Autore: Tiziana Di Simone – 25/11/2019
Vorrei iniziare con i versi di Rainer Kunze, poeta tedesco dissidente nella Germania Est. 30 anni di Storia riassunti nella sua poesia intitolata “IL MURO”:
Quando lo rademmo al suolo, non avevamo idea
di quanto fosse alto
in noi
Ci eravamo assuefatti
al suo orizzonte
E alla bonaccia
Alla sua ombra tutti
non proiettavano ombra
Adesso stiamo denudati
di ogni scusante.
Versi che costituiranno il filo conduttore del mio intervento, basato sulla esperienza da giornalista. Il muro è caduto davvero? Perché i 28 anni di storia del muro di Berlino pesano ancora di più dei 30 passati dalla sua caduta? Si parla sempre di rivoluzione pacifica delle popolazioni dell’est contro il sistema socialista a guida sovietica e della vittoria, per così dire, dell’Occidente liberale e liberista. Ma è proprio così?
Tutte domande complesse che non hanno risposte definitive. 30 anni in effetti non sono abbastanza per trarre conclusioni univoche. Di certo il 9 novembre, l’apertura del muro, è una data che è entrata nella Storia quasi di forza, con un’accelerazione dei fatti che andata di pari passo con un’accelerazione dell’informazione- pensiamo alla famosa conferenza stampa del portavoce del governo della DDR Schabowski che apre le frontiere rispondendo alla domanda del corrispondente dell’Ansa Riccardo Erhmann. Anche perché la gente, centinaia di migliaia di persone, erano pronte a cambiare. Magari la spinta era confusa ma i popoli dell’est volevano guardare oltre e non si aspettavano che OLTRE non era proprio solo un giardino.
Non parlerei tanto di sorpresa, sulla quale hanno insistito in tanti. Forse la successione degli eventi dall’estate al Natale dell’89 ha sorpreso. Ma i malesseri del post Yalta, del blocco comunista venivano dall’Ungheria con la lenta liberalizzazione economica, dalla Polonia di Solidarnosc (per citare gli anni Ottanta). Veniva dallo stesso Gorbaciov che dal 1985 prendendo il potere nell’Urss, lanciò il programma di riforme economiche e politiche (glasnost e perestroika). E se Papa Giovanni Paolo II, oggi santo, arrivato in Vaticano nel 1978, dieci anni dopo, nell’ottobre dell’88 davanti al Parlamento europeo di Strasburgo parlava dell’Europa che doveva respirare con due polmoni (ovest ed est); Gorbaciov nel luglio dell’89 sempre a Strasburgo evocava la sua visione dell’Europa quell’idea di “casa comune europea” che avrebbe dovuto cambiare gli equilibri del Continente. In quel periodo ero una giovane cronista per un piccolo giornale ho avuto l’opportunità di seguire la visita di Gorbaciov a Roma proprio a fine novembre inizi dicembre.
Sotto la statua di Cesare in Campidoglio, Gorbaciov definì il 1989 “insolito”. In quel momento non poteva dire di più.
Visto da ovest, nella Comunità europea – non ancora Unione europea – l’interesse principale era la preparazione del mercato unico del 1992 e i lavori per la creazione di una Unione monetaria. Khöl e Mitterrand, appoggiando il presidente della Commissione europea Jacque Delors, pensavano andare aldilà del mercato unico verso l’embrione di una Europa politica. Ma era davvero un’altra Europa, basti pensare che era a 12 paesi.
Il 9 e 10 novembre, il cancelliere Köhl era in visita ufficiale in Polonia per discutere con il nuovo governo della frontiera polacca-tedesca. Confessò a Walesa, con tristezza, che non l’avrebbe vista prima della sua morte. Nel frattempo il muro cadeva. L’euforia lascio presto la preoccupazione e la paura delle cancellerie europee per la riunificazione tedesca.
In un anno la Germania fu proclamata unita. Ma il muro invisibile tra est ed ovest, gli squilibri economici sono ancora lì. Una conseguenza forse di un’accelerazione della Storia. L’occasione per il cancelliere Kohl, e soprattutto per i tedeschi dell’est che votarono a favore di una rapida unificazione era da non perdere. Ma che gli effetti proprio sui lander dell’est fossero così lenti, nonostante i pesanti investimenti (solo 2000 miliardi dalle finanze pubbliche tedesche), non era certamente prevedibile a chi varcava il muro il 9 novembre 1989 cercando luci, merci introvabili e un’aspettativa di salari migliori.
I popoli dell’est, non solo chi attraversava il muro di Berlino, erano stanchi di aspettare anni per comprare una Trabant, fare la fila nei negozi quando si sapeva che arrivavano nuovi prodotti, non volevano più la carta igienica grigia e di cattiva qualità, ma volevano la società di consumo occidentale, ascoltare la musica che gli piaceva, spostarsi liberamente, senza dove chiedere visti. E poi, non dipendere più da potenze straniere, ritrovare la fierezza nazionale in reazione all’isolamento ma anche a quell’internazionalismo promosso dai regimi comunisti.
Era il momento del grande entusiasmo. Il sondaggio Eurobarometro di dicembre 1989 ci rivela risultati interessanti: 78 % dei cittadini europei erano favorevoli alla riunificazione tedesca, 80 % alla necessità di aiutare i paesi dell’Est a portare a buon fine le loro riforme e 75 % li voleva accogliere nella CEE una volta queste riforme realizzate (Eurobarometre n°32 del 6 dicembre 1989). Di fatto gli aiuti europei si concretizzeranno con l’adozione nel dicembre 1989 del programma PHARE, inizialmente per l’aiuto allo sviluppo in Polonia e Ungheria, poi esteso agli altri paesi.
Sogni, desideri e aspettative legittime ma che sono stati fagocitati dall’economia di mercato capitalistica, senza troppe preoccupazioni di assicurare una ripartizione giusta e il mantenimento dei vantaggi sociali (educazione, sanità, cultura). Fu anche sottostimato un altro bisogno della Storia da parte delle nazioni dell’ex blocco comunista: riaffermare la loro indipendenza e il loro rispetto internazionale prima di essere inglobati in nuove realtà geopolitiche. Passare dal Patto di Varsavia alla Nato e entrare nell’Unione europea.
Dopo che i regimi comunisti avevano per decenni distrutto le strutture sociali tradizionali dei paesi dell’Europa centrale e orientale, una volta abbattuti quei regimi, per ritrovare i loro punti di riferimento era ed è necessario riaffermare la propria identità nazionale. Identità nazionale che non vuol dire necessariamente nazionalismo nell’accezione sovranista (spesso negativa) che oggi diamo.
Passare dall’economia pianificata a quella di mercato con le conseguenze inevitabili (aumento disoccupazione, riduzione protezione sociale, precarietà) hanno inevitabilmente creato frustrazione. Eppure le cifre giocano a fare di questo processo. Dal 1989 il pil pro capite in Polonia è aumentato del 700 per cento e di oltre 600 in Slovacchia, paese che non esisteva fino al 1991. Il crollo del muro di Berlino ha creato ANCHE una nuova carta geografica d’Europa. A volte lo dimentichiamo.
Insomma l’accelerazione della seconda metà dell’89 non ha trovato almeno in termini di velocità e percezione, riscontro nell’atteso cambiamento del livello di vita delle popolazioni. Durante il periodo di crisi economica, dal 2007 al 2018, lo stesso PIL pro-capite è aumentato tra 10% in Repubblica Ceca, del 17 % in Ungheria e 34 % in Polonia, ma in tutti i paesi rimane inferiore alla media Europea. E siamo entrati in un’altra Europa. Nel 2004, il quinto e il più grande allargamento dell’Unione europea, portò a Bruxelles 10 paesi, quasi tutto l’ex blocco comunista (tranne Romania e Bulgaria). La Germania est, la ex DDR, entrò automaticamente nella Comunità con la riunificazione e non è detto che tutti furono automaticamente soddisfatti.
Intanto la strada dell’allargamento ad est dell’Unione europea era partita. Tredici anni dopo LA CADUTA DEL MURO DI Berlino, nell’ottobre 2002 l’allora presidente della Commissione europea, Romano Prodi a Bruxelles di chiarava che tutto era pronte, almeno le relazioni della Commissione e che quell’allargamento, “è l’estensione a tutto il continente del processo che ci ha dato 50 anni di pace e di prosperità ed è il nostro capolavoro politico”.
In quegli anni ero corrispondente a Bruxelles e devo dire che l’euforia sia all’Est, sia all’Ovest dei primi anni dopo la caduta del muro di Berlino, era superata abbastanza rapidamente. Cercando casa proprio nel 2002 per trasferirmi a Bruxelles, le agenzie immobiliari che si trovavano nel quartiere delle euro-istituzioni mi chiedevano la nazionalità. La terza volta che mi hanno chiesto da dove venivo, ho chiesto a mia volta perché, che differenza fa per voi? La risposta fu secca: “Sa siamo invasi dai nuovi, quelli che vengono dai paesi dell’est, non siamo sicuri quanto resteranno e se pagheranno?”. Un aneddoto che la dice lunga sulla percezione dell’epoca.
Dalle rilevazioni statistiche dell’Eurobarometro vediamo come quell’allargamento diventò rapidamente un tema di inquietudine. L’Ue a 15 paesi nel 2000 vedeva solo un 44 per cento di cittadini favorevoli al processo.
Le paure principali erano legate alla perdita di posti di lavoro a favore dei paesi con basso costo di manodopera (60%). (Eurobarometre n°54, autunno 2000). Due anni dopo, se in teoria c’è un supporto per l’allargamento dal punto di vista geopolitico, i timori sono cresciuti tra i cittadini dell’Ue a 15: solo il 29 % pensa che l’allargamento creerà più posti di lavoro o migliorerà la loro qualità di vita mentre il 48 % pensa il contrario (Eurobarometre N°56.3, maggio 2002).
Una tale percezione negativa da parte del blocco dell’ovest è stata considerata negativamente dai nuovi arrivati. I referendum di adesione all’Unione europea tenutisi nel 2003 negli otto paesi dell’ex cortina di ferro registrarono il picco di partecipazione (72 per cento) in Lettonia e il minimo in Ungheria (45 %); la Polonia 58.5. Insomma nessun plebiscito per l’Europa e lo vediamo ancora oggi.
Un’altra tappa dell’accoglienza non trionfale dei cittadini della “Nuova Europa” – con la definizione che Rumsfeld rispolverò nel 2003 durante la guerra contro l’Iraq che provocò non poche polemiche- contro la Vecchia Europa. La Nuova sarebbe stata più filo statunitense, ovviamente pur di contrastare la Russia, non più sovietica ma sempre Russia. Dicevo un’altra tappa fu la fine del trattato costituzionale dell’Europa affondato dai referendum in Francia e Olanda nel 2005. Per certo la paura dell’idraulico polacco e la campagna referendaria socialista francese contro quell’emergenza, ebbero ragione per la vittoria dei NO. Ma certo alimentarono i timori. Nel 2006 il 73 % dei cittadini europei, Eurobarometro ancora, pensava che l’allargamento avesse aumentato il numero dei lavoratori trasferiti dall’est verso l’ovest dell’Unione con un impatto negativo sull’economia del proprio paese. Era l’opinione diffusa ad ovest.
Nel 2009 più della metà dei cittadini dei paesi dell’est pensava che l’allargamento aveva reso la loro vita più insicura e con meno lavoro. In media il 28 per cento diceva di stare meglio prima dell’89. In questo sondaggio bisogna dire che sono comprese anche Romania e Bulgaria entrate nel 2007.
Se i numeri parlano, la percezione dell’Unione europea nell’ex blocco comunista non è stata vincente. Basta guardare anche i tassi di partecipazione alle elezioni per il Parlamento europeo. Nel 2014 la Polonia era intorno al 24 e l’Ungheria quasi al 29. Cito solo i due più grandi e anche più discussi al livello europeo. Entrambe nel gruppo di Visegrad, insieme a Slovacchia e Rep. Ceca, pronti a rivendicare ruoli all’interno dell’Unione, a bloccarne le politiche a partire da quella della redistribuzione dei migranti e a mettere in discussione i valori della democrazia confezionati a Bruxelles.
Nell’ultima tornata elettorale del giugno 2019 Polonia e Ungheria hanno sensibilmente aumentato il tasso di partecipazione attestandosi intorno al 45 per cento. E siamo nel cuore della protesta anti europea, tra Orban e Kacinsky. La Polonia del Pis, Diritto e giustizia, partito nazional-conservatore è sotto procedura d’infrazione per la riforma della giustizia. Stessi dubbi sull’Ungheria e richiesta procedura per violazione dell’indipendenza della giustizia, la libertà di stampa o i principi fondamentali in difesa degli immigrati.
Sono passati 30 anni, da quel 1989 quando proprio l’Ungheria e la Polonia erano le teste di ponte più avanzate per far crollare il blocco dell’est, tenuto insieme dall’ormai debole Unione sovietica. Due paesi con una Storia europea che non può essere ridotta, compressa, al tempo della cortina di ferro. Paesi che rivendicano la loro identità nazionale, che vogliono pesare nell’Unione non in base-soltanto alla redistribuzione dei voti nel Consiglio europeo. Non per giustificare gli scivoloni antidemocratici di Polonia ed Ungheria ma per capire che il tempo della politica, dei cambiamenti economici, delle rivendicazioni nazionali, forse non è stato abbastanza. L’osmosi est/ovest non ha funzionato, anche perché il tempo delle élite, dell’Europa delle élite è finito. Ma quale Europa si stia costruendo e in quale modo- davvero non è chiaro.
Anche i confusi equilibri politici usciti proprio dalle ultime elezioni europee in quel Parlamento che comunque è lo specchio politico dell’Unione non rassicurano. Sarà difficile portare avanti i provvedimenti e rispondere a questioni urgenti (dal lavoro al clima) dei prossimi 5 anni. Basta vedere le difficoltà che affronta la Commissione Van der Leyen a insediarsi. La prima a guida di una donna, popolare, e che – se è pur vero che la Commissione è la guardiana dei Trattati europei, con aspirazione super partes – rappresenta sempre e comunque la prima presidenza della Commissione europea della Germania unita.
Penso che l’Unione è fatta di tanta economia, tanta politica ma anche di più di tanta cultura. Per questo avevo iniziato con una poesia del tedesco, Kunze, dissidente della DDR e voglio chiudere citando il drammaturgo politico, protagonista della rivoluzione di Velluto a Praga, Vaclav Havel, cinque anni dopo la caduta del muro
“Se i cittadini d’Europa comprenderanno che l’Ue non è solo un mostro burocratico anonimo che vuole porre limiti, ma è un nuovo tipo di comunità umana che offre libertà, allora quell’Unione non deve temere per il suo futuro”.
E qui la Storia ha perso tutta la sua accelerazione dal 1989 ad oggi.
Testo dell’intervento di Tiziana Di Simone al Seminario A trent’anni dalla caduta del Muro di Berlino, tenutosi il 19 novembre 2019, presso il Senato della Repubblica Italiana – Sala Commissione Difesa.
Tiziana Di Simone – Giornalista professionista dal 1990, è in Rai dal 1992. Per Radio 1 Rai cura e conduce “Caffè Europa”, in onda ogni sabato mattina alle h.7.30. È stata corrispondente dalla sede Rai di Bruxelles dal 2003 al 2008.
Da vent’anni è responsabile di spazi settimanali dedicati all’Europa su Radio 1. Nel 1998 ha ideato la trasmissione di informazione e intrattenimento Noi europei. Dalla collaborazione creativa con Umberto Broccoli, nasce l’anno dopo In Europa, in onda per 15 anni. Per 5 anni ha animato su Gr Parlamento, la trasmissione quotidiana “Spazio Europa”.
This article is published within the Platform Europe Project
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