Author: Ilaria Urbani – 26/11 / 2018
Sfide e opportunità a livello globale
Il quattordicesimo obiettivo di sviluppo sostenibile sentenzia che è necessario “conservare e utilizzare in modo durevole gli oceani, i mari e le risorse marine per uno sviluppo sostenibile”. Se le proprietà ambientali dei mari e degli oceani, come la capacità di assorbire il 30% dell’anidride carbonica mondiale o la produzione del 50% dell’ossigeno necessario da parte del fitoplancton marino, sono di facile comprensione, molto spesso vengono tralasciate le proprietà economiche. L’attività economica degli oceani è stimata tra i tre e i sei mila miliardi di dollari. Questi, infatti, contribuiscono all’economia mondiale in vari modi. Basti pensare che il 90% del commercio globale utilizza il trasporto marino, che i cavi sottomarini trasmettono il 95% di tutte le telecomunicazioni globali e che mari e correnti possono costituire risorse energetiche emergenti e a basse emissioni di carbonio. Tutte e tre i dati sono molto indicativi in quanto mostrano che settori trainanti come commercio, telecomunicazioni e energia sono dipendenti dal mare. È chiaro, dunque, che il mare non riguarda unicamente la questione ambientale ma anche quella economica e sociale: attraverso attività come la pesca sostenibile, la produzione di energia rinnovabile ed il trasporto navale ecologico, le nazioni possono migliorare i tassi di occupazione e le condizioni medico-sanitarie diminuendo congiuntamente povertà, malnutrizione ed inquinamento. Al contrario, un utilizzo non sostenibile dei nostri mari minaccia il fragile equilibrio dell’ecosistema marino, provocando danni anche alle attività umane e ai relativi benefici che dipendono da questo. Sono molti i fattori che possono minare l’equilibrio marino. Tra le principali cause si pensi alla navigazione che è sempre più intensa. Le imbarcazioni, infatti, oltre all’emissione di GHG, possono involontariamente portare specie aliene andando a danneggiare l’equilibrio dell’ecosistema e possono, inoltre, essere causa di incidenti come le fuoriuscite di petrolio. L’ecosistema marino è poi minato dalle operazioni di dragaggio, ovvero dall’asportazione di sabbia, ghiaia e detriti dal fondale marino, operazione effettuata per mantenere i corsi d’acqua navigabili o per ricostituire le spiagge in modo da compensare il fenomeno dell’erosione delle coste. Ulteriore danneggiamento dei nostri mari è causato dalla produzione di energia offshore. Si possono verificare danneggiamenti degli impianti che provocano fuoriuscite di gas o petrolio dalle autocisterne o gasdotti ed infine il processo di smantellamento e pulizia dei siti più vecchi è lungo e costoso, di conseguenza, spesso non viene completato efficientemente.
Riportando queste esternalità in un concetto più comprensivo e globale, si può affermare che un fenomeno come il cambiamento climatico esaspererà l’impatto di tali pressioni in grado sempre maggiore. L’innalzamento del livello del mare, per esempio, ridurrà sempre di più le aree litorali; gli aumenti della temperatura marina varieranno la distribuzione di plancton – la base della catena alimentare marina; ed infine, l’acidificazione dell’acqua marina, dovuta alla CO2 assorbita, andrà a ridurre la capacità degli oceani di tamponare l’eccesso di CO2 nell’atmosfera e a danneggiare organismi marini.
Il caso italiano all’interno del framework europeo
Lo sfruttamento del territorio, delle sponde di laghi e fiumi e delle coste, sta mettendo negli ultimi decenni a dura prova gli habitat acquatici italiani. Gli indicatori per la valutazione della qualità delle acque ci mostrano che per quanto concerne i mari, oltre alle sostanze portate dai fiumi, l’inquinamento è dovuto prevalentemente al petrolio e ai suoi derivati, che in grandi quantità viaggiano per nave. Incidenti, scarichi, pulizia di cisterne in mare aperto portano ogni anno nel Mediterraneo 100-150 mila tonnellate di idrocarburi. Nel Mare nostrum è presente la quantità di catrame pelagico media più alta del mondo, dieci volte quella dei mari del Giappone, 50 volte quella Golfo del Messico. Dal bilancio di Goletta Verde del 2015 sullo stato di salute del mare italiano è risultato che il 45% dei campioni di acqua analizzati detiene cariche batteriche superiori ai limiti imposti dalla normativa. Si tratta di un punto inquinato ogni 62 km di costa. L’inquinamento dei nostri mari è causato principalmente dagli scarichi non depurati che attraverso fiumi e canali si riversano direttamente in mare; è, quindi, il risultato della mancanza di un trattamento di depurazione adeguato, fenomeno che riguarda il 42% degli scarichi fognari del nostro paese. Tale deficit depurativo è confermato da tre sentenze di condanna della Commissione europea riportate negli ultimi cinque anni, a causa del mancato rispetto della direttiva relativa alla depurazione degli scarichi civili. Tale procedura riguarda un agglomerato su tre e le regioni maggiormente interessate sono la Campania, con l’81% degli agglomerati condannati, la Sicilia con il 73% e la Calabria con il 62%. Al danno ambientale, si addiziona anche quello economico in quanto le sanzioni UE sono pari a 476 milioni di euro l’anno a partire dal 2016 fino al completamento delle opere.
Mediterraneo Mare di Plastica
Tra le altre cause che danneggiano il nostro mare e che ne aumentano l’inquinamento vi sono le infrazioni: 14.542 quelle accertate nel 2014 dalle forze dell’ordine e dalle capitanerie di porto; circa 40 al giorno, 2 per ogni chilometro di costa. Ulteriore problema che assedia i mari europei e che non manca nel Mediterraneo è il marine litter, i rifiuti marini. Se ne contano 27 per ogni chilometro quadrato, il 90% di questi è materiale plastico. I rifiuti galleggianti mostrano in realtà solo una faccia della medaglia, e paradossalmente la più splendente, in quanto il 70% dei rifiuti che entrano nel sistema marino affondano, continuando a frammentarsi ed accumularsi. Secondo i dati dell’Università di Genova ci sono circa 40 chilogrammi di rifiuti sommersi ogni chilometro quadrato di fondale. La FAO afferma che oltre 6 milioni di tonnellate di materiali solidi e pericolosi di origine umana vengono scaricati ogni anno nei mari del mondo con ripercussioni sull’ambiente, sull’economia e sulla fauna marina, tenendo conto dell’impatto delle microplastiche (i frammenti più piccoli che si generano per degradazione dei materiali ad opera degli elementi climatici) che, ingerite direttamente o involontariamente dalla fauna marina, entrano nella nostra catena alimentare. In Italia tale fenomeno è conseguenza di un’assenza di sistemi di raccolta e smaltimento nei porti e di un gap normativo, in quanto i pescatori sono costretti a rigettare in mare i rifiuti finiti accidentalmente nelle proprie reti. È necessario quindi contrastare e mitigare questo fenomeno ed il miglior modo sarebbe quello di adeguarsi alla direttiva europea (2008/56) della Marine Strategy, completamente dedicata all’ambiente marino e che prevede il raggiungimento di un buon stato ecologico per le acque marine di ogni paese membro, entro il 2020. Tale adeguamento andrebbe implementato in coerenza con l’entrata in vigore del Piano di azione Regionale sulla gestione dei rifiuti marini nel Mediterraneo adottati dalle Parti della Convenzione di Barcellona nel dicembre 2013, in cui il Mediterraneo diventa la Regione pioniera nell’adozione di misure giuridicamente vincolanti sui rifiuti marini.
La suddetta direttiva marina fornisce l’impulso legale per l’Unione Europea per salvaguardare i suoi mari e oceani come parte di una strategia integrata. L’obiettivo primario è di raggiungere un Good environmental status (GES) delle acque marine europee entro il 2020 con un approccio integrato che concerne tre pilastri fondamentali:
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Ecosistemi protetti: “mari puliti, salubri e produttivi” à la direttiva definisce il GES come lo stato ambientale delle acque marine che fornisce oceani e mari ecologicamente diversi e dinamici e che sono puliti, salubri e produttivi”. GES vuol dire che i differenti utilizzi delle risorse marine sono perpetrati ad un livello sostenibile, garantendo la loro continuità ed integrità per le generazioni future. La pesca e le altre attività umane di sfruttamento vengono limitate dal rendimento massimo sostenibile, maximum sustainable yield (MSY), termine che indica la quantità massima di risorse (fauna marina) che si può prelevare in un periodo indefinito di tempo senza danneggiare lo stock. Per una gestione di questo tipo è necessario passare dallo sfruttamento a tutti i costi di stock diminuiti nel tempo a una pesca razionale di stock abbondanti. Ciò comporterà un aumento delle dimensioni degli stock, un maggior potenziale di cattura, margini di profitto più alti e aumento della redditività media — in altre parole, reddito aggiuntivo per l’industria ittica. Questo approccio porterà anche a catturare pesci più grandi con un prezzo di mercato al chilo maggiore, oltre che ad avere meno pesci di dimensioni inferiori alla taglia minima e dunque meno rigetti. Inoltre, poiché ci vuole meno tempo per catturare una tonnellata di pesce da uno stock abbondante che da uno più piccolo, si spenderà meno per il carburante e si ridurranno le emissioni di carbonio provenienti dalle imbarcazioni da pesca. Infine i consumatori potranno usufruire di una scelta molto maggiore di pesce da stock UE in buono stato di conservazione ambientale. Ulteriore obiettivo fondamentale all’interno di questo primo pilastro della Marine Strategy è prevenire il declino della biodiversità; ciò significa che la qualità degli habitat e la distribuzione ed abbondanza delle specie deve essere mantenuta e migliorata, in linea con le condizioni climatiche e geografiche locali e regionali. Al fine di mantenere la biodiversità, gli stati membri devono sviluppare ed implementare misure protettive, una soluzione possibile è la creazione di un network di Aree Marine Protette, aree specifiche e determinate dei nostri oceani, mari e coste in cui le specie animali e gli habitat sono protetti tramite strumenti legali o effettivi dalle attività che danneggiano o che causano instabilità all’ambiente.
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Secondo pilastro è l’utilizzo sostenibile delle risorse marine europee: la direttiva marina punta all’utilizzo delle risorse ambientali marine e costali ad un livello sostenibile che “salvaguardi l’utilizzo potenziale e le attività relativo alle risorse marine per le generazioni future e presenti”. Per raggiungere tale obiettivo è necessario implementare un approccio integrato che garantisca che le pressioni generate dalle attività umane siano mantenute all’interno dei livelli compatibili con il raggiungimento del GES e che la capacità dell’ecosistema marino alla risposta di cambiamenti indotti dall’uomo (come i cambiamenti climatici) non venga compromesso. Questo vuol dire che è necessario tener conto della preservazione e del mantenimento degli ecosistemi all’interno dei processi di sviluppo di attività socio-economiche. Il costo delle attività umane sugli ecosistemi, cosi come i benefici derivati da queste attività alla società umana, devono necessariamente essere sistematicamente stimati.
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Terzo pilastro è il common approach, ovvero garantire un approccio cooperativo a livello europeo e regionale, in quanto sinergie e cooperazione a più livelli possono contribuire a sviluppare un approccio comune e ad implementare azioni coordinate per proteggere i nostri mari. Condividere le acque non significa solo condividerne la bellezza ed i benefici, ma significa anche rispondere insieme alle molteplici sfide che devono essere affrontate nel raggiungimento del GES. Sviluppare approcci comuni, unire le risorse, condividere know-how e best practices, sono fattori vitali per garantire che la Strategia Marina sia efficace, consistente e costruita sui migliori saperi e strumenti scientifici e tecnici disponibili.
Tutela del territorio e del mare
L’Italia deve assicurare l’implementazione di misure atte a migliorare la condizione dei propri mari per garantire benefici ai propri cittadini a livello sia economico che sociale, ricordando da una parte le sanzioni europee che gravano sul bilancio, dall’altra gli innumerevoli benefici che un mare non inquinato può garantire. Alla base di queste politiche ci deve essere un background di solidità economica e sociale, dato, per esempio, dalla promozione ad una reale partecipazione delle Comunità, dall’affermazione del concetto di inalienabilità del diritto di accesso all’acqua, dall’intervento con forme di fiscalità generale a sostegno di situazioni particolarmente critiche, e da una gestione sostenibile della risorsa. Oltre quindi, alla partecipazione attiva della popolazione in linea alla direttiva europea 2000/60, vi sono misure gestionali e logistiche da razionalizzare e migliorare. Ancora oggi in Italia, il 25% dei cittadini scarica i reflui nei fiumi, nei laghi e nel mare senza depurazione; è quindi necessario completare la rete di depurazione sul territorio, adeguandola agli standard tecnologici e di qualità. Il 15% della popolazione in Italia non è servita dalla rete fognaria, il 20% delle condotte non sono allacciate ad impianti di depurazione e, dato ancora più grave, il 70% delle fogne scorre in reti miste che raccolgono gli scarichi civili (acque nere e grigie) e le acque meteoriche (acque bianche). È necessario e urgente completare il sistema di raccolta degli scarichi, attivando fin da subito interventi volti alla separazione delle acque di pioggia (acque bianche, da trattenere per favorirne l’infiltrazione) dalle acque di scarico (acque nere) per migliorare l’efficienza della depurazione. Al fine di favorire atteggiamenti e pratiche sostenibili è necessario, inoltre, favorire l’utilizzo di acqua di rubinetto. Il nostro Paese ha il primato europeo di consumo di acqua in bottiglia, causando un uso di oltre 350 mila tonnellate di PET, per un consumo di circa 700 mila tonnellate di petrolio e l’emissione di 1 milione di tonnellate di CO2, oltre una gran quantità di rifiuti plastici che solo per un terzo vengono avviati a raccolta differenziata. Sul percorso della sostenibilità occorre, poi, un ripensamento più generale della pianificazione, che comprenda anche quella territoriale e urbanistica; fermare il consumo di suolo come primo passo e ridurre l’impermeabilizzazione del terreno deve essere una priorità assoluta delle amministrazioni locali applicando le tecniche e i materiali che permettano uno sviluppo urbano che garantisca la permeabilità e favorisca la laminazione delle acque.
Si può conclusivamente affermare che in Italia ci sono molte misure e politiche da implementare, sia con il fine di migliorare la condizione nazionale, sia in un’ottica di coordinamento con l’Europa e nel raggiungimento del più ampio obiettivo globale di riduzione dell’inquinamento. Gli sforzi sono necessari e devono essere il risultato di azioni coordinate: il governo deve garantire l’introduzione di misure legali volte alla protezione del nostro territorio e la collettività dovrebbe fare il resto, occupandosi della tutela e della salvaguardia dell’ambiente.