Autore: Emanuela Irace – 21/05/2021
<<I grandi sono grandi solo perché noi siamo in ginocchio. Alziamoci!>>. Stendhal
Colonne di fumo nero nel cielo sopra Gaza, case ammonticchiate l’una all’altra, palazzi di sei piani ridotti a detriti. Sono solo alcune delle immagini pubblicate in questi giorni dall’agenzia cinese Xinhua. Fotogrammi di una guerra infinita che si ripropone a cadenza continua. Immagini che hanno fatto il giro del mondo preoccupando il Governo di Pechino per l’escalation di violenza che oppone Israele e Palestina. Un territorio difficile, diventato in pochi anni snodo strategico per gli interessi cinesi in Medio Oriente e Nord Africa. Una presenza che da anni non è più solo economica ma anche militare. Obiettivo proteggere gli investimenti.
Stabilità politica e assenza di conflitto è dunque il mantra per la messa in sicurezza di ogni progetto egemonico della Cina, basato su investimenti commerciali e infrastrutture. Da qui la ricollocazione di Pechino come possibile interlocutore nella guerra tra Israele e Palestina. Una forma di mediazione che a forza di attivismo diplomatico serve anche a rinvigorire il Beijing Consensus.
Scontri per la pace
La guerra tra Israele e Hamas, che nei primi otto giorni ha distrutto case, scuole e infrastrutture provocando circa 240 vittime tra i palestinesi e 10 tra gli israeliani, è stata al centro delle riunioni straordinarie del Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Incisiva la posizione assunta da Pechino che in quattro punti ha espresso le priorità per il cessate il fuoco. La fine delle violenze contro i civili è stata un monito per Israele che nell’ottica cinese deve dar prova di autocontrollo e moderazione. Così si è espresso il Ministro degli esteri Wang Yi, che ha esortato il Governo di Netanyahu ad adempiere alle proprie obbligazioni conformemente ai trattati internazionali e alle risoluzioni dell’Onu. La Cina vuole la fine dell’embargo e dell’assedio di Gaza, la sicurezza per i civili nei territori occupati e l’accesso agli aiuti umanitari. “Il sostegno internazionale è un obbligo” ha scandito il Ministro, sottolineando il ruolo delle Nazioni Unite per scongiurare la catastrofe umanitaria.
Una nuova postura
L’attivismo diplomatico della Cina, già sperimentato di recente in Afghanistan, potrebbe diventare una alternativa ai tradizionali canali di mediazione USA. L’obiettivo è presentarsi come interlocutore positivo sui vari tavoli internazionali inaugurando una inedita forma di postura politica. L’inazione di Washington al Consiglio di Sicurezza di metà maggio non è sfuggita a Zhao Lijian. Il porte-parole del Ministero degli esteri ha infatti stigmatizzato la politica dei due pesi e due misure dell’America: <<il mondo non può non domandarsi perché gli Stati Uniti non abbiano attenzione alla difesa dei diritti umani del popolo palestinese>>.
Intanto, mentre a Gerusalemme e in molte capitali europee si susseguono le manifestazioni a sostegno della Palestina, l’Unione sindacale del porto di Livorno ha impedito il carico di armi a una nave diretta nel porto israeliano di Ashdod. <<Armi ed esplosivi che serviranno ad uccidere civili palestinesi>>, si legge nel comunicato di protesta. Nelle stesse ore i media cinesi hanno dato ampio spazio al via libera del Congresso (il 5 maggio scorso) alla vendita di armi a Israele. Si tratta di blindati e ordigni a guida di precisione, bombe di tipo JDAM e GBU-39, per un totale di 735 milioni di dollari.
L’incubo della sicurezza.
Da sempre limite e motore della politica israeliana, l’incubo della sicurezza rappresenta un terreno scivoloso per la Cina che dal 1992 intrattiene rapporti diplomatici e commerciali con lo stato ebraico. E contemporaneamente stringe accordi economici con i suoi nemici. La soluzione a due Stati, e il rispetto delle frontiere del 1967 con Gerusalemme est capitale della Palestina, è stato l’atout al quale Pechino non è mai venuto meno. Dal 2009 la Cina è il secondo partner commerciale di Israele. Una collaborazione potenziata dalla firma del Partenariato strategico per l’innovazione nel 2017. L’accordo, fortemente voluto dal Premier Netanyahu, ruota su tre cardini: economia, tecnologia e cultura. Gli investimenti cinesi nel porto di Haifa, approdo logistico della Sesta Flotta della US Navy, insieme agli investimenti nei settori del software, servizi IT ed elettronica sono diventati emblema della collaborazione sinoisraeliana.
Il pragmatismo dei capi
Ma il carattere preminente della partnership tra Israele e Cina è la personalità e il pragmatismo impresso dai due capi. Da un lato, l’attenzione di Xi Jinping a non turbare il premier israeliano per le strette relazioni con Iran, Iraq e Monarchie del Golfo, rapporti potenziati durante il tour di fine marzo. Dall’altro, la determinazione di Netanyahu a mantenere la partnership con la Cina che disturba non poco l’amministrazione americana, specie per l’autonomia di condotta in materie strategiche. A complicare le cose – e a preoccupare Washington e Tel Aviv – oltre all’ingresso della Cina nell’area Mena, è l’interscambio economico con l’Iran. Amplificato dal recente accordo siglato dai due paesi che prevede la corresponsione di una somma gigantesca, spalmata in 25 anni, con cui la Cina comprerà greggio e gas iraniano che pagherà con investimenti nell’industria e nelle infrastrutture. Una operazione che conferma l’Iran principale partner commerciale della Cina. E in futuro forse anche qualcosa in più. Con buona pace di Israele.
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