Autore: Fabrizio Vielmini – 02/05/2021
Il 22 aprile il Centro di studi eurasiatici e la Facoltà di relazioni internazionali dell’Università statale di San Pietroburgo hanno condotto una tavola rotonda internazionale dal titolo “Asia centrale: problemi di sicurezza nel contesto della continuazione della guerra in Afghanistan” (Tsentral’naya Aziya: problemy bezopasnosti v kontekste prodolzheniya afganskoy voyny). L’evento si è svolto in formato ibrido, in presenza nell’ateneo e in modalità a distanza. In tal modo, l’orientalista ed organizzatore dell’evento, il professor Alexander Knyazev, ha potuto riunire un nutrito gruppo di esperti di rilievo dell’area centrasiatica – provenienti da Afghanistan, Kazakistan, Tagikistan, Uzbekistan, Iran, Germania ed Italia (rappresentata da Vision & Global Trends) – oltre che rappresentanti di istituzioni diplomatiche ed accademiche (fra cui il Segretario Generale dell’Assemblea interparlamentare della CIS, D. Kobitsky).
Sfondo obbligato dei dibattiti, l’annunciato ritiro delle truppe statunitensi e straniere dall’Afghanistan, che, secondo quanto dichiarato dal presidente Biden, dovrebbe avvenire entro l’11 settembre di quest’anno. L’Asia centrale, e oltre essa la Russia, si confrontano quindi con la prospettiva delle minacce che una nuova era di anarchia afghana farà gravare sulle proprie frontiere, quali la diffusione dell’estremismo religioso e del terrorismo, la produzione ed il traffico di eroina, migrazioni incontrollate ed altro.
Aprendo i lavori, Knyazev ha esortato gli intervenenti a concentrarsi sugli aspetti pratici di ciò che potrà accadere nel martoriato paese dopo tale data: “un esperto differisce da un diplomatico in quanto può dire la verità, sempre e comunque argomentando le sue posizioni“, ha esordito.
Considerando il contesto geopolitico internazionale in cui le guerre afghane sono inserite da oltre quarant’anni, gli esperti sono stati chiari: gli USA non abbandoneranno mai un crocevia strategico di prim’ordine quale l’Afghanistan. La presenza statunitense cambierà solo nel profilo, con maggiore rilevanza dei contractor (i mercenari ingaggiati dal Pentagono, attualmente sarebbero fra i 4.000 ed i 20.000, in ogni caso ben di più delle truppe regolari), l’arruolamento di milizie locali ed il mantenimento delle basi strategiche di Kabul e Baghram, punti di appoggio chiave per l’aviazione e l’intelligence USA per operare “sottocoperta” a disturbo degli interessi delle adiacenti Cina, Iran e Russia.
Dall’Afghanistan, il Consigliere del Meshrano Jirga (la Camera alta del Parlamento), Ikmatullakh Dashti vede il rischio di una ripetizione dell’errore già compiuto dell’URSS nel disincagliarsi dal paese. Gli Usa, che in precedenza avevano direttamente foraggiato le forze islamiste radicali in Afghanistan, si ritirano senza prevedere le conseguenze per Kabul. Peggio, “a differenza dell’URSS, gli americani non ci lasciano nulla di buono…ma niente spazio al panico, sapremo difendere il nostro paese”.
Pessimismo è stato espresso anche da una personalità russa estremamente edotta di cose afghane, Vladimir Plastun, “patriarca” degli studi su un paese in cui lavorò a lungo negli anni dell’intervento sovietico. Considerato che i Pashtun non acconsentiranno mai né al venir meno della loro supremazia nelle strutture statali, né alla creazione di una frontiera rigida con la maggioranza dei loro co-etnici in Pakistan, scenari di caos sono i più probabili per il futuro. Ciò nonostante, è chiaro che gli USA non abbandoneranno la loro testa di ponte eurasiatica, il cui controllo era l’unico obiettivo dell’invasione del 2001.
Sultan Akimbekov, uno dei maggiori afganisti del Kazakistan, già consigliere presso la Presidenza di quel paese, ha osservato la vacuità del cercare di imporre modelli politici occidentali ad un paese quale l’Afghanistan: “gli ultimi vent’anni del conflitto sono il risultato del tentativo fallito di applicare un modello liberale ad una società orientale. Ogni elezione è stata causa di profondo stress per la società afghana”, ha affermato lo storico kazakistano sottolineando come la politica del paese possa solo essere il risultato di un compromesso fra le differenti comunità, non delle percentuali di voti che i loro rappresentanti riescono a raccogliere. Nemmeno l’istituto della Presidenza contribuisce a stabilizzare le cose. Piuttosto, un modello politico alla libanese potrebbe essere tentato, dacché si potrebbe così creare un quadro costituzionale adatto a garantire l’equilibrio fra i differenti gruppi etnico-religiosi che compongono il paese.
Akimbekov ha anche osservato che gli Stati Uniti hanno in ogni caso svolto in questi anni un ruolo di mediazione tra le varie forze centrifughe del paese. La loro uscita formale creerà una situazione molto difficile per l’Asia centrale.
Un’incognita legata alla nuova congiuntura regionale concerne l’attuale situazione politica dell’Uzbekistan a seguito del cambio di regime operato dal presidente Shavkhat Mirzioyev dal 2017. Il Direttore del Centro uzbeko per lo studio delle minacce regionali, Viktor Mikhailov ha rilevato come, nelle nuove condizioni di relativa liberalizzazione, radicalizzazione e reclutamento siano in crescita fra la gioventù uzbeka nel paese – oltre che all’interno della nutrita diaspora regionale ed estera. Inoltre, Mikhailov considera come le restrizioni pandemiche, con la maggiore esposizione dei giovani ad internet e la chiusura delle frontiere, abbiano esacerbato la situazione. In particolare, dato che gli elementi radicalizzati non possono ora spostarsi verso le zone di guerra, potrebbero tentare di organizzare atti terroristici nelle repubbliche dell’Asia centrale ed in Russia.
Lo scrivente ha convenuto sul fatto che gli Stati Uniti non lasceranno completamente il Paese. In ogni caso però, l’annuncio americano dell’uscita, nel momento in cui l’Afghanistan continua ad essere un paese nel caos, riveste un significato importante dal punto di vista dell’analisi delle relazioni internazionali. Washington ha di fatto riconosciuto la propria impotenza a svolgere il ruolo di egemone del sistema internazionale che gli USA avevano preteso dopo la fine della Guerra Fredda e che l’amministrazione Bush aveva voluto rilanciare invadendo il paese e poi l’Iraq vent’anni orsono. Il limite delle forze e delle possibilità statunitensi è stato segnato, soprattutto in termini di pretendere di voler imporre il proprio modello per determinare il destino di altri popoli. Vielmini ha anche sottolineato il prezzo pagato dall’Italia per aver seguito in maniera pedissequa per vent’anni gli USA nella loro avventura: 50 soldati e miliardi di euro profusi in Afghanistan. Su tale sfondo sarebbe lecito attendersi da parte europea un atteggiamento più critico nei confronti delle attuali concezioni di sicurezza occidentali.
Ancora oggi rimangono d’attualità le parole con cui Barnett Rubin introduceva la sua magistrale analisi della situazione geopolitica dell’Afghanistan nel 1995:
The people of one of the poorest countries in the world successfully resisted a superpower. They had to fight for their lives in a world system imposed on them by others.
If the situation in Afghanistan is ugly today, it is not because the people of Afghanistan are ugly. Afghanistan is not only the mirror of the Afghans; it is the mirror of the world.
(Barnett Rubin, The Fragmentation of Afghanistan: State Formation and Collapse in the International System, Yale University Press, 2002)