Autore: Stefano Ricci – 21/09/2019
Nel 2014, l’informatico statunitense Ian Goodfellow introdusse, nel campo dell’addestramento automatico, il concetto di “rete generativa avversaria”, un modello caratterizzato dalla presenza di due reti neurali (di modelli matematici, cioè, impiegati nella soluzione di problemi legati all’intelligenza artificiale) realizzate in modo da competere all’interno di una struttura minimax (da intendersi come “minimizzazione del massimo rischio possibile”).
Proprio la rete generativa avversaria e, parallelamente, i concetti di intelligenza artificiale e apprendimento automatico, sono alla base della nozione di deepfake, una tecnica informatica di recente ideazione finalizzata alla commistione di video e/o immagini originali con contenuti già esistenti, per risultati estremamente fedeli alla realtà.
Per diverso tempo, la rete generativa avversaria rimase un argomento limitato ai laboratori accademici, a disposizione di quei ricercatori impegnati nell’elaborazione di contenuti digitali, in particolar modo nel campo dell’interpretazione automatica di immagini o video.
Tuttavia, nel 2017, sulle pagine dell’aggregatore di social news Reddit apparve il commento di un utente rimasto anonimo, “deepfakes” per l’appunto, che mise a disposizione della community una selezione di applicativi open-source da lui sviluppati tramite cui realizzare filmati pornografici contraffatti, prendendo in “prestito” i volti di celebri attrici del nostro tempo.
Com’è facile immaginare, il fenomeno esplose in ogni angolo del web: d’un tratto, la mistificazione non era più appannaggio esclusivo di grandi industrie tecnologiche, ma poteva realizzarsi persino nel piccolo studio virtuale di casa propria (sebbene siano necessarie, ancora oggi, abbondanti risorse informatiche e un gran numero di video in alta risoluzione della “vittima” prescelta).
Il passaggio del deepfake al mondo politico fu estremamente rapido: già nel 2018, apparvero i primi tentativi di political deepfake – a sfondo spesso satirico – in cui venivano raffigurati i principali esponenti del mondo politico a stelle e strisce mentre parlavano a ruota libera con giornalisti e collaboratori, lasciandosi andare in considerazioni poco edificanti sui propri avversari e alleati.
Inutile sottolineare, in questa sede, quanto realistico e verosimile fosse questo genere di contenuti; furono molti gli addetti ai lavori a cadere nella trappola dell’illusione.
Giunti a questo punto dovremmo allora chiederci cosa una simile tecnologia potrebbe rappresentare per l’immediato futuro, specie se inserita all’interno d’un contesto internazionale sprovvisto degli opportuni accorgimenti legislativi: la fusione di “falso” e “reale” sarebbe allora realizzata, complice il diffuso impiego di dispositivi, come gli smartphones, che rendono oggi immediata la condivisione di contenuti spesso artefatti.
Come evidenziato da Foreign Affairs, quali potrebbero essere le conseguenze della diffusione d’un deepfake video ritraente il Primo Ministro israeliano occupato in una conversazione in cui viene rivelato un piano militare segreto per condurre omicidi politici oltre i confini iraniani?
L’arte della disinformazione, insomma, si è oggi dotata d’un nuovo strumento in grado di veicolare fake news estremamente realistiche e d’immediato impatto emotivo, sbilanciando la competizione politica verso una dimensione in cui a contare non è poi tanto il contenuto di una notizia, quanto l’instillazione nel pubblico d’un sottile dubbio che possa mettere in discussione posizioni già consolidate.
Indebolire lo strato della realtà per frammentarne gli schieramenti e isolare i singoli, radicalizzare ogni discussione al fine di generare confusione e fratture nel tessuto sociale di un dato paese.
Il tutto con l’obiettivo di assicurarsi un decisivo vantaggio in un contesto, come quello economico, politico o militare, combinato e integrato: non è forse questo il fine ultimo dell’information warfare, di cui la guerra cibernetica non è che un’espressione?
Ancora una volta, dunque, cyber-warfare non deve certo esser considerato unicamente come sinonimo di “guerra informatica”, quanto di conquista e dominio dello spazio virtuale: è qui che la comunicazione politica ha trovato nuovo terreno ed è qui che si svolgono – nel bene o nel male – i principali dibattiti d’attualità.
Qui, privi di mediazione, vengono estremizzate le posizioni degli schieramenti “pro” e “contro”.
Dibattiti, poi, che riescono a trovare espressione tutta nel palmo della nostra mano, fra app e social network; ricordiamoci, ancora una volta, di abitare un’epoca in cui quello di “condivisione” sembra essere il concetto fondante d’ogni frammento del quotidiano, dall’IT alla vita privata.
Mutuando una citazione classica di uno dei padri fondatori del pensiero geopolitico quale fu MacKinder, chi controlla la disinformazione controlla l’informazione: chi comanda l’informazione comanda il mondo.
Stefano Ricci, lavora come data analyst, per un’importante società italiana di import – export e come freelance cyber-security analyst. E’, inoltre, autore del volume: Cyber Warfare: Verso Un Nuovo Paradigma Strategico, 2017 (Cyber-Warfare – Towards a New Strategic Paradigm)