Autore: Alberto Cossu – 05/04/2019
La guerra del prezzo del petrolio si sta surriscaldando. E può realmente cambiare gli assetti dell’ordine mondiale. Ai livelli alti della Monarchia saudita – secondo quanto riporta l’agenzia Reuters – è stata ventilata la possibilità, almeno informalmente, di abbandonare il dollaro, valuta adottata per i pagamenti del petrolio e sostituirla con altre. I rapporti tra USA e Arabia Saudita a dispetto delle apparenze si stanno facendo sempre più tesi. Sebbene la Monarchia saudita sia geopoliticamente al fianco degli USA e schierata contro l’Iran, gli interessi stanno diventando sempre più divergenti, almeno quelli economici. L’Arabia Saudita ha bisogno del sostegno statunitense per contenere l’Iran e aspirare ad esercitare una leadership nell’area del Golfo Persico, ma rischia di trovarsi in una trappola che può limitare le sue aspirazioni.
L’interesse dell’Amministrazione Trump è di tenere il prezzo del petrolio basso, perché da un lato un aumento si ripercuoterebbe sull’economia statunitense, ma soprattutto perché sarebbe causa di turbolenze nell’economia mondiale. C’è inoltre da dire che i flussi finanziari generati dalla vendita alimentano le entrate dei bilanci dei Paesi del Golfo Persico e, conseguentemente, influenzano anche le loro capacità operative, militari, economiche e politiche. Un prezzo alto vorrebbe dire più risorse finanziarie nelle casse soprattutto dei “bisognosi” Paesi del Golfo che con i prezzi bassi del petrolio hanno visto – come recentemente segnalato dal Fondo Monetario – crescere i loro deficit di bilancio fino a raggiungere importi non sostenibili nel medio lungo periodo. Una situazione come quella attuale, in cui i prezzi sono ancora troppo bassi, non consente in primo luogo all’Arabia Saudita di portare a termine il progetto di diversificazione dell’economia Vision 2030 e inevitabilmente ne limiterebbe anche l’operatività sul fronte militare.
La produzione nordamericana viene mantenuta alta in modo da compensare le riduzioni conseguenti alle sanzioni contro l’Iran e il Venezuela. Inoltre, per compensare parzialmente i tagli dell’Opec e quelli più consistenti dell’Arabia Saudita. La conseguenza di tutto ciò è che gli USA sono diventati il maggior esportatore mondiale e conquistano quote di mercato sempre più rilevanti, sottraendole all’ Arabia Saudita e agli altri Paesi Opec, compresa la Russia, che invece riducono l’offerta. Il Regno saudita, in particolare, sta riducendo la produzione, ma anche in modo chirurgico limitando le forniture di petrolio agli USA nella speranza di metterli in difficoltà. I risultati in questo senso sono piuttosto limitati, anzi stanno avendo effetti contrari, spingendo ad una accelerazione della produzione nordamericana. Trump ha, infatti, recentemente invitato le grandi compagnie petrolifere ad impegnarsi attivamente nell’ estrazione di shale oil e gas nel bacino texano Permian basin. Questo vuol dire che nei prossimi anni assisteremo ad un aumento notevole della produzione e della presenza statunitense nel settore energetico sulla scena mondiale.
In questo contesto il ruolo della Russia è stato quello di appoggiare i tagli alla produzione, assecondandoli anche se spesso non nella misura concordata, con lo scopo di mettere in difficoltà gli USA. Emergono però crescenti difficoltà per la Russia di tenersi allineata ad una tale politica.
Infatti, stanno emergendo nel Paese due posizioni differenti: una favorevole ai tagli, sostenuta da Krill Dmitriev, capo del Fondo sovrano della Russia, ed una contraria, quella della principale azienda petrolifera Rosneft, guidata da Igor Sechin. La Federazione con le sue decisioni potrebbe spostare gli equilibri, ma si trova in una posizione piuttosto scomoda. Infatti, se appoggia i tagli, l’economia della Russia e dell’Arabia Saudita ne beneficerebbero immediatamente. Ma poiché gli USA contemporaneamente aumentano la loro produzione, questo si potrebbe tradurre nell’ offrire un vantaggio competitivo agli Stati Uniti che conquistano maggiori quote di mercato, consolidandosi come maggiore esportatore mondiale.
La ventilata possibilità di abbandonare il dollaro come valuta di riferimento per le transazioni petrolifere, prospettiva non facile da attuarsi e neanche nell’immediato, è comunque un segnale di quanto le relazioni tra i due Paesi si stiamo surriscaldando. Avanza, infatti, al Congresso il NOPEC bill, che se fosse approvata, fornirebbe all’Amministrazione americana lo strumento per denunciare di fronte all’autorità antitrust l’Opec in quanto un cartello che manipolerebbe il prezzo del petrolio. La legge è ancora lontana dall’essere approvata e si dice che le possibilità che lo sia sono piuttosto limitate. Comunque, è un altro segno che le due parti non si stanno preparando per abbracciarsi, ma predispongono armi economiche per danneggiarsi. L’idea di sostituire il dollaro in alcune transazioni economiche con altre valute non è nuova. È stata recentemente portata avanti da diversi paesi: Iran, Cina, India ed Europa. L’obiettivo manifesto è di tentare di diminuire il potere sanzionatorio degli USA e attutirne l’impatto. I risultati finora sembrano abbastanza scarsi, ma se nel futuro le azioni in questo senso dovessero intensificarsi, si configurerebbe uno scenario tale da mettere in difficoltà uno dei pilastri su cui si regge l’attuale ordine mondiale: il dollaro.
Insomma, stiamo assistendo ad un conflitto economico in primo luogo tra due giganti del settore della commodity petrolio con la partecipazione di un terzo, la Russia, che può diventare l’ago della bilancia rischiando, come le recenti prese di posizione dell’amministratore di Rosneft dimostrano, di trovarsi in un gioco particolarmente pericoloso in cui possono perdere posizioni economiche a favore degli USA. Gli equilibri mondiali dipendono sempre di più anche dalle dinamiche del mercato delle commodity, in particolare del petrolio, ma anche del GNL che possono influenzare la forza degli attori in gioco, giacché sono strumenti per trasferire ricchezza da un paese ad un altro e, conseguentemente, anche forza politica.
Il mercato dice la sua, ma la politica vuole sempre più contare.
Alberto Cossu, analista senior di Vision & Global trends