Autore: Livio Zanotti – 17/11/2020
La dissoluzione dello stato di diritto può diventare un’inarrestabile vertigine, in cui corruzione e inefficienza, disperazione e sangue riproducono se stesse come amebe che instancabili fagocitano le sue istituzioni. Ad arrestare questa pandemia più occulta e letale del Covid, che pure fa strage incessante di vite, non basta neppure un’effervescente primavera economica, come quella che ultimamente ha beneficiato il Perù. Senza un nucleo strategico capace di concepire un’azione realmente rinnovatrice, perfino la più vasta e prorompente protesta, per coraggiosa e persistente che sia, non è risolutiva. Lo conferma l’ennesima, tragica crisi divampata in Perù, dopo aver covato sotto la cenere del trasformismo politico negli ultimi mesi e anni e decenni.
Ora, si è dimesso anche l’ennesimo capo di stato, Manuel Merino, 59, discutibile e molto discusso ex presidente della Camera. I moti di piazza che da una settimana, incessanti, hanno percorso le strade di Lima e del Callao, con due giovani uccisi dalla polizia segreta e centinaia di feriti, lo hanno costretto a una rinuncia che in realtà è una fuga. Aveva sostituito con un colpo di forza parlamentare (il Perù ha un sistema monocamerale) il discusso e nondimeno legittimo capo dello stato, Martin Vizcarra, 57, a poco dalla scadenza del suo mandato e con la data delle più che prossime elezioni già indetta. E formato un governo politicamente trasversale, con transfughi d’opposte provenienze. Il trasparente trasformismo dell’operazione ha scatenato l’indignazione popolare che ha tracimato nelle piazze dei maggiori centri urbani della costa, da Arequipa e Nazca, fin su a Chimbote e Chiclayo, ai confini con l’Equador.
“In Perù è più facile eliminare un Presidente, che condannare un assassino”, è il commento più ripetuto in queste ore. Vizcarra era a sua volta succeduto nel marzo 2018 al centrista Pedro Pablo Kuczynski, inseguito da insistenti e consistenti accuse di malversazione. Poi anche lui, sebbene per episodi tuttavia non provati e riferiti a tempi in cui amministrava una provincia del paese andino, è finito infilzato dagli stessi dardi velenosi. Proprio il ripetersi di simili situazioni, che quasi senza distinzioni politiche e soluzione di continuità hanno falcidiato le massime gerarchie della Repubblica negli ultimi 30 anni almeno, ha portato a una progressiva riduzione delle garanzie concesse al capo dello stato. E a un notevolmente accresciuto potere di controllo e interdizione del Parlamento, forse mal concepito, per un paese di 35 milioni d’abitanti e soli 130 deputati, peraltro suddivisi in una miriade di partiti e fazioni tanto instabili quanto mutevoli nelle rispettive composizioni e linee politiche.
Vizcarra si era opposto ai tentativi rinnovati periodicamente dalla destra estrema egemonizzata dal clan nippo-peruviano dei Fujimori, per liberare l’ex presidente Alberto, che sconta 25 anni di carcere per delitti di lesa umanità e peculato (reati commessi nel corso del suo mandato di Presidente: 1990-2000). Così come a sua figlia Keiko, genio tanto brillante quanto malefico della numerosa famiglia, a sua volta incarcerata per corruzione (è una dei numerosi esponenti politici sudamericani condannati, per aver ricevuto finanziamenti illeciti, in cambio di appalti pubblici dall’impresa di costruzioni brasiliana Odebrecht). Questo magnifico paese è ormai teatro di ambizioni sfrenate e crimini tra i più atroci, tradimenti e usurpazioni, rivalità combattute a colpi d’intrighi che lambiscono settori delle forze armate e mettono in scena passioni shakespeariane.
Un Parlamento spaccato in tre tendenze lascia in queste ore il paese abbandonato a se stesso, in un vuoto di potere avvelenato da interessi e odi manifesti, sebbene non tutti dicibili. Ieri, dopo la rinuncia di Merino, c’era stata un’intesa per sostituirlo provvisoriamente con una candidata del centro-sinistra, Rocio Silva Santisteban, 57, poeta di fama e attiva giornalista. Ma la votazione l’ha rovesciata: ha ricevuto solo 42 suffragi in favore, 52 contrari, 25 astenuti. Nella notte sono riprese le trattative e gli scontri, soprattutto nel popolare Callao. In buona sostanza, stretto tra fujimoristi e centro-sinistra, il sistema democratico gioca adesso le sue possibilità di uscire dal vicolo cieco in cui si è cacciato, su quanto decideranno i centristi di estrazione democristiana che in gran parte corrisponderebbero agli astenuti. Sono l’ago della bilancia. Mentre per le strade si grida contro il Tribunale Costituzionale affinché decida in fretta sul ricorso presentato dall’ex presidente Martin Vizcarra.
Livio Zanotti è nato a Roma e risiede a Buenos Aires.
Nel 2014 riceve il Premio Fersen al Piccolo Teatro di Milano, con la piece “L’ Onda di Maometto” scritta con Alberto La Volpe. Da giovanissimo nel giornalismo al settimanale L’ Espresso, diretto da Arrigo Benedetti, Eugenio Scalfari, Gianni Corbi. Per oltre due decenni lavora poi a La Stampa, con Giulio De Benedetti, Alberto Ronchey, Arrigo Levi, Vittorio Gorresio, Michele Tito, inviato speciale, corrispondente dal Sudamerica e da Mosca, allora capitale dell’ Unione Sovietica. Lascia il grande giornale di Torino per collaborare come editorialista a Il Giorno di Milano e agli “Speciali” del TG1-Rai-TV, diretti da Alberto La Volpe, per i quali realizza numerosi documentari-inchiesta di carattere socio-economico negli Stati Uniti, in Estremo Oriente, nel Sud-Est asiatico. Corrispondente da Berlino alla caduta del Muro e dall’ America Latina dei colpi di stato e delle guerriglie per i TG e radiogiornali RAI, ha pubblicato libri d’ indagine storica e svolto conferenze in Italia e alll’ estero.