e l’Arabia Saudita in caso di ostilità aperte contro la Repubblica Islamica.
L’idea di un programma nucleare, del resto, nacque sotto il regime dello Shah Reza Pahlavi, all’epoca sostenuto dagli USA con tecnologia francese e tedesca. Tuttavia, soltanto nel 1995, con il sostegno della Russia fu avviata la costruzione di una centrale elettronucleare a Bushehr, sulla costa meridionale del Golfo Persico, ultimata nel 2012.
Dopo essere pervenuti ad un faticoso accordo sul nucleare con l’amministrazione Obama nel 2015, la questione si è riaperta con l’arrivo alla Casa Bianca di Donald Trump. L’uscita dall’accordo ed il ristabilimento di nuove sanzioni ha bloccato la situazione. Ora, con l’elezione di Biden negli USA si riaprono nuove prospettive: un governo israeliano appena formatosi senza il “falco” Netanyahu ed un nuovo orientamento della politica USA, che non vede nell’Arabia Saudita, il paese di riferimento nella regione potrebbero favorire un accordo con l’Iran.
Se il regime iraniano vuole continuare a mantenersi al potere è costretto a trattative serie per un nuovo accordo e, proprio per questo motivo, non può permettersi cedimenti nella politica interna. Un Presidente che ha dato prova di rigidità nella gestione dell’ordine pubblico (sic) usando la mano pesante attraverso l’ordine giudiziario può trattare in una posizione di minor debolezza. Certo, le aspettative di riforme e maggior libertà nei comportamenti sociali non sono tra le più rosee, ma, forse questo è il prezzo da pagare per alleviare la crisi economica che attanaglia il paese.
Una società può tollerare la mancanza di libertà e può pure tollerare periodi di grandi sacrifici e sofferenze, ma difficilmente può tollerare entrambi per molti anni. Lo abbiamo visto per l’Unione Sovietica e lo stanno vivendo i Cinesi: la rigidità ideologica presenta enormi rischi che il pragmatismo sa evitare. Vedremo quanto pragmatismo saprà dimostrare il regime iraniano.
L’ultimo Presidente dell’Unione Sovietica Michail Gorbačëv, era convinto che il sistema sovietico poteva essere riformato. L’Unione Sovietica si smembrò e la sua speranza non si avverò. Tuttavia, non molti rimpiangono quella caduta. Al contrario, “l’economia socialista di mercato cinese”, consente al Partito Comunista Cinese di rimanere al potere di una nazione ormai avviata a diventare una grande potenza. La Realpolitik, a tutte le latitudini, è spesso dolorosa ma, purtroppo, continua ad animare i comportamenti di democrazie e dittature. Rimane la speranza che, come in molti casi della storia, di Realpolitik non si muoia… troppo.
[1] Assemblea composta da 88 membri che ha il compito di eleggere la Guida Suprema e, eventualmente, il potere di destituirla. Scelta dal Consiglio dei Guardiani (comparabile ad un Consiglio Costituzionale ed allo stesso tempo ad una Commissione Elettorale). Il Consiglio è composto da 12 membri 6 dei quali scelti dalla Guida Suprema, mentre gli altri 6 sono giuristi scelti dal Parlamento su proposta del potere giudiziario (…controllato dalla Guida Suprema…)
[2] Ramin Jahanbegloo, “Chi Comanda in Iran” in Limes, 22/11/2005.
[3] Il ruolo di Internet ha giocato un ruolo non secondario nell’esplosione delle cosiddette “Primavere Arabe”. Tuttavia i rapporti di potere tra opposizione e forze di regime continuano a svolgere un ruolo essenziale nell’esito dei movimenti sociali.
[4] Luciana Borsatti “l’Iran celebra i quant’anni della Rivoluzione” Huffinghton Post, 10/02/2019.
[5] Sesto Presidente della Repubblica islamica, dall’agosto del 2005 all’agosto del 2015, primo Presidente “laico” non appartenente al clero
[6] Traslitterazione dal Farsi di “sepāh-e pāsdārān-e enghelāb-e eslāmi”
[7] All’evidenza ci vorrà del tempo prima che le forze di sicurezza iraniane ritrovino una certa efficienza e capacità di risposta.
[8] Traslitterazione dal Farsi “Nirouy-e moqavemat-e basij” ovvero “Forza di Resistenza e Mobilitazione”
[9] Ali Khamenei, nato nella città religiosa di Mashhad il 19 aprile del 1939. Da sempre al fianco fi Khomeini, fu uno dei leader nella gestione della guerra a seguito dell’attacco iracheno tra il 1980 ed il 1988. Eletto presidente dal 1981 al 1989, fu fin dall’inizio molto vicino ai Guardiani della Rivoluzione.
Sandro Furlan, analista senior – Vision & Global Trends- International Institute for Global Analyses
Articoli di Sandro Furlan pubblicati nel sito di Vision & Global Trends. International Institute for Global Analyses: