Autore: Marco Tarchi – 22/05/2019
Riportiamo qui di seguito la parte finale dell’editoriale del numero 348 di Diorama, mensile diretto dal Prof. Marco Tarchi
Le cifre dei sondaggi, proiettate anche oltre i dati elettorali, dimostrano che nelle popolazioni oggetto della pressione migratoria gli scettici e gli avversari di questo fenomeno sono tuttora maggioranza. C’è chi si limita a compiacersene e c’è chi si illude che questo stia a significare che la barriera non cederà mai e, prima o poi, l’ondata regredirà. È il caso di quasi tutti gli odierni movimenti populisti, che a causa di questa ingenua visione si limitano a capitalizzare sui timori e sulle ripulse della “gente comune”, trascurando la necessità di una articolata, adeguata e intelligente controffensiva culturale atta a far comprendere a chi si limita a reazioni epidermiche quale sia la vera posta in gioco in questo processo. I leaders di queste formazioni politiche si compiacciono spesso di fare la faccia feroce, di passare per cattivi, ironizzando e minimizzando di fronte alle argomentazioni degli avversari. E magari strizzano l’occhio, o fanno finta di non vedere, quando qualche pattuglia di insensati estremisti dà sfogo ad atti di odio o intolleranza che non possono che suscitare effetti boomerang e reazioni di sconcerti ad osservatori non schierati. È un grave errore. All’inganno umanitarista non si risponde con battute ad effetto, ma con argomenti fondati ed efficaci. Agli stereotipi non vanno opposti stereotipi di segno opposto. Al ricatto della compassione non si risponde con il ricatto della paura. Oltre i no, va tracciato uno scenario positivo e plausibile.
Questo orizzonte è, come dicevamo, quello di un recupero delle ragioni profonde delle identità che caratterizzano le specificità di ciascun popolo, di un’alimentazione continua – e, quando è il caso, di una rivitalizzazione e di un adeguamento – delle tradizioni che quelle identità hanno forgiato. È l’ideale di un’Europa non affogata negli egoismi nazionali che tanti danni le hanno causato in passato ma proiettata verso una progressiva armonizzazione delle diversità che la compongono, in vista della formazione di uno di quei grandi spazi in cui Carl Schmitt sperava di veder evolvere la dinamica del mondo contemporaneo. All’utopia cosmopolita di un’umanità indifferenziata occorre saper contrapporre un credibile mito aggregativo che non faccia temere future catastrofi planetarie ma sperare un riequilibrio delle forze in campo, un ridimensionamento delle prepotenze, un recupero di quell’autonomia del Vecchio continente che è andata perduta nel succedersi delle tragedie del Novecento ma anche di quell’indipendenza reale che l’egoismo delle superpotenze ha negato, e di fatto continua a negare, ad altri blocchi continentali: all’Africa, all’America del Sud, all’Asia. È questo il “programma minimo” (malgrado la sua apparenza smisurata) a cui chi sa guardare al di là delle miserie dell’oggi deve puntare, con un’azione di produzione e divulgazione culturale – e metapolitica nel senso più coerente della parola – che è, purtroppo, ancora ai suoi primi passi.
Marco Tarchi è un politologo e docente italiano, professore ordinario presso la Facoltà di Scienze Politiche Cesare Alfieri dell’Università di Firenze dove attualmente insegna Scienza Politica, Comunicazione politica ed Analisi e Teoria politica.
Questo testo è pubblicato nell’ambito del Platform Europe Project
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